Politica Internazionale

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sabato 31 dicembre 2011

La transizione nord coreana: aspetti e speranze

Il cambio al vertice del regime dinastico comunista della Corea del Nord non porta per ora variazioni nei rapporti con la nazione presente nella parte Sud del paese. Pyongyang continua a respingere ogni possibile sviluppo di dialogo con Seul, mantenendo un atteggiamento ostile, nel solco della direzione del dittatore appena defunto. La Corea del Nord addebita al governo del Sud il divieto di partecipare alle esequie del "caro leader" da parte di delegazioni provenienti da Seul, che peraltro ha autorizzato due gruppi a varcare la frontiera per le manifestazioni funebri e sopratutto di avere effettuato lanci di volantini per incitare il popolo nord coreano all'insurrezione, proprio nei giorni della transizione del potere. L'ascesa, che non si sa se sia effettiva o nominale, del nuovo leader Kim Jong Un, non pare possa portare variazioni significative nell'immediato, dietro al passaggio di potere infatti si devono stabilizzare equilibri, anche nuovi, sopratutto in seno alle forze armate, vere detentrici del potere. Dietro alle roboanti dichiarazioni che intendono trasformare il dolore in coraggio e le lacrime in forza per raggiungere la vittoria finale, vi è il dramma di un intero popolo, costretto a piangere in maniera anche grottesca, per non incorrere in feroci repressioni, un popolo mobilitato per dimostrare che il potere è saldo alla dinastia Kim, ma anche in una condizione economica vicina al collasso, in ragione del quasi totale impiego delle risorse per un programma di armamento nucleare inutile ed irragionevole. Il nuovo leader, che non pare avere alcuna esperienza, sia politica che militare, per gestire il paese chiamato a dirigere, si ritroverà a gestire almeno sei milioni di persone, secondo l'ONU, alle prese con la denutrizione, aventi disperato bisogno di aiuti alimentari primari. La situazione crea un cortocircuito: le sanzioni per gli armamenti nucleari bloccano gli aiuti per la popolazione e ciò rischia di aprire una falla enorme nel sistema nordcoreano, con l'evidente rischio di creare una massa di disperati in fuga per la mancanza di cibo. Nonostante le manifestazioni per la morte del caro leader la sommossa civile è dietro l'angolo, non tanto per ragioni politiche, grazie all'efficace opera di pianificazione del pensiero dei cittadini dell'apparato al potere, quanto per ragioni di vera e propria sopravvivenza. Nonostante queste premesse c'è chi crede che l'ascesa al potere del nuovo leader possa portare delle novità in campo economico tali da creare una nuova via di sviluppo, capace di creare un sistema alternativo sia al modello capitalistico, che al modello cinese. Questa è infatti l'opinione dell'ex vice governatore della Banca di sviluppo per la riunificazione della Corea del Nord, Choi Se Woong, fuggito a Seul dal 1995. Tuttavia è difficile immaginare quale possa essere questa idea rivoluzionaria che possa permettere al paese di risollevarsi, nel quadro del mantenimento delle condizioni politiche, ma sopratutto internazionali attuali di un paese sempre più isolato.

giovedì 29 dicembre 2011

Se l'Iran blocca Hormuz?

Lo sviluppo degli eventi che rischia di prendere la questione iraniana, pone la pace mondiale sempre più a rischio. Il problema delle sanzioni dell'occidente, che potrebbero inasprirsi ulteriormente entro breve tempo, sulla questione nucleare di Teheran apre un nuovo fronte, fino ad ora non ancora toccato: infatti il regime teocratico ha minacciato espressamente di bloccare lo stretto di Hormuz, attraverso il quale transita più di un terzo del consumo di greggio mondiale, costituito dalla produzione di petrolio, oltre che iraniano, anche di Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Qatar e Kuwait. Gli effetti immediati di tale blocco andrebbero ad impattare sull'economia mondiale, alzando in maniera sconsiderata il prezzo del petrolio in una fase di grande recessione ed aggravando, quindi, una situazione globale di difficile gestione. E' questo l'obiettivo a cui punta Teheran per scoraggiare nuove sanzioni, ancora prima che una azione militare, si minaccia di porre in essere un boicottaggio all'economia mondiale per evitare di mettere in crisi l'economia iraniana mediante il blocco delle esportazioni del proprio greggio che contribuisce in gran parte alle entrate della Repubblica Islamica. Per Teheran è importante fare passare il concetto che dallo stretto di Hormuz o passa anche il suo petrolio o non ne passa di alcun altro produttore. Militarmente gli esperti giudicano questa minaccia facile da mettere in pratica: il braccio di mare è lungo circa 60 km e largo 30, ed è quindi agevole un suo pattugliamento continuo, sia con mezzi di superficie che sottomarini. Più difficile è prevedere gli sviluppi e le reazioni alla messa in pratica concreta della minaccia. Il quartier generale della Quinta flotta USA, di stanza in Bahrein, potrebbe organizzare una risposta immediata, che darebbe però l'avvio al tanto temuto confronto militare tra Washington e Teheran, in un teatro di guerra finora tenuto al margine dagli analisti, che prevedevano, con maggiori possibilità altri scenari quali l'Iraq ed Israele e sostanzialmente su terra anzichè su acqua. Tuttavia un attacco ad unità navali iraniane potrebbe innescare il tanto temuto lancio di missili verso Israele, come ritorsione ulteriore ed innescare un conflitto su scala più ampia, che andrebbe però a coinvolgere anche grandi potenze regionali come l'Arabia Saudita, tradizionalmente nemica dello stato iraniano a base scita. Teheran dal canto suo potrebbe contare su fiancheggiatori come gli sciti iraqeni, Hezbollah ed anche la Siria, che potrebbe trovare una ragione per alleggerire la pressione internazionale e soffocare definitivamente la ribellione. Tuttavia più che di eserciti veri e propri si tratterebbe di milizie atte a guerra asimmetrica e particolarmente dotate nella guerriglia, capaci, comunque, di ingabbiare un esercito lento e poco avvezzo al combattimento non tradizionale, come quello USA come più volte dimostrato dalla storia. Resta ora da vedere come la diplomazia occidentale prenderà le minacce iraniane: da un lato il concreto pericolo della crescita nucleare di Teheran e di conseguenza la minaccia dell'atomica in mano ad un regime per niente affidabile, dall'altro lo spauracchio sempre meno efficace delle sanzioni, che potrebbero bloccare gli avanzamenti della ricerca atomica per la mancanza del denaro proveniente dal petrolio, ma potrebbero innescare problemi economici in prima battuta, seguiti da ben più gravi conseguenze militari. In ogni caso sembra che il momento a lungo rinviato di affrontare il problema iraniano non sia più procrastinabile e per la soluzione sarebbe auspicabile coinvolgere il maggior numero di attori e nazioni.

