Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

martedì 31 gennaio 2012

La Russia non condanna Assad

Dietro al peggioramento della situazione in Siria, dove aumentano i morti per le repressioni di Assad, vi è anche la mancata compattezza del mondo diplomatico. Infatti, se da una parte UE ed USA, ma non solo, visto le ultime risoluzioni della Lega Araba, spingono per una risoluzione della situazione, che tarda però ad arrivare, e si interrogano sulle possibili modalità di intervento per fermare le vere e proprie strage che si stanno compiendo sul territorio siriano, Cina, ma sopratutto Russia, frenano, sopratutto in sede ONU, ogni eventuale azione di contrasto al regime di Damasco. Si è tentato di interpretare più volte questa tendenza con l'assunto fondamentale che governa la politica estera dei due colossi ex comunisti, che si concretizza nella minore ingerenza possibile negli affari interni degli altri stati. Anche la scottante esperienza, per il loro punto di vista, che i due stati hanno vissuto con l'astensione all'intervento in Libia, concessa dopo molti dubbi e perplessità, nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che ha dato il via al conflitto contro Gheddafi, costituisce un precedente pericoloso per riuscire a coinvolgere Mosca e Pechino in un'altra azione analoga, anche solo a livello diplomatico, questa volta contro la Siria. I governi dei due paesi sono ritornati più volte su quell'astensione, strappata quasi con l'inganno dall'Occidente, come errore di politica internazionale da non ripetere nella loro azione sul panorama internazionale. Tuttavia ciò potrebbe non essere sufficiente a giustificare, ma sopratutto a comprendere, la mancata azione contro la violenza di Assad. Ciò vale per la Cina ma ancora di più per la Russia, che ha, invece, altre ragioni per contrastare, con la sua immobilità, i pur flebili tentativi di mettere un fermo a quella che è ormai diventata una vera e propria guerra civile, dove hanno perso la vita oltre cinquemila persone. Per Mosca, alle prese con l'indipendentismo delle Repubbliche del Caucaso, Assad costituisce una diga, che impedisce l'allargamento delle istanze dei ribelli siriani ai suoi territori. La Russia per continuare a coltivare sogni di grande potenza, cioè di ritornare ad essere tale, deve impedire ogni possibile forma di disgregazione dei suoi territori, ma non solo, deve evitare di avere stati ai suoi confini dove l'islamismo più estremo possa prendere il potere. Ma non sono solo gli assetti geopolitici a preoccupare Mosca, la Siria di Assad rappresenta un partner commerciale importante per la Russia nel mercato degli armamenti, grazie ai consistenti acquisti fatti da Damasco per rimodernare il proprio arsenale. Inoltre la flotta militare russa è presente, con una sua base, nel territorio siriano, nella città di Tartus. Esistono quindi dei motivi che vanno al di là della regola del non intervento negli affari interni di un paese straniero, che Mosca afferma caratterizzare la propria politica estera. Ma questa posizione della Russia appare di insostenibile immobilità di fronte ai possibili problemi che potrebbero nascere dalla caduta di Assad; l'azione del governo russo, con questa condotta, rivela un atteggiamento di mancata novità rispetto alle questioni che si evolvono nella periferia del suo territorio e che non sembra essersi evoluto di molto rispetto alle posizioni sovietiche. Senza una prospettiva di più larghe vedute, nel tempo, la Russia è destinata a capitolare su quegli argomenti che ora la tengono ancorata su posizioni di estrema prudenza diplomatica. Non affrontare con una politica lungimirante i problemi che la assillano dall'interno in specifiche porzioni del suo territorio, rende Mosca una potenza incompiuta e di secondo piano e che, malgrado le sue risorse naturali, non può contare nemmeno sullo strapotere economico che caratterizza la Cina. Viceversa risolvere i conflitti indipendentisti e le difficili relazioni con l'avanzamento della religione islamica, senza ricorrere all'uso della forza, ma con una politica più democratica, potrebbe permettere a Mosca di essere più libera anche sul piano internazionale, senza dovere contare su alleanze, ormai insostenibili come quella siriana.

lunedì 30 gennaio 2012

Sulla Grecia l'intollerabile proposta tedesca

La pretesa tedesca di mettere sotto la tutela di un commissario UE il paese greco, va oltre ogni possibile intrusione tollerabile. Se messa in atto questa misura significherebbe la fine della sovranità del popolo ellenico sul suo territorio e la sua gestione ed andrebbe a costituire un precedente pericoloso, che la dice lunga sulle velleità della Germania. Nonostante la difficile situazione, più volte definita disperata, della Grecia, non si può dire che il governo di Atene non abbia sottoposto i suoi cittadini a misure economiche durissime, che ne hanno peggiorato in maniera considerevole la qualità della vita. Non è questa la sede, ne l'intento, per valutare la validità di questi provvedimenti, ma piuttosto registrare un fatto di rilevanza politica internazionale di una gravità inaudita. A prescindere dalle cause del disastro greco, sul quale però è bene ricordare i lauti guadagni anche delle banche tedesche, risulta inconcepibile come nel 2010 un paese possa volere imporre la propria volontà su di un'altro in maniera così sfacciata, ed ancora più grave è che ciò accada nella cornice dell'Unione Europea e nel quasi totale silenzio delle istituzioni centrali di Bruxelles. E' pur vero che la Germania è ormai il socio di maggioranza dell'euro, ma un simile comportamento non è tollerabile, perchè mina le fondamenta stesse dell'Europa. Diventa così necessario mettere un freno a questa volontà dirigista della Merkel, che sconfina in un autoritarismo da fermare ad ogni costo. Le ragioni di una tale sortita, vanno ricercate nella difficoltà della cancelliera con il proprio corpo elettorale, che non comprende che le ragioni della sopravvivenza stessa dell'economia tedesca sono intimamente legate alla salvezza dell'euro. Ma tale difficoltà non giustifica lo scivolone politico commesso nel volere togliere la propria sovranità alla Grecia. La dichiarazione d'intenti della Merkel diventa così un pericoloso programma, che rischia di diventare un precedente autoritario da applicare ad altri paesi in crisi, andando a prefigurare scenari inquietanti come la sospensione delle regole e della vita democratica, in nome di dati economici poco chiari e verificabili. E' chiaro che questa allerta vale non solo per la Germania ma per ogni altro attore che volesse farsi portatore di simili iniziative. Infatti non sarebbe tollerabile nemmeno se la proposta fosse venuta dalle Istituzioni Europee centrali, perchè sarebbe comunque una violazione del diritto internazionale ed andrebbe a costituire una interruzione dell'esercizio della sovranità democratica di un intero popolo. Questa evoluzione delle possibili soluzioni della crisi dell'euro costituisce una casistica fin qui non prevista dagli analisti politici, che dovranno colmare in fretta questo vuoto. Infatti, nonostante si speri che questa soluzione non sia praticata, occorre immaginare i possibili scenari che potrebbero innescarsi. Obiettivamente è molto difficile che qualsiasi nazione, sopratutto occidentale, possa accettare una tale risoluzione, inoltre la Grecia è uscita da una dittatura in tempi relativamente recenti e volerne imporre un'altra, per di più di matrice straniera, non sembra la migliore soluzione per salvare la moneta unica. Forse l'intenzione della Merkel era una dichiarazione ad uso e consumo interno, ma se così fosse, appare impossibile non rilevare l'imperizia di chi guida la prima nazione europea. Viceversa se quanto dichiarato corrisponde ad una reale intenzione la cosa che avrebbe dovuto scattare immediatamente, dovrebbe essere stata una univoca dichiarazione dei capi di stato contro questa proposta. Così non è stato. Questo significa che il pericolo di una sospensione dei diritti democratici in nome di aggiustamenti economico finanziari dell'area dell'euro non è poi una idea così peregrina. Il rischio concreto, Dio non voglia sia così, è di avviare l'Europa ad un avvicinamento con i metodi produttivi ed i suoi corollari, propri del sistema cinese? Ma se così fosse quello che aspetta il vecchio continente è una fase storica di confusione continua e di povertà pressochè totale. Una soluzione, per la verità ancora troppo poco battuta, è la costituzione, finalmente, degli Stati Uniti d'Europa, una unione dove tutti i popoli europei che lo vogliono, siano insieme in modo politico certo e dove lo strumento della moneta unica sia soltanto accessorio all'unità politica e di indirizzo.

