Politica Internazionale

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lunedì 6 dicembre 2010

varie

Due fronti internazionali occupano le forze diplomatiche USA, in questo momento, da un lato la Cina e dall’altro i paesi Arabi più ricchi. La questione con la Cina nasce dalla mancata sanzione ufficiale da parte di Pechino alla Corea del Nord; Obama ha necessità di risolvere al più presto la questione delle due Coree perchè non può permettersi un coinvolgimento troppo lungo, sia per il tempo che economicamente, in un possibile conflitto in cui è finito controvoglia trascinato da Corea del Sud e Giappone, partner essenziali per la bandiera a stelle e strisce. Gli USA contavano più sul lavoro diplomatico, che sull’uso della forza, e sull’appoggio del più grande partner dei nordcoreani: la Cina.  Pechino ha mantenuto un basso profilo, pur condannando l’aggressione all’isola sudcoreana non è andata, ufficialmente, oltre le dichiarazioni di facciata contro l’episodio bellico. L’impressione è che la Cina lavori sottotraccia perchè in Corea del Nord è in atto una transizione dinastica al potere (unico caso al mondo di dinastia comunista), Pechino considera la Corea del Nord un punto chiave per il proprio scacchiere di alleanze, giacchè bilancia l’alleanza della Corea del Sud con gli USA. Non si tratta solo di geopolitica e di alleanza militare, si tratta sopratutto di un’alleanza in chiave economica, la Cina non vuole ai suoi confini un concorrente economico agguerrito come potrebbe essere la Corea unita. Gli USA, in questo momento, hanno esigenze più urgenti distogliere l’attenzione dai teatri di Iraq ed Afghanistan non rientrava nei piani e si trovano coinvolti in una contesa di cui non avevano bisogno. Per questo motivo l’atteggiamento pacato di Pechino non è risultato gradito ad Obama. Ma non c’è solo la Cina a preoccupare Washington, indagini accurate sui movimenti di denaro dagli stati arabi più ricchi (E.A.U. ed Arabia in particolare) verso Iraq, Afghanistan ma sopratutto Pakistan hanno individuato il principale canale di finanziamento dei gruppi terroristici. La grande massa di rimesse di lavoratori emigrati nei paesi ricchi produce un flusso costante di denaro, ma i dati numerici effettivi delle transazioni verso il Pakistan sono il doppio di quelle ufficiali, è chiaro che si tratta di fondi occulti che vanno nella quasi totalità dei gruppi terroristici dell’Islam estremo. Non solo, è praticamente accertato il finanziamento diretto con passaggio di capitali, ma anche di armi e know-how dall’Iran verso i gruppi terroristici quali Hezbollah, Al Qaeda ed anche quelli dell’America Latina. Bloccare o almeno limitare questi flussi vuole dire restringere le possibilità di manovra dei gruppi terroristici ed indirizzare le guerre in corso verso la parola fine.
La crisi finanziaria attuale ha tra i maggiori responsabili il settore bancario; la massa di prestiti immessi nel sistema varia da quattro volte il pil dell’Irlanda in crisi alle cinque volte della più solida Gran Bretagna. La situazione economica non pare in via di rapida risoluzione, non basta la locomotiva tedesca a trainare un sistema in difficoltà generale e purtroppo alcuni esperti come Strauss Kahn prevedono una nuova crisi finanziaria che riguarderà principalmente le banche. La grande esposizione bancaria potrebbe creare l’accartocciamento del sistema e generare una crisi a cascata che coinvolgerebbe, dopo le banche, tutti i settori produttivi a causa del blocco del credito. E’ una visione catastrofica, che contempla se non un blocco totale, una paralisi del sistema economico a livello mondiale. In questo scenario futuribile, ma purtroppo possibile, si innesta la strategia di Wikileaks, che non a caso, minaccia nuove rivelazioni  proprio sul sistema bancario. Il tempismo perfetto suscita più di un sospetto sulla volontà destabilizzatrice dell’australiano. Dopo le minacce e le attese per i primi file, rivelatesi poi poco più di una bolla di sapone non appaiono credibili le intenzioni di Assange come novello Robin Hood, eroe disinteressato contro il sistema; minacce come le sue, anche se infondate, possono provocare durante l’attesa dei documenti pesanti passivi borsistici, a chi conviene in questo momento una speculazione del genere? Una volta per risollevare l’economia si diceva che occorreva ricorrere alla guerra, ora questo non basta più per smaltire il surplus di produzione e peraltro è praticamente impossibile, per fortuna,  praticare azioni militari di eserciti regolari sui territori dei paesi ricchi, che al massimo patiscono azioni terroristiche; l’opzione  militare è ancora utilizzata per i paesi poveri. Le possibilità della tecnologia consentono operazioni più fini che non lo spargimento di sangue, chi sta dietro a Wikileaks pare più interessato a praticare il dissesto politico e finanziario, la guerra reale a certe latitudini non è più conveniente, più redditizio è spostare informazioni con la conseguenza di permettere determinate azioni convenienti a determinate lobby piuttosto che ad altre, siamo in un quadro ancora troppo oscuro per chi sta fuori ma le prossime vicende dovrebbero alzare la nebbia almeno un poco.