mercoledì 21 dicembre 2011

In Cina cresce la tensione sociale

La Cina deve affrontare sempre di più i problemi sociali tipici di un'economia capitalista che rappresentano in modo sempre crescente uno dei maggiori fattori di rallentamento della crescita economica del dragone cinese. Il mondo del lavoro cinese è attanagliato dal crescente numero di cause legali di lavoro riguardanti salari non pagati e licenziamenti, che riguardano sopratutto società estere con impianti in Cina. La politica generalizzata è di risolvere questi contrasti con aumenti di salario, che vanno, però, ad indebolire il principale punto di forza dell'economia cinese e di attrattiva per le imprese straniere: il basso costo del lavoro. Il fenomeno si sta estendendo così rapidamente da essere individuato come una delle cause del rallentamento stesso dell'economia di Pechino. In realtà rivela, invece, la miopia del legislatore e degli economisti cinesi, incapaci di prevedere prima e mettere riparo poi ad una situazione inevitabile dell'economia di mercato fortemente liberalizzata come è quella scelta, paradossalmente ma neanche poi tanto, dal comunismo cinese. Uno degli effetti accessori di questa mancanza è anche l'alto tasso di sciopero, non presente sulle statistiche ufficiali, con cui l'industria cinese si deve sempre più confrontare. Si tratta, per la maggior parte di astensioni dal lavoro provocate, non di ragioni riguardanti i diritti del lavoro ma proprio per ritardi sempre maggiori verificati nel pagamento degli stipendi. Un aspetto peculiare è l'organizzazione spontanea degli scioperi, che non vengono indetti dai sindacati ufficiali, ma autonomamente dai lavoratori. Questo elemento segnala un sempre maggiore distacco dei lavoratori dalle strutture ufficiali di rappresentanza, sentite ormai lontane dai reali interessi della classe lavoratrice. Ma oltre il problema della situazione industriale esiste anche la precaria situazione dei territori più interni della Cina alle prese con la questione dell'espropriazione sempre più massiccia dei terreni agricoli, che ha causato vere e proprie rivolte da parte del ceto agrario ancora stanziale che non ha, quindi, intrapreso le grandi migrazioni verso i grandi centri industriali per essere riconvertito in manodopera a buon mercato, più volte incoraggiate dal potere centrale e che si vede spogliato della propria fonte di reddito, che già rasenta l'insufficienza. Ma la situazione sociale cinese è sempre alle prese con il problema della corruzione, che genera profonda diseguaglianza sociale ed è il principale motivo di instabilità della società cinese. Nonostante questo sia un male comune con paesi dove il tasso di democrazia e di garanzia dei diritti sia ben maggiore, in Cina il fenomeno assume proporzioni enormi, sia per l'apertura sempre più larga della forbice tra poveri e ricchi, sia per l'incidenza che riversa sulla stessa struttura sociale che si sta costruendo nella nazione cinese in corrispondenza della sempre maggiore industrializzazione e terziarizzazione del paese. Il limite dell'azione di contrasto dei governanti cinesi su questo aspetto è che si basa su azioni prevalentemente repressive, tralasciando forme che prediligano invece la prevenzione e favoriscano così anche un maggiore dialogo con le istituzioni, sempre più viste come elemento invasivo della società cinese. Nonostante tutti questi segnali l'atteggiamento del Partito Comunista e dei suoi burocrati, quindi dello stato, non sembra cambiare. La mancanza di aperture verso riforme strutturali per la società cinese, rischia di essere il vero freno della locomotiva cinese, fin qui condotta con un mix di durezza ed aumenti della liquidità per favorire il consumismo che deve addormentare le masse sui temi cruciali della democrazia. Ma alla lunga le merci colmeranno le case dei cinesi, di tutti i cinesi e non basterà più incoraggiare il consumismo per sopire istanze che si stanno manifestando sempre più frequentemente come patologia di un sistema troppo squilibrato verso il centro politico ed assoluto.