venerdì 27 gennaio 2012

Nel futuro sempre più guerre non saranno dichiarate

Il sistema della difesa degli USA cambia impostazione. Le forze armate statunitensi subiranno una drastica riduzione di uomini, ma non abbasseranno la propria capacità di intervento. Il futuro delle forze armate sarà potenziare le truppe di elite, gli apparati radiocomandati, come i droni e tagliare la quantità a favore di una maggiore qualità, potenziando le eccellenze. I cambiamenti degli scenari internazionali impongono, dunque una revisione basata su interventi non più in grande scala, ma imperniati su azioni rapide e chirurgiche, sul modello dell'eliminazione di Bin Laden. Questo non vuole dire diminuire gli investimenti, che anzi in tecnologia saranno aumentati, ma contenere i costi di gestione imposti da un esercito numeroso. Diventa così sottointeso che le guerre in grande scala, che prevedono un impegno temporale lungo, escono dalla futura agenda della Casa Bianca. Fondamentale sarà l'appoggio di un servizio segreto capace di operare al meglio dietro le quinte per permettere l'incisività dell'azione mirata ed anche lo sviluppo di una rete di contatti a livello ufficiale con gli stati alleati, maggiormente basata sulla fiducia e sullo scambio continuo di informazioni. Esiste, tuttavia, una considerazione da fare sulla base del diritto internazionale, sempre più spesso, infatti, e non è pratica dei soli Stati Uniti, si registrano azioni militari compiute su territorio straniero, senza che sia seguita la prassi della dichiarazione di guerra o per lo meno del permesso del paese sulla cui terra queste azioni vengono compiute. Questo perchè in numerosi casi ci si trova davanti a conflitti non dichiarati, il cui sviluppo viola il diritto internazionale condiviso. Il già citato esempio dell'eliminazione di Bin Laden è l'esempio più famoso di queste pratiche, ma ogni giorno vengono usati droni per bombardare o soltanto per compiere ricognizioni su territori di nazioni che sono considerate nemiche o che possono ospitare avversari terroristici. Spesso vengono usati anche mezzi convenzionali come l'impiego dell'aviiazione con personale a bordo o ci si trova di fronte a sconfinamenti di truppe, come nei casi degli eserciti turco ed iraniano, nelle rappresaglie avvenute contro i curdi in territorio iraqeno. La sterzata ufficiale degli USA, che praticava già queste forme di guerra, registra soltanto la certezza della direzione nella quale si svilupperanno i conflitti del futuro. Siamo e saremo di fronte, cioè, ad atti che possono essere considerati come terroristici, perchè compiuti al di fuori della normale prassi prevista dal diritto internazionale. Questa tendenza non è certo da considerarsi positiva, perchè potrebbe dare il via ad azioni e reazioni totalmente al di fuori delle norme. E' facile prevedere un ricorso sempre più massiccio a strutture internazionali, come l'ONU o il tribunale dell'Aja, che potenzialmente si troveranno a decidere su fatti che andranno ad infrangere le norme vigenti, ma senza la necessaria capacità sanzionatoria, interrotta proprio dall'estensione della nuova pratica di guerra. In senso generale una azione militare è da evitare fino all'utilizzo dell'ultima opzione disponibile che possa scongiurarla, ma una azione compiuta da uno stato senza il necessario corollario normativo è destinata a giustificarne altre, venendo così a creare l'uscita dai canoni del diritto. Senza un freno condiviso siamo di fronte alla totale imposizione della esclusiva legge del più forte. E' chiaro che questa è la massima estremizzazione, perchè nel mezzo esiste ancora un ruolo della diplomazia, ma in concreto l'ipotesi è ormai più che un caso di scuola.

In Tibet torna la repressione cinese

Nel Tibet si riapre una stagione di violenza e repressione. Gli episodi di questi giorni riportano la regione alla drammatica situazione del 2008, con manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza di Pechino, che si vedono costrette a reagire all'ondata di ribellione provocata da una lunga serie di suicidi di monaci, che si danno fuoco dopo essersi cosparsi di carburante. L'alta drammaticità del metodo del suicidio, giunta ad una alta spettacolarizzazione, ha un grande potere sulla popolazione ed è infatti molto temuta da Pechino, sia perchè ha una gran presa sulla folla dei tibetani, sia perchè suscita sdegno profondo nell'opinione pubblica internazionale. Il fatto che Pechino abbia ammesso la presenza di morti, un comportamento molto differente da quello solito di chiusura totale sull'argomento Tibet, può soltanto significare che la situazione sta degenerando pericolosamente. Il centro della protesta si trova nella provincia di Sichuan, nella città di Seda, che è sottoposta al coprifuoco e risulta completamente isolata perchè circondata dalle truppe cinesi. Anche nel distretto di Aba, sempre nel Sichuan, vi sono tensioni. I rivoltosi hanno attaccato le forze cinesi con pietre e bombole di gas e nella zona del distretto di Luhuo, un monastero sarebbe assediato perchè vi si sarebbero rifugiati diversi rivoltosi. Il tema centrale rivendicato dai dimostranti verte, oltre alla libertà del Tibet, sulla continua opera di sradicamento delle tradizioni, usi e costumi autoctoni; processo che Pechino porta avanti per nazionalizzare il Tibet e piegarlo così ad un atteggiamento più malleabile verso la Cina. La politica cinese in Tibet segue un approccio composto da un misto di violenza fisica unito ad una politica che tende a normalizzare il territorio mediante una azione scientifica tesa ad erodere l'identità culturale, religiosa e linguistica del popolo tibetano, con il fine di assumerne l'assoluto controllo. Le normali resistenze di un popolo, che nutre per i propri valori un attaccamento assoluto, costituiscono, anche grazie al notevole apporto del fattore religioso, un ostacolo che Pechino, negli anni, non ha mai saputo gestire. Non sono bastati infatti l'ingente spiegamento militare ed i massicci inserimenti di cittadini cinesi nelle zone tibetane allo scopo di scalfire la presenza preponderante degli elementi culturali locali. La Cina per giustificare le repressioni compiute ricorre al solito ritornello delle dittature in difficoltà, che è quello di accusare gruppi, o addirittura nazioni straniere di soffiare sul fuoco delle rivolte, per fomentare le istanze separatiste ed in ultima analisi minare l'integrità territoriali cinese. Il problema è molto sentito dalle autorità di Pechino per le evidenti ripercussioni sul piano internazionale. Nonostante l'influenza economica cinese, capace di soffocare lo sdegno delle nazioni più potenti, si deve ricordare ancora il voltafaccia del vicepresidente americano Biden sull'argomento, ci sono state alcune eccezioni, la più rilevante delle quali è stata l'atteggiamento della cancelliera Merkel; ma esiste una grande quantità di pressione esercitata da movimenti pacifisti ed organizzazioni di pensiero capaci comunque di sollevare il problema in maniera molto rilevante sul piano internazionale. Dopo lo schiaffo del Nobel al Dalai Lama, Pechino, proprio a causa delle proprie ambizioni di protagonismo nel teatro internazionale non può permettersi altre forme di pressione sui diritti civili oltre a quelle che già patisce sul fronte propriamente interno. Tuttavia l'amministrazione cinese non può cedere sul fronte interno alla protesta tibetana, un cui eventuale successo, anche di ridotte dimensioni, potrebbe rappresentare una crepa nell'efficiente sistema volto a normalizzare l'impero. La questione non è di poco conto, perchè su di essa si basa il progetto espansionistico economico cinese da percorrere mediante un pugno di ferro sistematico all'interno del proprio territorio da praticare senza cedimenti. Difficile fare una previsione positiva sul futuro del Tibet, che deve restare un esempio, se possibile da contrastare, su come le dittature cercano di distruggere le tradizioni dei popoli sottomessi per cancellare ogni forma di opposizione.