Pronte al via le manovre militari congiunte tra USA e Giappone, in concomitanza con il cinquantesimo anniversario dell’alleanza tra i due paesi. Ingenti le forze messe in campo: un totale di 44.000 soldati, 40 navi da guerra nipponiche e 20 statunitensi, tra cui la portaerei nucleare George Washington, un dispiegamento enorme di forza, a cui si aggiungeranno, come osservatori, militari sudcoreani. Il segnale, in questo momento, è per la Corea del Nord, già sotto la lente per l’attività connessa alla costruzione della bomba atomica, ed ora sotto stretta osservazione per le scaramuccie militari al confine con la Corea del Sud. Pyongyang per ora non ha emesso alcuna dichiarazione ufficiale, ma è fin troppo palese che consideri le prossime manovre nel Mar Giallo come una provocazione, tutto sta a vedere se le minaccia sortirà l’effetto di spaventare il regime dinastico comunista o se, di contro, farà ulteriormente alzare la tensione. Gli USA sono stati sollecitati dai giapponesi, che più volte ed in più sedi hanno sollevato il problema nordcoreano, la vicinanza di uno stato fuori dal controllo e dagli schemi in possesso di un’atomica suscita a Tokyo molte preoccupazioni, non certo sopite dalle cannonate sparate verso l’isola di Yeonpyeong, dove, frattanto, la Corea del Sud dichiara di avere posizionato parte della propria artiglieria pesante, pronta a rispondere al fuoco nemico; la strategia militare, continuano le fonti governative di Seul, prevede anche l’impiego della forza aerea pronta ad alzarsi in volo in caso di attacco. Per ora tra le due Coree la situazione è di stallo, aldilà dei preparativi militari, che ci sono anche nel nord, quello che si registra è un gelo diplomatico profondo, l’unico lavoro è quello sottotraccia di USA e Cina, che hanno attivato tutti i canali disponibili per smorzare le possibilità di conflitto. Anche la Cina non ha emesso dichiarazioni, per ora, sulle manovre congiunte USA e Giappone, ma se il silenzio resterà tale, potrebbe suonare come monito per la Corea del Nord, di fatto sanzionata dal suo principale alleato. Difficile capire le strategia nordcoreana, quale scopo, in un momento di transizione dinastica e sotto stretta osservazione mondiale per il problema dell’atomica, può avere un possibile conflitto con il paese gemello? La tesi della strategia diversiva per spostare l’attenzione dalla bomba atomica non pare reggere, perchè anzichè allontanare l’attenzione l’aumenta, pare più probabile, invece, rimarcare l’opposizione ad una paventata riunione in un unico paese delle due coree sotto l’egida del sud, a questa possibilità i burocrati militari del nord potrebbero avere risposto con l’azione militare per aumentare il solco tra i due paesi, stroncando sul nascere un’unione in senso democratico.