martedì 20 dicembre 2011

L'incerta transizione della Corea del Nord

La scomparsa del caro leader nord coreano potrà turbare gli equlibri, complicati, della regione? L'apprensione di USA, Giappone e, naturalmente, Corea del Sud sta salendo velocemente, anche alla luce delle circostanze ancora poco chiare delle cause del decesso e delle pochissime informazioni filtrate, dall'ermetico paese unico caso di sistema comunista ereditario. Proprio il fattore chiusura, anche per i servizi segreti dei paesi che monitorano costantemente il paese, rappresenta un fattore di grande preoccupazione. La morte del dittatore sarebbe avvenuta sabato ed rimasta segreta fino al giorno dopo, confermando, se ce ne fosse stato il bisogno, l'alto grado di impermeabilità del paese a fare passare le proprie notizie. Del resto non è una novità, già nel caso della costruzione del reattore nucleare, Pyongyang è riuscita ad occultare il fatto per più di un anno e comunque la notizia è diventata di dominio pubblico solo quando la dirigenza nord coreana ha deciso autonomamente di rendere pubblica la notizia.
L'esigenza di ritardare la notizia della morte di Kim Jong-il, avvenuta nonostante le condizioni di salute critiche, è stata dettata dal fatto di essere comunque arrivata inattesa e di avere colto di sorpresa il gruppo dirigente del paese, costituito per lo più dalle alte sfere militari, che hanno cercato di guadagnare tempo prezioso per tirare le fila della transizione. In effetti una voce che ha preso a circolare nelle ultime ore, tutta da verificare, inquadra il decesso del dittatore come un possibile assassinio operato da una fazione avversa al potere dei militari, individuata in un gruppo di tecnocrati facenti capo al cognato del dittatore defunto. Si tratta comunque di congetture, quasi da fantapolitica, che testimoniano però lo stato di forte incertezza nel quale può sprofondare un paese poverissimo e con la popolazione allo stremo, ma dotato di un arsenale militare capace di impensierire gli eserciti di peasi ben più ricchi, come quelli circostanti. Formalmente per la successione, Kim Jong-il aveva indicato il proprio terzogenito Kim Jong-un, che non appare però in grado di prendere in mano il paese, secondo quanto affermano i servizi segreti sud coreani, i maggiori esperti degli affari del paese contiguo. Quello che si teme a Seul, Tokyo e Washington è che si ripeta la delicata situazione accaduta alla successione di Kim Il-sung, quando Kim Jong-li impiegò ben tre anni per regolare gli oppositori ed avere il potere saldamente in mano, ma era il 1994 e la situazione internazionale generale era molto più stabile di adesso. Il panorama diplomatico si attende molto dal ruolo stabilizzatore della Cina, ormai unico alleato di Pyongyang, nella definizione della situazione. L'implosione di un paese alla fame non conviene ad alcun attore internazionale, specialmente nelle vicinanze, il rischio di una marea di profughi che si riversano nei paesi vicini o addirittura di una guerra civile in una nazione con un arsenale atomico sul suo territorio è fonte di grande preoccupazione per tutti i paesi della regione, anche su fronti avversi. Resta da vedere il reale atteggiamento delle forze armate vera forza dominante del paese, se non ci saranno divisioni al proprio interno non sarà possibile scalzarle dalla guida del paese, viceversa tutte le soluzioni sono possibili.

giovedì 15 dicembre 2011

Dalla conferenza cinese sull’economia, indicazioni per il futuro dell’economia globale

Quella conclusa da poco, è stata una conferenza nazionale dell’economia cinese cruciale per i temi trattati, le decisioni prese e le ricadute che avranno sull’intero sistema economico mondiale. La Cina, alle prese con il problema inflazione, nel prossimo anno continuerà ad attuare una politica monetaria tutt’altro che espansiva, andando a dosare il credito, in modo da cercare di mantenere il difficile equilibrio tra livello dei prezzi e produzione. Il fattore economico è intimamente connesso al sempre crescente problema della stabilità sociale nella nazione cinese, che rischia di aumentare in modo esponenziale il fenomeno della dissidenza, molto sentito dalle gerarchie di Pechino. L’importanza della conferenza è stata dimostrata dalla partecipazione delle massime autorità cinesi: i massimi leader del Governo e del Partito comunista cinese, tra cui il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, oltre ai vertici dei settori economici.
L’indicazione uscita dalla conferenza in maniera molto decisa è stata quella di fare avanzare l’economia cinese in un quadro di lotta all’inflazione: una bella sfida per le stesse autorità cinesi, che proprio su questa leva hanno agito per tanto tempo per favorire l’incremento dello sviluppo. Ma la presa d’atto dei guasti dei fenomeni inflattivi, a livello ufficiale, significa l’ingresso della Cina, a tutti gli effetti, nel sistema economico mondiale per recitare un ruolo anche regolatorio come protagonista. L’importanza dell’aspetto macroeconomico e del mantenimento del controllo dei prezzi al consumo è ormai divenuto una priorità per la politica interna cinese, che, date le dimensioni, non può non riverberarsi sui dati complessivi dell’economia mondiale. Oltre alle preoccupazioni sul fronte interno, Pechino guarda con apprensione agli sviluppi della vicenda euro, la cui zona rappresenta per la Cina, il mercato più interessante; infatti una contrazione dei consumi in Europa, provocata dalla mancata crescita potrebbe provocare gravi danni alle esportazioni cinesi, andando ad inficiare proprio i programmi stabiliti dal governo per controllare l’inflazione. Tale paura ha fatto prendere in considerazione la possibilità di investire una gran parte della liquidità disponibile della Cina, direttamente in fondi capaci di generare crescita nei paesi dell’euro, sia con interventi di stimolazione diretta dell’economia, sia con aiuti ai paesi con i conti in difficoltà. Per i governanti europei si tratterà di vedere con quale spirito Pechino vorrà portare questi aiuti, se in modo sommesso per facilitare esclusivamente la propria economia, pur in un quadro assicurato da certezze normative tali da garantire quelli, che, in ultima istanza saranno dei veri e propri prestiti, o se approfitterà della situazione di disagio per entrare in modo più concreto nel tessuto economico, mediante partecipazioni o acquisizioni. Di fronte a questa ultima ipotesi, che pare la più concreta, sarà opportuno che la UE si attrezzi fin da subito per contenere il tentativo di conquista del dragone.