mercoledì 25 gennaio 2012

Obama inizia la campagna elettorale

Barack Obama entra in campagna elettorale, con un discorso rivolto alla nazione molto americano, che punta sui calori unificanti degli Stati Uniti, ma che, nel dare speranza ai cittadini ed elettori statunitensi, punta anche a mascherare molti promesse non mantenute ed obiettivi mancati. Il ritornello di una America più giusta, con eguali opportunità e regole uguali per tutti va sempre bene per tutte le occasioni, ma il presidente uscente dovrà convincere i suoi concittadini e spiegare il perchè se nei quattro anni appena trascorsi non si sono raggiunti questi traguardi, dovrebbe riuscirci nei prossimi quattro. La visione di Obama è che gli USA, rispetto al 2008, sono migliori, in realtà ciò in assoluto non è vero perchè i dati economici parlano chiaro, ma se si pensa ad una nazione guidata da un presidente repubblicano nel periodo 2008-2012, periodo attraversato da turbolenze economiche che non si verificavano da decenni, che avesse guidato la nazione con una politica di sfrenato liberismo, il risultato, in termini di povertà e maggiore diseguaglianza, ed in ultima analisi la condizione generale della maggioranza della popolazione, sarebbe stato ben peggiore di quello ottenuto dal presidente uscente. Quindi uscendo dai freddi numeri assoluti e pensando a quello che potrebbe potuto essere, Obama non ha poi fatto male, anche se non ha fatto abbastanza. A parziale scusante occorre dire che per la metà del suo mandato, il presidente USA, si è dovuto rapportare con un potere legislativo in mano al partito repubblicano, che non ne ha certo appoggiato la politica e le intenzioni. Il non avere le mani libere, giunta con la mancanza di necessario coraggio, ed anche capacità politica, per scardinare consuetudini ormai consolidate, ha generato una immagine di Obama in netto contrasto con quella creata in campagna elettorale, sulla quale si è addensata una quantità di speranze ed aspettative, obiettivamente difficile da mantenere, sopratutto in una situazione di difficoltà economica conclamata. Tuttavia, favorito anche dal ritornato clima elettorale, il presidente uscente riconferma la propria volontà, che è anche programma politico annunciato, di fare pagare più tasse ai ricchi per creare la possibilità di maggiori investimenti nella sanità, nella scuola e nella ricerca. Questa è soltanto la base di partenza per per impedire il ritorno alle politiche liberiste, specialmente praticate dagli anni ottanta in poi, dei repubblicani, individuate come le vere cause dello sfascio americano. Non si può dare torto ad Obama a colpevolizzare queste politiche, che tanti danni hanno fatto anche nel resto del mondo, il problema è che nei quattro anni trascorsi alla Casa Bianca, non si sia praticata una alternativa efficace, seppure per i limiti sopra considerati, che sapesse ribaltarne gli effetti. Tuttavia gli sfidanti possibili vanno nel senso opposto a quello nel quale Obama vuole andare, in questo senso il tentativo di proporsi come ideale rappresentante della classe media, per tutelarne gli interessi, fa compiere ad Obama un salto di qualità nella propria campagna elettorale. In effetti fare riguadagnare posizioni, o anche semplicemente cercare di mantenerne la posizione, nella scala sociale alla classe media, rappresenta il migliore investimento elettorale di fronte alla deriva liberista. La costruzione di uno stato sociale con basi consolidati e risultati certi, può rappresentare, malgrado tutte le promesse non mantenute, la principale trincea contro una possibile avanzata repubblicana. Anche se, malgrado il basso gradimento nei sondaggi del presidente uscente, il livello degli sfidanti è talmente basso, sia per i personaggi in se, che per i loro programmi, che
Obama pare, in questo momento, il favorito più accreditato per la vittoria finale, semmai un punto debole nel suo programma elettorale è la mancanza della presentazione di una visione che punti alla supremazia americana, al pensare in grande, anche in politica estera, temi a cui l'elettorato americano è sempre sensibile, anche se ultimamente in maniera minore per il crescente interesse per i temi economici. Tuttavia l'accresciuto livello di pragmatismo dell'americano medio non può non essere sollecitato dalla ricchezza dei temi riguardanti l'economia, sia in senso stretto, che in senso allargato, presenti nel programma elettorale di Barack Obama, temi che nei programmi degli sfidanti repubblicani restano ancora a livello nebuloso e contraddittorio, andando a costituire il vero tallone d'Achille degli sfidanti.