L’irritazione della Cina continua a salire per il caso del Nobel per la pace. Dichiarazioni ufficiali di Pechino, provenienti dal portavoce del ministero degli esteri, parlano della difficoltà oggettiva di mantenere rapporti amichevoli con la Norvegia, proprio per l’attribuzione del prestigioso, e mediatico, premio al dissidente Liu Xiaobo, attualmente condannato ad undici anni di prigione. Inoltre sono stati sospesi i negoziati per il libero scambio tra i due paesi, ufficialmente per consultazioni interne in seno al governo cinese. La Norvegia tira dritto per la sua strada, malgrado l’assenza certa di Lui Xiaobo, il comitato per l’assegnazione del premio Nobel ha confermato la premiazione per la data prevista: il 10 dicembre. I casi del genere nella storia del premio sono stati pochi, anche perchè in assenza del premiato c’era chi ne ha fatto le veci. Per la Cina la cassa di risonanza mediatica con ripercussioni negative sarà impressionante, Pechino si aspetta di essere sulla bocca di tutti i paesi più importanti e  delle organizzazioni internazionali, che daranno sicuramente la loro condanna al comportamento cinese. Non sarà un buon biglietto da visita per le aspirazioni cinesi di superpotenza accettata al tavolo delle nazioni che contano; la politica cinese si muove a fatica sul terreno dei diritti umani ed un ostacolo del calibro del premio Nobel non è un inciampo da poco. D’altra parte il fronte interno è di altrettanto difficile gestione, la sindacalizzazione e la  presa di coscenza dei lavoratori giunta alle pressioni sui diritti umani proveniente dal ceto intellettuale, pongono i governanti cinesi a mosse ben ponderate; allentare la stretta con concessioni ai lavoratori sulle condizioni di lavoro  è cosa ben diversa dal concedere la libertà, anche a tempo, ad un dissidente per ritirare il premio Nobel, su questo Pechino non può cedere. Ma minacciare la rottura diplomatica con un paese per il solo fatto di consegnare un premio, sia pure il Nobel, è segnale di grande disagio, di non riuscire a gestire la situazione, in questo caso, per il versante diplomatico il gigante mostra piedi d’argilla.
La vittoria nel referendum per l’espulsione degli stranieri autori di particolari crimini in Svizzera scava un solco profondo con la UE; i trattati bilaterali e la direzione presa dall’Europa su questi temi vanno nel senso opposto dal sentire comune della Confederazione elvetica. Il problema è sostanziale su questo binario l’entrata in Europa della Svizzera non è facile, in più siamo di fronte ad un paese spaccato a metà, infatti se è vero che in tutti i cantoni meno uno ha prevalso la vittoria dell’espatrio, su base linguistica il rapporto si/no è schiacciante nella popolazione di lingua tedesca ma molto meno in quella di lingua francese. Non che nel paese ci sia molta difformità, dato che la proposta alternativa al quesito referendario prevedeva comunque l’espulsione, ma applicata ad una rosa meno ampia di reati. Dunque la Svizzera appare abbastanza compatta sul problema della criminalità proveniente da fuori, la novità è che ha sancito con referendum quello che è un sentire comune delle popolazioni europee ma non delle istituzioni della UE. L’affermarsi di partiti nazionalisti e localisti portatrici di istanze particolari e territoriali, con una visione chiusa sull’immigrazione costituisce terreno fertile per argomenti come quello discusso nella confederazione di Berna e costituisce un pericolo per le politiche comunitarie, sempre più in equilibrio, per conciliare le richieste periferiche con le tendenze centrali. Il sintomo di visioni così radicali è una spia per la UE, che deve al più presto affrontare il malessere con finanziamenti e politiche ad hoc, in modo da gestire il disagio dal centro, per impedire pericolose fughe in avanti dalle periferie con comportamenti, anche normativi, che portino ad una spaccatura pericolosa nel nuovo tessuto sociale. La UE non può fare a meno dell’immigrazione sopratutto per ragioni economiche, limitare le situazioni potenzialmente pericolose è una necessità per non scivolare in pericolosi estremismi.