mercoledì 14 dicembre 2011

La Russia alle prese con la contestazione

I recenti avvenimenti russi testimoniano come l'ex paese sovietico sia tutt'altro che riuscito a diventare una democrazia compiuta. Troppo forti le commistioni ed i comitati d'affari ancora troppo ancorati ad una gestione statalista, ancora troppe le zone grigie del comportamento delle istituzioni nei confronti delle pratiche dell'esercizio della democrazia. Del resto Putin ha continuato su larga scala quello che ha sempre fatto per mettere il silenziatore al dissenso, soltanto non ne aveva previsto un aumento così considerevole. La Russia non ne esce bene, ricorre ancora lo stereotipo anti liberale ed anti democratico, che la caratterizzava negli anni sovietici, nonostante che il maggior seguito di Putin si registri tra le giovani generazioni, testimonianza chiara del buon lavoro di irregimentazione fatto dal leader e dagli uomini di Russia Nuova. Ma il dissenso montante dimostra anche una presa di coscienza nuova da parte del popolo russo, sia in relazione ai diritti democratici che alla qualità della vita del russo medio. Del resto la repressione messa in campo è la prova lampante di quanto l'apparato tema per la sua stessa sopravvivenza e non sia del tutto limpido di fronte alle accuse di brogli elettorali. L'accusa è particolarmente grave per un paese che ambisce, pur con tutti i propri limiti, ad essere considerato una grande potenza al pari della UE e degli USA, ed anche le reazioni diplomatiche del panorama internazionale sono andate in quel senso, rimarcando la scarsa democrazia desunta dagli episodi elettorali e condannando la repressione seguita. Tuttavia Medvedev ha confermato l'apertura del parlamento russo, secondo la data prevista il 21 dicembre prossimo, anche se non è potuto esimersi dalla promessa di una indagine, che rappresenta comunque un atto dovuto. Il Presidente russo fa leva sul dato del 49% uscito dalle urne e che sancirebbe la vittoria del proprio partito e di Putin. Ma lo stesso dato è l'oggetto del contendere dell'opposizione capace di mobilitare, soltanto per Mosca un numero di persone stimato fino ad ottantamila persone, riunite proprio contro i supposti brogli elettorali. Questa grande massa di manifestanti è una novità nella Russia post comunista e sopratutto nella Russia di Putin, abituato a percentuali elevatissime di approvazione e rappresenta una chiara crepa nel muro del consenso, tanto da mettere in dubbio nell'entourage del premier russo la rielezione a Presidente, nel 2012, data praticamente per scontata. Ma Medvedev continua ad innalzare un vero e proprio muro intorno ai risultati ufficiali, creando una situazione che resta in fase di stallo. In questo scenario si apre lo spazio per nuovi protagonisti che cercano di inserirsi nella competizione presidenziale, come outsider rendendo ancora più fluida una situazione che pare già gravida di potenziali pericolosi sviluppi.

martedì 13 dicembre 2011

La UE tedesca non è per i cittadini

Nella nuova Europa, che gravita intorno alla Germania, manca un progetto per lo sviluppo e la crescita, che possa consentire di dare un senso alla richiesta di sacrifici per la popolazione. L'ossessione dell'attenzione ai bilanci, da raggiungere esclusivamente mediante cospicui tagli di spesa pubblica, che, sostanzialmente, vanno ad intaccare l'impalcatura del welfare, non può che generare, come effetto accessorio, l'impoverimento delle classi sociali da cui si intende drenare liquidi. Gli iniqui interventi, spacciati per medicine amare, si contraddistinguono tutti per mancanza di equità e vanno a colpire i ceti medi e bassi, comprimendone la capacità di spesa e lasciando, invece, praticamente inalterato il potere d'acquisto delle classi più abbienti. Si tratta di uno schema ormai classico applicato dalla Thatcher, da Reagan, Bush fino a Berlusconi, ma che anche sia la Merkel che Sarkozy non paiono tralasciare. A parte la partenza ideologica, quello che si crede, detto più semplicemente possibile, è che se le classi ricche mantengono una adeguata disponibilità di spesa possono spendere e quindi incrementare l'economia, che dovrebbe innalzare o mantenere entro certi valori il prodotto interno lordo, attraverso il quale lo stato può incassare gettito fiscale. La miopia di questa visione ha il suo punto debole nel dare per scontato che le classi ricche continueranno a spendere per beni di cui già dispongono, per cui se questo requisito non viene soddisfatto si entra in recessione ed i sacrifici richiesti non sono sufficienti a compensare la diminuzione del prodotto interno lordo. Per il momento la leadership tedesca non appare in discussione, ma è chiaro che è data dai soli fondamentali della propria economia, più che dall'autorevolezza del proprio Cancelliere, che insiste ad imporre misure di rigore per gli altri, senza proporre valide alternative che consentano la crescita dell'intera area. Questa mancanza potrebbe rivelarsi presto fatale per la Merkel, il grado di salvatrice dell'euro non basterà più quando, superata la fase di emergenza, con le proprie forze o con l'aiuto esterno (vedi Cina), il resto dell'Europa potrebbe trovarsi in una situazione di stagnazione a causa del logoramento economico generato dalla stretta dei provvedimenti economici imposti da Berlino. Quello che si prospetta per la UE è il passaggio da una turbolenza economica ad una politica, perchè è inevitabile, a gioco lungo, che lo sbilanciamento imposto dalla Germania vada oltre i malumori già presenti. A quel punto, nella migliore delle ipotesi, si potranno avere degli stati con i conti in ordine ma con la gran parte dei cittadini impoveriti se non prostrati e quindi con economie comunque in difficoltà. Il punto è che, alla fine, i tanti sacrifici imposti saranno serviti soltanto per le grandi istituzioni, si saranno salvate le banche ma peggiorata la condizione delle famiglie, poco per gli obiettivi che si era posta l'Europa alla sua fondazione.