martedì 24 gennaio 2012

Partono le sanzioni all'Iran

L'azione congiunta di USA e UE, con il supporto fondamentale dell'Arabia Saudita, permetterà di dare avvio alla sanzioni contro l'Iran a causa del problema nucleare. Riyad è in grado, con la propria produzione in eccesso, di compensare il mancato apporto dei barili iraniani sul computo totale della produzione. Inoltre l'introduzione graduale delle sanzioni permetterà una ricaduta più morbida sul sistema economico mondiale. Proprio per questo motivo gli analisti internazionali sono propensi a credere che non vi sarà un aumento del greggio, particolarmente temuto in questa fase della congiuntura economica. Questo aspetto costituisce una ulteriore sconfitta per la tattica di Teheran, che puntava proprio sugli effetti negativi di un possibile aumento del greggio, per scongiurare le sanzioni a suo danno. Nel contempo, però, è anche un possibile elemento di accelerazione della tensione e dell'esasperazione dell'Iran, che si vede ormai accerchiato, e che potrebbe portare a mettere in pratica decisioni estreme, come il più volte minacciato blocco dello stretto di Hormuz. Anche perchè il possibile avvicinamento con la Cina, che non sostiene le sanzioni, dal punto di vista commerciale non è avvenuto, dato che Pechino, ha ridotto gli acquisiti di greggio iraniano sulla base di una controversia per i pagamenti, ed ha aumentato le proprie forniture da Venezuela, Kazakhistan ed Iraq, in modo da mantenere inalterate le quote in entrata del numero dei barili. L'atteggiamento cinese ha così rappresentato una elegante via di uscita sul piano diplomatico, che gli ha permesso formalmente di non allinearsi agli USA, ma che in concreto, ne ha messo in pratica la politica antinucleare dell'Iran. E' proprio questo, dal punto di vista dell'analisi internazionale, il dato più rilevante: Pechino, aldilà delle dichiarazioni di facciata, con questa manovra mostra chiaramente di non gradire lo sviluppo di una potenza nucleare in mano a radicali islamici, vicino ai propri territori. Teheran, che credeva di fare leva su di una rivalità tra Washington e Pechino, esce totalmente sconfitto sul piano diplomatico ed a questo punto poco possono valere le gite propagandistiche di Ahmadinejad in quei paesi che una volta si sarebbero definiti non allineati. Resta ancora la soluzione di bloccare lo stretto di Hormuz, da dove transita il 20% della domanda globale di petrolio del mondo. Questo tentativo estremo di scongiurare le sanzioni, che avranno un effetto decisamente negativo sull'economia iraniana, potrebbe provocare un rialzo incontrollato del prezzo al barile, si stima fino a 200 dollari, provocando una recessione mondiale, che se dovesse verificarsi anche per un periodo non lungo, complicherebbe di non poco la già difficile situazione economica del pianeta. Conviene a Teheran intraprendere una tale misura? La reazione del mondo intero, o almeno della maggioranza delle nazioni, a quel punto, non potrebbe essere che rapida, proprio per accorciare il più velocemente possibile i giorni di blocco dello stretto. L'ipotesi di un conflitto di mare sembrerebbe la più probabile, ma anche il bombardamento tanto caldeggiato dagli israeliani potrebbe concretizzarsi perchè permetterebbe tempi di risoluzione più breve. Ahmadinejad è conscio di questo sviluppo e seppure dotato di una forza armata tutt'altro che da sottovalutare, non potrebbe che avere la peggio. Dunque il blocco di Hormuz parrebbe meno probabile, nonostante le minacce, più facile che il governo iraniano continui la sua protesta per l'ingerenza interna sulpiano diplomatico e propagandistico, supportata da una azione diplomatica che possa portare nuovi alleati alla propria causa, lasciando, di fatto, in stallo la questione e continuando al proprio interno nello sviluppo del progetto nucleare. Ma se, alla fine, Teheran riuscirà ad avere la sua atomica, la prospettiva sarà per forza variata.

lunedì 23 gennaio 2012

Il punto della situazione della difficile transizione democratica ad un anno dalle rivolte

Ad un anno di distanza dall'inizio del processo dell'abbandono dei popoli nord africani della tirannia e dopo la conclusione dell'operazione in Iraq degli USA, sembra opportuno compiere alcune riflessioni sul cammino della democrazia e sui passi avanti che le nuove istituzioni dei paesi coinvolti nel passaggio della forma di goveno stanno compiendo. Innanzitutto, a prescindere dalle vere ragioni che hanno mosso gli interventi occidentali, occorre chiedere se l'apporto esterno ha consentito, oltre al successo militare, anche una maturazione, sia delle strutture alternative a quelle contestate e decadute e se, nel contempo gli strati sociali sono stati capaci di favorire la transizione democratica. Ma ancora prima è necessario domandarsi con quale tipo, livello e grado di democrazia si vuole misurare questi progressi. Non è possibile, infatti, confrontare situazioni ormai sedimentate da anni, grazie a strutture sociali ben definite e forme di partecipazione alla vita politica diffuse e la cui accessibilità è garantita, con situazioni di totale novità all'introduzione della vita democratica. In questo senso, pur registrando il successo dell'abbattimento del regime di Saddam, gli USA hanno compiuto un errore di valutazione marchiano, credendo che fosse sufficiente eliminare la causa della mancanza di democrazia per riempirne il vuoto. Non è stato così. L'Iraq odierno è uno stato di polizia, in preda al terrore continuo, proprio perchè gli americano non hanno saputo consentire la crescita di quella parte sociale che poteva generare le condizioni per lo sviluppo della vita demcocratica. E' vero che la NATO ha imparato la lezione, perchè in Afghanistan, oltre che alla lotta armata, si è puntato sul coinvolgimento della popolazione mediante la costruzione di infrastrutture, quali scuole ed ospedali, che possono costituire il germe fondativo su cui aprire la libertà di confronto. Ma ancora questo è insufficiente, perchè il paragone è con situazioni di totale differenza da quelle occidentali, come la condizione femminile o la divisione tribale, che non permetteranno, forse mai, di raggiungere gli standard dell'ovest del mondo. Nell'Africa settentrionale le cose vanno in una direzione simile: a parte la Tunisia, dove il risultato elettorale ha comunque destato preoccupazioni agli occidentali per l'affermazione dei movimenti religiosi islamici, peraltro avvenuta in una situazione di totale regolarità del voto, in Libia ed Egitto, la transizione democratica appare ingolfata per problemi, seppure differenti, di chiara origine interna. Sulla Libia la previsione era facile, che la strada verso la democrazia non sarebbe stata agevole, dopo l'asprezza del conflitto che ha portato alla morte di Gheddafi, appariva quasi scontato. La causa ostativa maggiore è la struttura sociale divisa rigidamente in forma tribale, questi compartimenti stagni della società, non favoriscono una apertura trasversale, necessaria alla creazione di partiti, che possano caratterizzarsi, seppure da angolazioni politiche diverse, per la presentazione di programmi politici di ambito generale. L'ostacolo, malgrado i concreti tentativi di parte dei protagonisti politici libici, è obiettivamente difficile, ed ha già costituito dissidi pesanti in seno al CNT, proprio nella sua sede principale di Bengasi, centro nevralgico della rivolta. Il punto è cruciale perchè se non si oltrepassa la visione esclusivamente tribale la divisione permane ed il rischio di una ulteriore guerra civile è dietro l'angolo. Questa volta all'occidente non si possono imputare grandi colpe, se non di non avere investito abbastanza negli aiuti extra militari alle nascenti istituzioni libiche, che hanno in definitiva bisogno di creare un bagaglio culturale alla popolazione in generale per assuefarsi alla pratica democratica oltre la divisione in clan. Per l'Egitto la situazione è ancora differente, giacchè sono stati gli stessi egiziani a cadere nella trappola della tutela militare nel passaggio alla democrazia. Quella egiziana è stata, anche per l'importanza del paese, la rivoluzione più seguita e forse più analizzata dai media occidentali. Il paese, nonostante anni di dittatura ha mantenuto una vitalità culturale, che ha permesso una presenza articolata di movimenti e partiti, anche se fuori legge, che parevano essere l'ideale terreno di coltura per facilitare ed assorbire in tempi brevi la democrazia. Il ruolo di mediazione dell'esercito ha consentito una transizione da Mubarak, che ha limitato le perdite umane, che potevano essere più ingenti senza un cuscinetto tra i contendenti. Ma questo ruolo, che all'inizio è stato visto con favore dalla parte dei manifestanti che volevano la caduta della dittatura, non si è evoluto in senso democratico e le forze armate stanno procrastinando questa funzione che si sono auto affidati, mantenendo il paese in una sorta di limbo che ne prevede la tutela, impedendo di fatto la piena transizione alla democrazia. Sulle ragioni di questa impasse, si è intravista anche la possibilità di un interesse USA, per non lasciare l'Egitto ad una potenziale deriva islamica, che comprometta la posizione israeliana nella regione. I rapporti tra le forze armate egiziane e gli Stati Uniti possono fare credere alla veridicità di questi sospetti, tuttavia la situazione non potrà continuare all'infinito, se vi è una verità in queste congetture, meglio sarebbe per Washington lavorare direttamente con tutte le parti che possono concorrere alla formazione di un governo democraticamente eletto. Peraltro sulle buone intenzioni di tutte le parti che hanno contribuito alla caduta della dittatura, non sembrano esservi dubbi: le relazioni tra i movimenti ed i partiti di orientamento più diverso sono tali da potere permettere una transizione pacifica verso una democrazia che, nell'intero panorama, potrebbe avvicinarsi maggiormente ai criteri occidentali.