I primi file confidenziali di Wikileaks non hanno detto nulla che gia’ non si sapeva, al di la’ delle dichiarazioni di facciata in onore di segreti di pulcinella, cara ad una visione ipocrita e vecchia dell’azione diplomatica,  e’ stato tutt’altro che l’undici settembre della diplomazia mondiale. Giudizi gia’ letti su tutti i giornali, su cui non vale la pena soffermarsi. E’ importante, invece, riflettere su una frase particolare di Assange, che afferma che nessun altro governo americano ha contrastato la liberta’ di stampa come ha fatto Obama. L’affermazione e’ particolarmente forte, ma anche indicativa di qualcosa che puo’ star dietro a tutto il polverone alzato. Prima cosa, i file diffusi, ormai e’ acclarato, non danneggiano alcuno, se non la Clinton, come capo della diplomazia americana, ma soltanto perche’ i giudizi della sua amministrazione sono stati resi pubblici, ma si tratta di giudizi che tutte le cancellerie e le organizzazioni diplomatiche hanno nei loro archivi, e’ il loro lavoro emettere giudizi per le loro alte cariche, quindi fino a qui nulla di strano. Seconda cosa, non vengono praticamente toccate, almeno fino ad ora, le precedenti amministrazioni repubblicane, ed anche nei casi dei file riguardanti la tortura, niente di nuovo, esistevano gia’ abbondanti inchieste giornalistiche. Terza cosa il clamore mediatico sollevato, ha creato una attesa anche spasmodica nei governi e nelle opinioni pubbliche, attesa giustificata per quello promesso, ma delusa per quello ottenuto, puo’ trattarsi di un metodo di ricatto verso qualcuno? Si tenga conto che si dice di altri file riservati pronti ad essere messi in rete, ma perche’ bruciare l’effetto come ormai e’ stato fatto con autentiche bolle di sapone? La vittima principale e’ chiaro e’ la macchina ed il modo di intendere la politica internazionale di Obama, forse Assange e’ indirizzato da qualcuno che si muove dentro gli USA ed ha interessi opposti al presidente statunitense? Nel caso dei file della tortura l’autore dell’esportazione dei file riservati dovrebbe essere stato un caporale dei marine, chi conosce l’ordine gerarchico dei gradi militari sa bene che il grado di caporale e’ uno dei piu’  bassi della scala e non puo’ certo avere accesso a tali informazioni scritte nero su bianco. Per adesso la talpa negli archivi diplomatici non si conosce ancora, ma va da se che non puo’ essere stato l’equivalente di un caporale. La vicenda Wikileaks e’ ben lungi dalla soluzione, ma una soluzione verosimile potrebbe essere una macchinazione, forse lobbistica, ai danni del presidente Obama e della sua concezione di politica estera, tesa al coinvolgimento sempre piu’ intenso di tutti gli stati nella gestione delle relazione internazionale, che prevede per gli USA non piu’ il ruolo di gendarme del mondo in solitaria.
Sono ore di attesa nelle cancellerie dei paesi Europei, la minaccia di Wikileaks allunga la sua ombra con la concreta possibilità di rivelare documenti scottanti e compromettenti circa l’azione politica, diplomatica e militare nei confronti di altri stati sovrani in associazione con gli USA. Boutade, minaccia vana o rischio reale? Dai primi movimenti delle personalità più autorevoli dei governi traspare una sincera preoccupazione, sintomo di uno stato di agitazione di chi ha qualcosa da nacondere o di cui vergognarsi. Più volte articoli provenineti da più parti hanno scritto di accordi sottobanco, di operazioni militari oltre il limite della legalità, di manovre per favorire persone od organizzazioni che facevano comodo a certe tendenze politiche o spingevano situazioni contingenti verso la soluzione voluta, ma erano congetture basate su informazioni limitate oppure sul collegamento di fatti reali, che però, potevano apparire avulsi dal contesto in cui erano inseriti, se non collegati ad arte; ora saremmo di fronte a documenti ufficiali segretati e coperti dalla massima riservatezza, prove inconfutabili di manovre oscure sempre sospettate ma mai dimostrate. Non che sia una novità, il corso della storia è costellato di questi episodi, solo che in questo momento storico è maturata una coscienza critica dell’opinione pubblica che non potrebbe tollerare certi metodi. Le conseguenze sono di portata difficilmente immaginabili, non perchè non si verificherebbero, ma perchè quello che potrebbe seguire è realmente difficile da quantificare. Dire che cadrebbero governi non è un’ipotesi peregrina, ma sarebbe, in definitiva il male minore, quello che si dovrebbe temere è la fine di alleanze, il crollo borsistico, l’accartocciarsi di castelli finanziari e finanche l’esplosione di conflitti. A chi giova tutto ciò? Perchè divulgare ora documenti tanto compromettenti (sempre che sia vero)? Ed anche la sola minaccia così gravida di conseguenze, a chi fa comodo? Se fossimo in un romanzo di Fleming, dietro di sarebbe la Spectre di turno, ma adesso chi è questa Spectre? Oppure è possibile che dietro ci sia solo chi dice di esserci? Potremmo essere in presenza di una reale volontà di fare chiarezza e pulizia di una politica distorta per avviare una fase nuova caratterizzata dalla chiarezza e dalla correttezza? Sono domande alle quali ora è impossibile dare risposta perchè se si conoscesse la soluzione si intuirebbe facilmente la direzione verso cui andare. E’ chiaro che lo stato di allarme che si sta registrando segnala che qualcosa prima è successo ma, forse, ancora peggio, qualcosa può succedere. Dovremo attendere poco.