lunedì 12 dicembre 2011

Iran, USA e l'America Latina

Mentre le diplomazie e le cancellerie svolgono il loro lavoro fatto di dissuasioni e minacce, dietro le linee i preparativi vanno avanti, in vista di un poco augurabile, ma ormai possibile passaggio alle vie di fatto. La politica iraniana rimane quella ancorata all'islamismo più estremo, che deve essere portato avanti in qualsiasi modo. Ora il tema centrale è l'arma nucleare di Teheran, domani chissà? La tattica USA, fino ad ora, è stata quella di puntare forte sulle sanzioni, cercando di isolare l'Iran e nel contempo frenare gli impulsi irragionevoli di Israele, che si sente l'obiettivo numero uno di Teheran, la porta, conquistata la quale, Ahmadinejad potrà fregiarsi del titolo di liberatore delle terre islamiche. Combattere, anche in modo sotterraneo, con gli USA non è facile, tuttavia il premier iraniano ha scelto una tattica di attacco, andando ad intessere rapporti sempre più stretti con diversi paesi dell'America Latina. Non è sicuramente secondario in questa scelta il fattore psicologico del retaggio dell'immagine USA del passato, sostenitrice e collaboratrice di governi autoritari ed asserviti a Washington, che hanno lasciato nella popolazione un brutto ricordo fatto di vessazioni e repressione e che, con i giusti strumenti, è facile fare riaffiorare, anche se gli USA di oggi sono tutt'altro paese. Il capo del governo iraniano, malgrado gli orribili giubbotti indossati con sapiente maestria, è un politico fine che non tralascia alcun particolare e la presa dei ricordi nei popoli latino americani è un fattore che la casa Bianca non dovrebbe sottovalutare. Certo contano anche le questioni pratiche, l'Iran ha bisogno di rompere il cerchio dell'isolamento e delle sanzioni e non si chiude alcuna porta per aprirsi spazi di manovra sempre nuovi ed infatti dopo avere consolidato il proprio rapporto con Venezuela, Bolivia ed Ecuador, Ahmadinejad ha visitato anche il Nicaragua ed il Brasile. Il gioco diplomatico che stanno portando avanti questi paesi oltre che pericoloso si rivela anche miope: la distanza dall'Iran non li esclude da un possibile conflitto che Teheran e Washington potrebbero ingaggiare, diventando terreno secondario di contesa e regolamento di conti. In special modo stupisce l'atteggiamento del Brasile, che pure ha avuto consistenti esperienze di regimi dittatoriali e non si comprende come voglia soltanto parlare con esponenti di un governo così anti democratico. Un ulteriore elemento che aggrava l'analisi è la ricerca da parte iraniana, con questi viaggi nei paesi latino americani, secondo alcuni analisti, di basi relativamente prossime al territorio statunitense da dove fare partire eventuali azioni di ritorsione verso il territorio americano, in caso di attacco militare all'Iran. L'eventualità purtroppo non è più così remota e la cattura del drone USA in territorio iraniano rappresenta una situazione già in avanti nella sua evoluzione. Un'altro aspetto molto delicato riguarda la ricerca iraniana di fornitura di materiali chiamati strategici, dove con tale definizione si vuole nascondere, neanche tanto bene, l'uranio necessario agli approvvigionamenti per la costruzione dell'arsenale atomico di Teheran. Ma proprio la carenza di estrazione dell'uranio dai giacimenti di Venezuela, Bolivia ed Ecuador, con i quali l'Iran ha accordi più o meno regolari, rappresenta una ulteriore spinta per Teheran per cercare nuove possibilità di approvigionamento e quindi cercare di intessere sempre nuovi rapporti con altri stati. Questi sviluppi non aiutano una prospettiva di pace, che sembra allontanarsi sempre di più dall'orizzonte, per gli USA il problema è mantenere nervi saldi di fronte alla martellante e provocatoria azione iraniana, ma nello stesso tempo deve fornire elementi sufficienti ad Israele per non fare partire un attacco unilaterale totalmente inopportuno in questo momento storico, sopratutto dal lato dell'equilibrio diplomatico che mai come in questo momento risulta caratterizzato dalla più forte instabilità nella regione. Ma, ora, il problema valica i confini del medio oriente e si allarga pericolosamente in zone che mai sono entrate negli equilibri della questione israeliana, perlomeno in maniera così vicina. Per gli USA un nuovo fronte diplomatico dove cercare di conquistare alla propria causa paesi che diffidano della bandiera a stelle e strisce, un impegno ugualmente duro che la limitazione dell'Iran.

domenica 11 dicembre 2011

Quale destino per il Regno Unito?