venerdì 20 gennaio 2012

Il riscaldamento globale del pianeta come fattore di destabilizzazione mondiale

La tendenza del riscaldamento globale del pianeta si sta consolidando; è questo che dicono i dati diffusi dalla NASA. Dall'inizio della registrazione delle temperature, era il 1880, quella dello scorso anno è stata la nona più alta mai registrata e comunque più alta di 0,51 gradi Celsius della media della seconda metà del secolo scorso. E' significativo che dei dieci anni più caldi mai registrati, nove sono successivi al 2000, mentre soltanto uno, il 1998, si è verificato negli anni precedenti. Nonostante il dato del 2011 sia comunque stato inferiore a quello di alcuni anni precedenti, non significa che si stia verificando un fenomeno di raffreddamento del pianeta, proprio perchè l'aumento della temperatura media è ormai una costante rispetto a tutti i dati degli anni precedenti. La NASA da per assodato che il fenomeno in atto si concretizzi a causa del fatto che la Terra assorbe più energia di quanto ne emetta, il dato è sicuro, grazie alle accurate misurazioni che avvengono tramite i satelliti. Il meccanismo dell'aumento di riscaldamento funziona grazie all'accumulo delle concentrazioni di gas, tra cui l'anidride carbonica, il cui tasso in volume nell'atmosfera era nel 1880 di 285 parti per milione, mentre nel 2011 è arrivato a 390 parti per milione, che provocano l'effetto serra. L'assorbimento della radiazione infrarossa emessa dalla terra viene effettuato dai gas presenti nell'atmosfera, che trattenendo le radiazioni ne impediscono la naturale fuoriuscita nello spazio provocando praticamente l'aumento del valore della temperatura. Questo dato, che sta diventando una costante, va a combinarsi con la grande variabilità del clima e ciò dovrebbe determinare, secondo gli scienziati, il continuo innalzamento del riscaldamento globale, associato però ad aumenti non costanti della crescita annua della temperatura, nonostante siano previsti picchi record nei prossimi due o tre anni. Questi dati non possono essere che letti con allarme nella comunità internazionale, dato che vanno ad impattare su aspetti talmente importanti che possono condizionare la vita di nazioni intere sia direttamente che indirettamente. Direttamente perchè andranno a colpire, aggravandola la difficile situazione già presente in alcuni paesi poveri, costretti a subire la fame per scarsità di risorse o per la cronica mancanza di acqua. Indirettamente per i paesi ricchi perchè dovranno fare fronte a migrazioni di interi popoli, che si preannunciano bibliche, che gli costringeranno, nella migliore delle ipotesi, a stanziare investimenti ingenti per fornire l'aiuto necessario per limitare queste emergenze umanitarie. Tuttavia i dati dicono chiaramente che l'aggravamento del fenomeno del riscaldamento si è verificato dopo il 2000 e sappiamo che coincide con la spinta impressa dall'industrializzazione dei paesi emergenti, che sono anche quelli più resti ad applicare norme restrittive sull'inquinamento. Il cambiamento economico, che ha permesso l'accesso al mercato a nuove masse di consumatori, ha quindi l'effetto più nefasto nelle condizioni generali del pianeta. La sfida è riuscire a conciliare la tendenza economica in atto con il miglioramento dei meri valori atmosferici, in questo senso il tentativo dell'accordo di Kyoto ha sostanzialmente prodotto un fallimento, perchè ha posticipato alcune soluzioni che andavano nella direzione di una diminuzione dell'accumulo di anidride carbonica di alcuni anni, per permettere sia gli adeguamenti degli impianti produttivi, sia, sopratutto, per non consentire perdite allo slancio economico in corso. Ma il problema è ben presente alle istituzioni sovra nazionali che da anni si prodigano per limitarne gli effetti, sopratutto sociali e geopolitici, seppure con scarsi risultati. Fino ad ora ciò ha determinato un approccio a queste problematiche non condiviso e con soluzioni non coordinate che spesso hanno peccato di efficienza. Il problema climatico ha, invece, troppe ricadute sugli assetti politici ed economici del pianeta per non essere affrontato con una visione il più possibile univoca e condivisa, ma la principale difficoltà contingente è appunto data dalla situazione economica globale, che data la sua negatività, rappresenta un freno consistente allo sviluppo di iniziative il più possibile allargate. E' però pensabile credere di potere posticipare ancora il problema? Si, se si mettono in conto nel bilancio sociale complessivo del pianeta sommovimenti sociali tali da produrre onde d'urto capaci di riverberarsi fino agli equilibri degli stati più ricchi, il quesito a quel punto potrebbe diventare la sostenibilità economica, sociale e politica delle nazioni coinvolte. Si pensi come esempio in piccolo cosa hanno causato le migrazioni che si sono riversate in Italia e Francia a seguito della guerra libica o le migrazioni in Kenya delle popolazioni ridotte alla fame dai paesi vicini. Questi casi sono solo piccoli anticipi di quello che potrà succedere se le carestie si allargheranno. Naturalmente non bisogna tralasciare gli effetti economici in forma di rincari di materie prime a cui andrebbero incontro i paesi ricchi in una situazione finanziaria, che anche nel lungo periodo non promette miglioramenti. Fin qui senza parlare di eventuali conflitti che potrebbero svilupparsi per impadronirsi delle risorse idriche, sempre più scarse; non è remota la possibilità che uno stato a monte blocchi il flusso di un fiume a valle, dove a valle vi è un'altro paese. Sono tutte evenienze che possono scatenare reazioni a catena di proporzioni sempre maggiori e che implicano una sempre maggiore necessità di mediazione. Intervenire, quindi sul clima con regole certe e condivise da un numero più grande possibile di stati, è un investimeno a lungo termine su tutti gli aspetti che condizionano la vita del pianeta ed è perciò urgente arrivare ad uno sbocco positivo della questione.