L’ordinazione di un nuovo vescovo da parte della “Associazione patriottica cattolica cinese”, la chiesa cattolica riconosciuta dal governo di Pechino ma non da Roma, ha provocato le proteste del Vaticano. In Cina esistono due organizzazioni cattoliche, la già citata “Associazione patriottica cattolica cinese”, dipendente direttamente dallo stato e non riconosciuta dalla chiesa cattolica romana e la cosidetta chiesa cattolica sotterranea,  osteggiata dallo stato ma riconosciuta dal Papa. Secondo dati non ufficiali la chiesa sotterranea sarebbe composta da 16 milioni di fedeli mentre la prima è accreditata di 5 milioni di componenti, tuttavia molti fedeli seguono entrambe le confessioni, questo dato sarebbe giustificato dai continui contatti, chiaramente non ufficiali che sono continuati ad intercorrere tra le due chiese. Il Vaticano è uno dei 25 stati che non riconosce la Repubblica Popolare Cinese come stato legittimo ed ha più volte attaccato il regime di Pechino sul tema dei diritti umani; nei giorni scorsi l’ordinazione del vescovo da parte della chiesa ufficiale cinese ha scatenato le proteste del Vaticano che sente sempre più invasa la sua sfera d’interesse. La risposta del governo cinese è stata singolare: il Vaticano è stato accusato di restringere la libertà religiosa della chiesa cattolica ufficiale cinese. Al di là delle ovvie obiezioni a questa risposta quello che appare chiaro è la difficoltà delle istituzioni cinesi ad affrontare l’argomento; la risposta fornita alle critiche vaticane pare un’autogol di portata internazionale. Ma il tema va inquadrato in una visione più ampia: alla Cina non basta più la potenza economica per accrescere il proprio prestigio internazionale ed assurgere a potenza globale, le condizioni dei diritti umani e della libertà politica e religiosa, sono fonte continua di critica dell’opinione pubblica internazionale e degli enti sovranazionali e solo la grande capacità produttiva ed economica, hanno risparmiato a Pechino sanzioni e restrizioni commerciali. Il rispetto dei diritti non è solo una questione morale ma anche economica, Pechino basa la sua forza economica sulla quantità, quantità di merci prodotte, quantità di forza lavoro da impiegare e questo immenso numero di braccia è impiegato in una situazione normativa dove i diritti dei lavoratori sono praticamente inesistenti; ciò crea uno sbilanciamento concorrenziale con le altre nazioni sia dal punto di vista dei costi organizzativi e burocratici sia dal punto di vista retributivo. La Cina è sensibile a questi argomenti ed è conscia che il progressivo affermarsi dei diritti sia ineluttabile (la pressione non è solo internazionale, anche nell’interno del paese si stanno piano piano affermando associazioni dei diritti, ci sono scipoeri ed agitazioni)  tuttavia cerca di rallentare questo processo pur cercando di accreditare le piccole novità in materia introdotte come grandi innovazioni. In quest’ottica anche la promozione di un’organizzazione cattolica, seppur inquadrata nello stato, può essere veicolo di pubblicità ed è per questo che la critica vaticana, proveniente da un microfono sempre amplificato, ha colpito così tanto i dirigenti cinesi.

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