Il Regno Unito è stato finalmente messo alle strette: di fronte alla scelta di rinunciare ai privilegi per la sua finanza, fonte anche di tanti problemi per l'Unione, Londra ha preferito mantenere le peculiarità della City piuttosto che fornire un convinto si all'Europa. Non che questa sia una sorpresa, l'Inghilterra non ha mai brillato per le sue posizioni europeiste e l'ingresso in quella che sarebbe diventata la UE è avvenuto soltanto per prenderne i vantaggi senza mai rinunciare a nulla di troppo concreto. Germania e Francia hanno agito, mettendo di fatto Londra con le spalle al muro, colmando il vuoto di azione di Bruxelles, che ha mantenuto sempre un atteggiamento pavido di fronte alla questione. In ogni caso, pur essendo una mossa dovuta, arriva sempre troppo tardi e si ribadisce, non dalla parte che era preposta a farla. Quella che si apre ora è una fase nuova sia per la UE, che per il Regno Unito, che non può che portare sulla strada del divorzio politico di Londra con Bruxelles e quindi concludersi con la fuori uscita dalla UE. E' innegabile che Londra sarà destinata ad essere sempre più una isola non solo geograficamente ed anche le proprie attività finanziarie che tanto ha protetto, sul lungo periodo, finiranno per rimetterci. E' un grosso colpo per un'economia che si basa proprio sulle transazioni finanziarie e non ha più un grande tessuto produttivo, sopratutto capace di assorbire le perdite che si genereranno a causa dell'ostracismo dell'asse Berlino-Parigi, decise a colpire l'attività ed il movimento di capitali che frutta a Londra i suoi più grossi introiti. Quelli che Cameron difende sono privilegi di pochi e che sopratutto varranno soltanto sull'andamento del breve periodo, poi non si potrà che scegliere il ritorno a Bruxelles con la cenere sul capo, ma con condizioni tutte da riconcordare o cercare soluzioni alternative, tenendo conto che a quel punto il mercato continentale, relativamente a qualsiasi genere di merci, prodotti o servizi, sarà per Londra praticamente chiuso. Non è pensabile, perchè non percorribile in maniera ulteriore, una qualche forma di alleanza più stretta con gli USA di quella già attualmente esistente, inoltre, pur con tutta l'importanza che riveste Londra per Washington, è impossibile che gli USA optino, in caso di scelta, tra l'intera UE e Londra, in caso di accordi economici, di cui, peraltro, gli Stati Uniti hanno disperato bisogno: anche senza Inghilterra, il territorio dell'Unione Europea è un mercato, sopratutto per dimensione e potenzialità sempre appetibile. Londra potrebbe riservare una maggiore attenzione alle sue ex colonie, ma la distanza e, sopratutto, il grado di sviluppo di alcuni paesi, un esempio per tutti l'India, non permetterebbero al Regno Unito di avere trattamenti tali da giustificare alleanze stringenti come nel caso UE. Nonostante questo oltre il sessanta per cento di inglesi appoggia, secondo gli ultimi sondaggi, Cameron, che non gode però del favore politico dei suoi alleati al governo, i liberal democratici, che ritengono un grosso errore separarsi dalla UE. I dubbi degli alleati dei conservatori si basano proprio su ragioni economico strategiche, per la direzione che sta imboccando la strada che porta alla separazione dall'Unione Europea. Difficile dire se il nascente dibattito potrà riportare sulle proprie decisioni il governo inglese: dietro la questione nazionalistica, sbandierata dall'opinione pubblica, si celano interessi e sopratutto soggetti che mirano a guadagni rapidi e che potrebbero, poi, lasciare il paese in caso di sopravvenuta mancata convenienza al proprio destino. In ogni caso per il Regno Unito la fase aperta, oltre ad essere densa di rischi, determinerà un destino dal quale sarà, in seguito, difficile uscire.

giovedì 8 dicembre 2011

Le difficoltà di Obama per la campagna elettorale

La recente sottolineatura e l'enfasi data al trattamento dei diritti del popolo omosessuale americano da parte sia di Hillary Clinton, che dello stesso Presidente Obama, significano che nell'entourage democratico c'è la necessità di marcare le differenze con gli avversari del Partito Repubblicano. E' un tentativo ben studiato di tenere le giuste distanze ideologiche in una campagna elettorale che si preannuncia appiattita in special modo sul tema economico. La necessità di coprire, nella maggior parte, ogni possibile settore del mercato dei voti, riflette uno stato di ansietà presente nei settori direttivi del partito, che cerca strade di dialogo alternative al dibattito economico. Viceversa una focalizzazione troppo accentrata sul tema dell'economia, porterebbe inevitabilmente, dato l'andamento statunitense, specialmente nell'ultimo anno, al centro della discussione rilievi troppo negativi per il Partito che esprime il Presidente in carica. Allargare le tematiche di confronto, mantenendole su temi di ampio respiro, può favorire un partito più orientato all'attenzione dei diritti civili e dello sviluppo sostenibile, che Obama ha cercato di percorrere, sebbene con alterne fortune. Tuttavia la strategia è anche difensiva, perchè mira a contenere gli effetti negativi che si sono riversati nei confronti del Presidente americano a causa del trattamento riservato ai dimostranti identificati come gli indignati americani. Le repressioni, a tratti anche efferate, di manifestanti mai violenti, hanno incrinato, anche se a distanza, l'immagine presidenziale, proprio su di un tema che, invece, doveva essere molto sentito al Partito Democratico. Obama, in questo caso ha peccato di eccesso di prudenza, per non urtare la grande finanza, non ha saputo cavalcare un movimento sociale, che nella migliore delle ipotesi non gli porterà nuovi voti. Difficile dire cosa aspettarsi dalla campagna elettorale imminente, dopo avere mancato molti degli obiettivi che si era dato, il Presidente uscente non potrà promettere più traguardi che non potrà raggiungere e non basteranno certo i successi ottenuti in campo internazionale. Nel periodo in carica del primo presidente di colore, per gli USA si è verificato un fatto totalmente inaspettato: la chiusura del grande paese americano in se stesso. I cittadini statunitensi, preda di una congiuntura economica fortemente negativa attendono misure praticabili che rialzino una economia in grande crisi, ed alle difficoltà del quotidiano sommano il fatto che gli USA non riescono più ad essere la grande potenza globale del passato. Tale aspetto psicolgicamente è di forte impatto per l'americano medio, non quello di New York, ma l'abitante dell'america profonda. Tuttavia molti aspetti giocano per la vittoria e quindi la riconferma di Obama: un Partito Repubblicano diviso, che non riesce, non solo ad esprimere un candidato comune, ma che litiga anche sui programmi, grazie alla crescente forza del movimento del Tea Party, sempre in forte contrasto con la parte tradizionale del Partito. Paradossalmente i motivi della grande forza del tea party sono gli stessi di chi critica Obama dall'interno del Partito Democratico. Ma questo segnale non è stato ancora pienamente colto dalle direzioni dei due partiti maggiori americani, ed, alla fine deciderà il risultato finale. .