giovedì 19 gennaio 2012

Il piano per salvare l'euro: intenzioni e debolezze

Il piano per salvare la zona Euro, elaborato da Berlino e Parigi, sarebbe pronto e dovrebbe essere reso pubblico a breve. I diversi punti cardine del programa dovrebbero produrre effetti tali da indurre la crescita economica, aumentare e creare occupazione e competività, ridare slancio all'Europa. L'introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie dovrebbe costituire la principale fonte per sostenere i provvedimenti e centrare gli obiettivi del programma, che si articola anche nella creazione di speciali uffici di collocamento capaci di entrare sul mercato del lavoro con l'offerta di impieghi a tempo determinato combinati con la formazione, inoltre nelle zone frontaliere le agenzie per il lavoro avranno carattere sperimentale, al fine di cercare l'elaborazione di soluzioni comuni tra le istituzioni degli stati confinanti. Sul fronte delle famiglie si dovrebbe cercare di abbassare il costo del lavoro per alzare le retribuzioni, mentre su quello delle imprese, l'impegno sarà di facilitare l'accesso al credito attraverso la semplificazione sia della contabilità delle imprese stesse, che la semplificazione dei regolamenti bancari in modo di garantire una maggiore e più facile accessibilità ai finanziamenti. Una particolare attenzione sarà rivolta alla semplificazione burocratica delle amministrazioni pubbliche, offrendo un sostegno, anche economico, a quei paesi che dimostreranno un concreto impegno alla elaborazione ed alla attuazione di programmi capaci di creare rigore, riforme e risparmio. Sono programmi che sulla carta possono anche essere visti con favore, ma che non rappresentano nulla di nuovo da cose già dette, sopratutto a causa del divario tra teoria dell'elaborazione delle misure e difficoltà pratica del metterle in concreta attuazione. Il primo scoglio è l'introduzione reale della versione che si vorrà attuare della Tobin tax; riuscire a superare lo scoglio del mondo della finanza sarà un banco di prova decisivo per la vita stessa dell'Euro. Quello della finanza e delle banche è il vero muro da superare per iniziare a risolvere la crisi: per come è stato formato il mondo dell'economia l'introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie può costituire una svolta epocale perchè potrebbe sovvertire il fatto che le banche e la finanza diventino strumentali alla società ed allo stato, inteso come insieme della comunità nazionale e non il contrario, come accade attualmente. Se questo obiettivo sarà raggiunto potranno essere perseguiti anche gli altri obiettivi del piano, che rappresentano, però, il ribadire ricette già viste, ma mai attuate fini in fondo. La presa d'atto e di coscienza della necessità di ridare liquidità in mano alle famiglie ed alle imprese è l'unico strada per rilanciare la produzione e rappresenta una crepa nella concezione teutonica fin qui portata avanti dalla Merkel, basata esclusivamente sul rigore dei conti pubblici. La spinta degli industriali ed in generale del mondo produttivo tedesco, che ha visto rallentare le proprie esportazioni in quello che è, malgrado tutto, ancora il mercato più redditizio del mondo, l'Europa, ha fatto cambiare idea alla cancelliera tedesca, più del pressing a cui è stata sottoposta, come azionista di maggioranza, dagli altri partner europei, prima fra tutte l'Italia. Tuttavia non tutti in Germania sono convinti dell'applicazione della Tobin tax, anche in seno al governo tedesco, ad esempio, i liberali, si dicono contrari e propongono come alternativa una tassa per i vantaggi del business bancario e ritenute più pesanti sugli stipendi e le indenità dei dirigenti degli istituti di credito. Ma al netto delle proposte operative quello che manca è ancora una solida impalcatura di tipo politico che sostenga queste iniziative: senza organismi comunitari dotati di maggiore potere decisionale, ogni proposta, ancorchè valida, rischia di essere vanificata nel gioco dei veti incrociati dei singoli governi, ciò vuol dire che la necessaria gestione dell'urgenza è destinata a fallire se non si effettua un ragionamento politico sul lungo periodo, creando un investimento sull'organizzazione comunitaria condiviso da tutti i membri, o perlomeno, quelli convinti di proseguire su questa strada.

mercoledì 18 gennaio 2012

Il peggioramento della crisi nella zona Euro

La crisi finanziaria europea sembra non avere fine ed i suoi peggioramenti si susseguono senza sosta. E' questo, sostanzialmente, l'allarme lanciato dal governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, che ha sollecitato i governi a nuove riforme strutturali a favore della competitività. Ma il segnale pare essere una ulteriore mannaia in paesi già duramente provati dalle misure severe approntate dai propri governi. Il costo della crisi sta ricadendo sulle fasce più deboli della popolazione della zona euro, che vedono ridotto drasticamente il proprio potere d'acquisto, in una dimensione di diseguaglianza sempre crescente e che va ad innescare una spirale pericolosa sul fronte dei consumi e quindi della produzione. Quella intrapresa sembra una strada improntata su di un rigore eccessivo, destinato a soffocare la crescita, sulla quale è puntato esclusivamente il sistema economico degli stati. Aldilà del taglio al benessere della popolazione, continuando su questa via verranno a mancare le entrate messe a bilancio delle imposte indirette, per manifesta mancanza di liquidità da parte delle famiglie e delle imprese. Il premier italiano Mario Monti, partendo con una politica di rigore eccessivo, per dare un chiaro segnale alle istituzioni UE, ma sopratutto alla Germania, sperava poi che queste misure fornissero il passaporto per avere aiuti per sostenere la crescita italiana, ma così non è stato: la cancelliera Merkel, pur lodando i provvedimenti del governo tecnico italiano, ha più volte affermato che l'Italia può farcela da sola, metodo elegante per smarcarsi dal fornire aiuti a Roma, come aveva fatto con Atene. E' pur vero che il confronto tra le dimensioni dell'economia italiana con quella greca non è neppure da fare, troppo più grande quella della penisola, che è pur sempre la terza economia della zona euro, ma proprio per questo non risulta comprensibile non intervenire a favore di un mercato che per Berlino rappresenta uno sbocco importante. La verità è che i governi della Germania e della Francia, sono sottoposti a pressioni interne difficilmente gestibili, sopratutto per Parigi, che a cento giorni dalle elezioni si è vista arrivare la declassazione delle agenzie di rating. Uno dei problemi europei finanziari più immediati, legati agli umori dei mercati, è proprio il rapporto dell'Europa con queste agenzie, che rappresentano una fonte di dissesto fondamentale e mantengono inalterata la propria credibilità nonostante abbiano compiuto nel tempo errori grossolani. Il sospetto che siano pilotate in favore di un'altra economia in crisi: gli USA, sembra più che legittimo. Nonostante tutte le rassicurazioni fornite da Washington, l'imminente campagna per le presidenziali americane, offre il prestesto, sia a democratici che repubblicani per aggiustare il tiro contro l'euro, maggiore avversario del dollaro. Gli americani sono piuttosto sensibili all'argomento della supremazia della bandiera a stelle e strisce ed il ritorno sul vecchio continente alle divise nazionali potrebbe favorire l'economia USA, sia come collettore di risorse sia permetterebbe agli Stati Uniti di combattere l'espansionismo economico cinese che si concretizza sempre di più in Europa, grazie alla disponibilita di liquidi enorme. Il rischio di un imminente ulteriore declassamento italiano e del default greco mettono l'Euro in una posizione pericolosa, di fronte alla quale le strategie di una UE, che non riesce a compattarsi a dovere, non paiono sortire effetti di rilievo. Ancora una volta la politica è però la grande assente: con l'agilità di un elefante, le istituzioni UE, non riescono a proporre ed imporre soluzioni che abbiano natura di urgenza e diano quella credibilità politica che costituisce la principale difesa contro l'instabilità dei mercati. La necessità che l'Europa si doti di sistemi e misure dotate di automatismi atti a fronteggiare in tempi rapidi le sollecitazioni dei mercati è uno dei cardini su cui punta Draghi: la valutazione del debito che consideri l'impatto dei giudizi delle agenzie di rating è ormai una esigenza improcrastinabile, ed anzi risulta molto strano come non vi sia ancora messo rimedio. Un'altra necessità a cui dare corso con velocità è aumentare il fondo salva stati, ma non solo, occorre che il fondo sia messo al riparo da giudizi negativi con dispositivi salvagente, che lo tutelino in maniera completa da eventuali speculazioni dei mercati, dato che è destinato ad essere il maggiore strumento di salvaguardia della situazione finanziaria degli stati aderenti. Quello che purtroppo emerge è una costruzione dell'euro basata su fondamenta leggere, che non solo non hanno previsto l'evoluzione storica della finanza mondiale, ma che, ancora peggio, non si sono adeguate mentre i cambiamenti erano e sono in corso. Oltre cioè alla debolezza normativa si assiste ad una imperizia preoccupante di chi è stato e sta nelle posizioni di comando, perchè appare legato a logiche localistiche e privo del tutto di una visione di insieme e sopratutto a lungo termine.

martedì 17 gennaio 2012

Il ruolo della Cina nella questione del petrolio iraniano

La questione dell'embargo all'Iran costituisce l'ennesimo scoglio sul cammino della ripresa mondiale. Anche senza arrivare al blocco totale delle esportazioni del greggio di Teheran, il solo averne ventilato la possibilità ha provocato un immediato rialzo dei prezzi al barile, che va ad aggravare uno stato generale dell'economia del pianeta non certo in buona salute. Anche ragionando sul medio periodo, se non si riuscirà a fare fronte al fabbisogno stimato di materie prime legate all'energia, anche il gas, non solo il petrolio, si potrebbe dovere rivedere i programmi stilati per una possibile ripresa, che appare, comunque, ancora problematica. Per tutte queste ragioni il primo ministro cinese Wen Jiabao, quindi il capo del motore economico più grande del pianeta, ha ritenuto doveroso richiedere la collaborazione degli Emirati Arabi, per ottenere rassicurazioni sulla volontà di aumentare la produzione giornaliera di barili di greggio per compensare l'eventuale diminuzione di esportazione iraniana. La mossa della Cina, che non aderisce alle sanzioni di Washington ed anzi le ha condannate, mira a tutelare la propria economia da problemi di approvigionamento, che potrebbero derivare dal più volte minacciato blocco dello stretto di Hormuz, Pechino, infatti, importa circa il 15% del proprio intero fabbisogno petrolifero dall'Iran. Sul piano dei rapporti internazionali, la manovra del Presidente cinese non sarà indolore in seno all'OPEC. Dati i rapporti già tesi tra i due dei soci più pesanti: Arabia Saudita ed Iran, la mossa cinese è destinata ad acuirne i motivi di scontro, che, va sottolineato, vanno aldilà dei meri dati sui quantitativi della produzione. Va anche detto che Pechino sta dando prova di una abilità diplomatica notevole, che ne dimostra la capacità di restare in equilibrio, mantenendosi sostanzialmente equidistante tra le parti e nello stesso tempo riuscendo a salvaguardare i propri interessi. Certo gli strumenti in mano a Pechino sono consistenti: da un lato la potenza economica che ne fa un cliente per i produttori di greggio altamente solvibile grazie alla grande liquidità disponibile e capace quindi di assorbire grossi quantitativi di produzione e dal lato diplomatico il possesso di un seggio permanente nel Consiglio delle Nazioni Unite, permette spazi di manovra decisamente superiori ad altre nazioni grazie al potere di veto. Pechino ha più volte affermato di lavorare per la pace della regione, ciò rappresenta un proprio interesse preminente, giacchè permette di controllare l'andamento dei prezzi dei prodotti petroliferi, intimamente legati alla capacità produttiva cinese. Frattanto l'iniziativa cinese ha provocato le reazioni iraniane, che vedono, con la manovra del premier di Pechino, il vanificarsi dei propri piani che vertono proprio sulla leva del greggio per spaventare le economie, non solo occidentali. Ma le dichiarazioni del ministro del petrolio saudita Ali al-Naimi hanno cercato di smorzare le polemiche, specificando che l'aumento della produzione dei paesi arabi è dettato essenzialmente dall'aumento della domanda, omettendo però le ragioni che stanno causando questa domanda. Il ruolo della Cina, trascinata dentro la questione del nucleare iraniano per ragioni commerciali, rischia, alla fine, di essere il principale alleato degli USA, anche se in maniera indiretta; resta da vedere quale strategia ora sarà capace di elaborare Teheran per combattere le sanzioni, che hanno prodotto per la Repubblica Islamica una perdita di clienti e quindi di valuta sostanziosa. Il tour diplomatico del presidente iraniano nei paesi latino americani può coprire una parte dell'ammanco venutosi a creare, ma non può coprire in uguale maniera il senso di accerchiamento che si è venuto a creare, anche grazie all'inasprimento dei rapporti con gli stati sunniti della penisola arabica. Se l'Iran si sentirà ancora più sotto scacco la speranza è che non ricorra a soluzioni estreme, come quelle più volte minacciate, per riuscire a trovare una via di uscita.