mercoledì 7 dicembre 2011

Il futuro della UE ed il caso italiano

La sensazione prevalente in Italia, è che per fare una tale operazione economico finanziaria, non vi era bisogno di un governo di cotanti tecnici. Si tratta di una manovra che, al contrario di quello proclamato con così tanta enfasi, non ha nulla di egualitario, ma che impoverisce chi già faticava a districarsi tra un crescente costo della vita e l'aumento della carenza dei servizi pubblici. Almeno un poco di fantasia in più era lecito aspettarsi da chi era presentato da curricula prestigiosi e si presentava come portatore di maggiore eguaglianza, certo, nei sacrifici. Nulla di tutto questo: l'Europa dei tecnocrati ha da subito gradito questo governo ed a ruota sono andati i mercati, nessuna tutela da Bruxelles per le vessazioni imposte, anche con colpi di teatro, come le lacrime di coccodrillo della ministra che annunciava il sovvertimento della vita futura di un gran numero di lavoratori, incolpevoli dello sfascio precedente e della mancanza di soluzioni alternative del presente governo. Il tutto maturato in un colpo di stato dolce, imposto da Bruxelles, dove un governo non eletto ha preso decisioni di tale importanza, senza, oltretutto concordare nulla con le parti sociali. Siamo di fronte ad un precedente pericoloso, per la stessa vita dell'Unione Europea, che gode sempre meno del favore popolare ed inizia ad essere vista come matrigna. Quello che sta succedendo in Italia, va oltre le precedenti incursioni della UE nella vita di uno stato e rappresenta una violazione dello stesso esercizio della democrazia nell'area politica dell'euro, ma peggio ancora è che la UE non è integralmente responsabile del trattamento riservato all'Italia e non solo, ma è ostaggio essa stessa della politica esclusivamente anti deflattiva del suo socio di maggioranza: la Germania. Con un quadro simile viene meno l'essenza stessa dell'alleanza europea, ormai troppo squilibrata sui voleri e sulle esigenze di Berlino. Siamo di fronte al grado zero delle relazioni europee, se non si trova un punto da cui ripartire è veramente difficile che l'Unione riesca a procedere con rapporti così sbilanciati, il futuro è l'affermazione sempre più netta di movimenti e partiti che metteranno al centro dei loro programmi elettorali il progressivo distacco dai vincoli sempre più stringenti della UE. Se Bruxelles non comprende questo, la sua morte è già scritta; l'Unione per potere andare avanti non deve essere più essere percepita come elemento di soffocamento ma deve riaffermarsi come fonte di sviluppo concreto non solo per i grandi gruppi, ma deve portare il benessere fin sulla porta di casa delle famiglie. Gli eurocrati devono mettere riparo ai guasti generati da una gestione che ha dato troppo spazio ad un liberalismo senza contenimenti. Detto questo la questione del risanamento è essenziale proprio per le parti più deboli della società, ma non sono queste parti che ne devono sostenere, quasi esclusivamente, il costo, anche perchè non ne sono le responsabili; troppo facile andare a battere cassa dove le risorse, seppur esigue, sono certe e sicure, senza alcuna elaborazione alternativa del reperimento delle risorse, non solo da parte statale, ma sopratutto centrale, ovvero da Bruxelles, la funzione dell'Unione è monca ed apparirà sempre più calata dall'alto, suscitando una naturale avversione nel corpo elettorale nel suo insieme.

venerdì 2 dicembre 2011

L'ex capo del Mossad contro l'intervento armato verso l'Iran

L'ex capo del Mossad ha fatto delle dichiarazioni pubbliche importanti, ma ha anche scoperto l'acqua calda; infatti ha avvertito che un attacco militare contro l'Iran aprirebbe una guerra su di un teatro, almeno regionale, che andrebbe a coinvolgere anche la milizia scita libanese, Hamas, Hezbollah e la Siria. Si tratta di uno scenario credibile, anche se possibile di alcune variabili da valutare attentamente, sopratutto al di fuori del puro confronto militare, come l'atteggiamento diplomatico di paesi importanti come la Turchia, l'Egitto (dove sul piano elettorale si stanno affermando i Fratelli musulmani), che potrebbero determinare un isolamento internazionale ancora più pesante per Tel Aviv. Le dichiarazioni sembrano comunque gettare acqua sul fuoco alimentato continuamente dal governo israeliano in carica, ed evidenziano il concreto pericolo che correrebbe lo stato della stella di David in un conflitto di questa portata. La dichiarazione ha anche una portata mediatica non indifferente, perchè aggiunge una voce contraria, non scontata perchè proveniente da ambienti tradizionalmente non critici verso il governo, all'ampio panorama nazionale che si oppone ad un eventuale conflitto con l'Iran. La visione che l'ex capo del Mossad detiene circa l'argomento di una guerra regionale, in senso lato, quindi non solo per questo caso particolare, è di profonda contrarietà, in quanto una guerra del genere è giustificabile solo in caso di risposta ad attacchi diretti. La convinzione dell'ex capo del Mossad si basa sulla reale preoccupazione degli effetti che un conflitto con l'Iran potrebbe produrre sulla vita del paese e dei suoi cittadini; questo significa che gli analisti immaginano uno scenario di media o lunga durata, dove il conflitto non può essere risolto in tempi brevi, proprio per la capacità militare dell'avversario, valutata in grado di impegnare l'esercito israeliano in maniera consistente.
A destare viva preoccupazione nello stato israeliano, sono state le recenti dichiarazioni del ministro della difesa Ehud Barak che ha dichiarato di valutare in un tempo inferiore ad un anno lo spazio di manovra, per un eventuale attacco armato contro l'Iran, prima, cioè, che Teheran arrivi a disporre della tecnologia per l'atomica.
Nella questione è fondamentale anche l'azione di contenimento che sta operando Washington, fortemente contraria, in questo momento ad una azione militare di Israele, che la vedrebbe inevitabilmente coinvolta, seppure senza ne convinzione ne volontà. La situazione è tuttavia fluida, quello che si teme è una azione uniltareale di Israele, che in una fase iniziale del conflitto, potrebbe agire in modo autonomo, senza cioà alcun accordo o comunicazione, obbligando i propri alleati ad un intervento al proprio fianco non programmato ne condiviso.

La Croazia entra in Europa

L'Unione Europea apre al suo membro numero 28. Il Parlamento europeo da il via all'allargamento con un voto segnato da una maggioranza piuttosto larga, confermando la votazione con un lungo applauso tributato al Presidente del parlamento croato Luka Bebic. Il processo si concluderà definitivamente con l'ingresso ufficiale il 1 luglio 2013, preceduto dalle firme sul trattato di adesione, la cui sottoscrizione è prevista per il giorno 7 dicembre, cui dovranno seguire le ratifiche da parte di tutti gli stati memebri della UE. Ora per i parlamentari croati si apre il periodo di osservatori, prima di diventare a tutti gli effetti componenti a pieno titolo dell'assemblea sovranazionale. Dopo la Slovenia, la Croazia è il secondo paese nato dalla dissoluzione della Jugoslavia e che ha affrontato il sanguinoso conflitto che ne è seguito, ad entrare nella UE. Per Zagabria si tratta di confermare i progressi effettuati sui casi ancora aperti relativi ai crimini di guerra, collaborare in maniera ancora più fattiva con gli altri paesi UE e gli organismi comuni nella lotta contro la criminalità organizzata e continuare le riforme economiche strutturali necessarie a garantire una permanenza nel consesso europeo stabile, specialmente in questa difficile fase di congiuntura economica mondiale.

giovedì 1 dicembre 2011

Sull'Afghanistan il Pakistan interdisce i progressi di pace.

Sull'incerto futuro afghano si addensano nubi nefaste. L'errore del bombardamento NATO, che ha provocato la morte di 24 soldati pakistani, viene usato da Islamabad come scusa per non partecipare alla conferenza indetta a Bonn sul futuro dell'Afghanistan. Il problema del destino del paese di Kabul sta rapidamente assumendo, da problema regionale, una dimensione più ampia, connessa con il fattore terrorismo ed i delicati equilibri diplomatici mondiali. Non secondario il fattore del disimpegno che gli USA stanno cercando assiduamente di operare dal conflitto per ragioni sia di politica interna che finanziaria. Per queste ragioni gli USA spingono maggiormente verso una soluzione più veloce possibile condivisa del problema afghano, attraverso la collaborazione dei paesi limitrofi, tra i quali, quello che riveste maggiore importanza è proprio il Pakistan. Ad Islamabad sono consci di questo potere ed a causa dei crescenti contrasti con Washington, tendono ad usarlo sempre in maniera più massiccia. Questo comporta una immobilità nella ricerca della soluzione del problema afghano, che lascia in stato di stasi anche la situazione militare. Infatti senza l'appoggio concreto dei pakistani è impossibile sconfiggere le forze talebane che agiscono al confine tra i due stati, trovando in Pakistan rifugio e basi logistiche, fondamentali per le loro azioni belliche. La questione ruota attorno alle reali intenzioni di Islamabad sulla questione afghana, sulla quale il Pakistan non si è mai dimostrato chiaro. La sempre presente rivalità con l'India, con la quale gli USA sono sempre più vicini, ed i nuovi rapporti di alleanza con la Cina, hanno aumentato la distanza tra Washington ed Islamabad, andando a ripercuotersi proprio sulla possibilità di risoluzione del problema afghano. Nonostante questa evidente difficoltà, la conferenza di Bonn mantiene la duplice finalità sia economica che politica, intimamente legate per la risoluzione del problema complessivo. La necessità di una indipendenza economica di Kabul è un obiettivo fondamentale per invertire la situazione attuale che registra una dipendenza economica del 90% dai finanziamenti esteri. Ma il nodo fondamentale è costituito dall'aspetto politico e squisitamente pratico è la gestione di quello che seguirà allo scadere del 2014 anno in cui la responsabilità della sicurezza del paese sarà trasferita alle forze afghane. Entro quella data dovrà essere cercata una soluzione con i talebani, trovando una qualche forma di dialogo in grado di favorire una integrazione con il governo legittimo. Ed è proprio in quest'ambito che si inquadra il rapporto con il Pakistan, senza una mediazione attiva di Islamabad con le milizie talebane, il problema è destinato a non trovare una soluzione, contemplando l'estensione temporale infinita del conflitto armato sulla linea di frontiera.