lunedì 16 gennaio 2012

Il Qatar favorevole all'intervento in Siria

Nonostante le rassicurazioni del Presidente siriano Assad, che ha più volte promesso la democratizzazione della vita politica del paese con riforme, in verità, mai partite ed amnistie per i ribelli al regime vigente, la repressione nel paese continua attraverso spargimento di sangue, grazie ad azioni militari in grande stile. Oscurata dalla cronaca, sopratutto per i temi economici, la vicenda siriana è lontana da una risoluzione in un senso o nell'altro, con il regime, che malgrado lo schieramento di forza messo in campo, non riesce ad avere ragione della protesta, che anzichè placarsi sembra aumentare di intensità con il passare del tempo. La situazione preoccupa la Lega Araba, alla ricerca di un ruolo di primario livello nel panorama internazionale. La necessità dell'affermazione di un organismo sovranazionale nei paesi arabi passa, oltre che dai tavoli delle conferenze, anche dal concreto intervento nelle aree di crisi. La situazione siriana agli occhi del mondo rappresenta un caso che può dare la necessaria visibilità ad una ipotetica azione diretta, anche con un intervento armato da parte di un soggetto interessato a conquistare posizioni di preminenza nel teatro internazionale. Principale fautore di questo interventismo è l'emiro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Khalifa al Thanin, che spinge per uno schieramento di truppe sul territorio siriano, giustificandolo con ragioni umanitarie. In effetti la situazione del paese di Damasco sta diventando giorno dopo giorno sempre più critica, con masse di persone che spingono ai confini, sopratutto quelli turchi per sfuggire alla repressione della dittatura. Il problema dei profughi è direttamente connesso con quello dell'esercizio della violenza e la situazione nei campi allestiti nei territori immediatamente contigui ai confini siriani è sempre più critica. Il Qatar non è nuovo ad iniziative basate sull'impiego di uomini e mezzi per la risoluzione di crisi internazionali, infatti, già per la guerra libica si è distinto per avere assunto il comando delle operazioni alla conclusione della missione della coalizione occidentale dei volenterosi. Ma oltre le ragioni umanitarie vi è una concreta apprensione dei paesi vicini alla Siria, che temono una deriva del paese, che ricopre con il suo territorio una valenza strategica altissima, oltre al timore di una influenza ancora maggiore di quella attuale da parte iraniana. Non è difficile leggere infatti dietro l'interventismo della Lega Araba l'azione di retroguardia dell'Arabia Saudita e quindi, seppure indirettamente degli Stati Uniti, per una normalizzazione del paese siriano in senso anti iraniano. Il vero obiettivo è disinnescare la bomba siriana ed ottenere un governo almeno neutrale, che non permetta a Teheran di usare gli altopiani di Damasco come base di lancio dei propri missili per minacciare Israele ancora da più vicino. Perchè in ultima analisi è proprio questa la ragione del possibile intervento, togliere all'Iran il terreno sotto i piedi per potere esercitare il suo ricatto e nel contempo togliere ad Israele i prestesti per un attacco preventivo contro la Repubblica Islamica, che potrebbe portare una regione piuttosto estesa in un clima di guerra.

venerdì 13 gennaio 2012

I problemi connessi all'embargo sul petrolio iraniano

Gli sviluppi della questione delle sanzioni sul petrolio iraniano stanno per aprire nuovi scenari diplomatici. Incassato l'appoggio di Europa e Giappone sulla riduzione dei quantitativi di acquisto di greggio iraniano, gli USA devono ora affrontare il problema Cina ed India. I due colossi economici necessitano per le loro economie del petrolio di Teheran e non intendono rinuciarvi, ma diverso è il loro atteggiamento di fronte a Washington. Per la Cina, sempre più intenzionata a recitare un ruolo di primario livello sul panorama internazionale, l'embargo contro l'Iran non è giustificabile perchè portato avanti, non in sede ONU, dove comunque farebbe mancare il suo appoggio in sede di Consiglio sdi sicurezza, ma in maniera autonoma dagl Stati Uniti, che si arrogano il diritto di controllare l'espansione nucleare iraniana. E' chiaro che una potenza nucleare ai confini dell'impero cinese non conviene neanche a Pechino, ma in questo momento prevale la ragione economica: infatti con il paese iraniano sottoposto a sanzioni, gli acquirenti possono spuntare considerevoli sconti sugli acquisti di greggio e questa motivazione va a giustificare il contrasto con gli USA, mascherato da ragioni diplomatiche e di equlibrio internazionale. L'atteggiamento indiano è diverso, più prudente, come tradizionale alleato americano l'India non vuole urtare la suscettibilità americana e cerca quindi di aggirare il problema trovando metodi alternativi di pagamento, che non possano violare le sanzioni. Si tratta di equilibrismi diplomatico finanziari, ma che possono contare sull'impossibilità da parte di Washington di rompere con l'India, alleato chiave nella questione pachistana. Sul lato della produzione mondiale di greggio gli USA hanno ottenuto rassicurazioni dall'Arabia Saudita, sull'incremento della produzione per compensare le quantità soggette ad embargo ed evitare così catastrofiche ricadute sui prezzi del petrolio, ma si capisce che se l'Iran abbassasse i prezzi in maniera considerevole ci sarebbe la corsa al mercato nero del petrolio di Teheran, vanificando così le sanzioni pensate da Washington.
Nel contempo la lotta sotterranea contro il nucleare iraniano si alza di livello a causa dell'ultimo attentato in cui è rimasto vittima uno scienziato nucleare della Repubblica islamica. I contendenti, essenzialmente tre: Iran, USA ed Israele stanno facendo un gioco sempre più pericoloso, che rischia di portare a situazioni di non ritorno e la sempre presente minaccia del blocco navale dello stretto di Hormuz mantiene alta la temperatura. D'altro canto l'aumento della tensione significa che i servizi segreti israeliani ed americani ritengono che i progressi iraniani sul nucleare siano stati consistenti ed anche l'intensificazione dell'azione diplomatica rende l'idea della preoccupazione che si respira. Difficile fare previsioni a lungo termine, il difficile equilibrio rischia di rompersi ormai per un nulla e questo significa doversi prepare a scenari molto difficili.

martedì 10 gennaio 2012

La UE decisa ad introdurre la Tobin tax

Il piano della Commissione Europea è ormai chiaro e consiste nella volontà di introdurre la Tobin Tax, anche oltre i paesi dell'Eurozona, cioè in 27 stati, escludendo la Gran Bretagna, che si è già opposta ferocemente al provvedimento, vedendo i propri privilegi intaccati. Lo scopo finale è quello di convertire il gettito della nuova imposta in un fondo direttamente destinato al bilancio dell'Unione Europea, per ridurre la contribuzione degli stati membri. Nella volontà di creare la nuova imposta andando ad applicare la tassa sulle transazioni finanziarie, la Commissione Europea, va ad introdurre almeno due novità: la prima è la tassazione del settore bancario, che in Europa non ne è praticamente soggetto, la seconda, forse politicamente ancora più rilevante, è l'introduzione di una autonomia finanziaria, seppure parziale, dell'Unione Europea. Il primo aspetto è la presa d'atto della necessità di iniziare ad imporre una tassazione ad un settore che spesso con le proprie manovre avventate, se non con vere e proprie speculazioni, ha creato problemi agli stati, certo la natura dell'imposizione fiscale non vuole essere punitiva, tuttavia questa introduzione può essere considerata come un primo segnale contro le transazioni troppo spinte. A ciò si deve aggiungere un sentimento di equità verso la totalità del sistema, chiamando chi muove materialmente il denaro a contribuire al funzionamento del sistema Europa. Questo aspetto si lega quasi ad incastro con la seconda novità che verrà introdotta dal provvedimento: l'autonomia di bilancio delle istituzioni comunitarie. La particolare rilevanza della volontà di distaccarsi dalla contribuzione dei singoli stati, nasce dall'esigenza di essere meno soggetta all'influenza dei paesi membri in una chiara ottica di ricercare l'autonomia necessaria per conquistare quella indipendenza sufficiente ad imporsi come istituzione guida dell'insieme dei paesi aderenti. Vista sotto questa ottica la portata del provvedimento si può considerare come un investimento sul futuro del ruolo che la UE vorrà assumersi come guida reale dell'Europa e nel contempo, in linea con le intenzioni di Germania, Francia ed ora anche Italia, rafforzarne le posizioni e la forza, anche politica, per avere maggiore peso nel ruolo di indirizzo. Si tratta di una vera e propria presa d'atto della necessità, di configurare maggiormente il ruolo centrale delle istituzioni europee in vista di una maggiore unione in senso sia politico che economico in grado di contrastare le tempeste che fino ad ora sono state affrontate per lo più divise dagli stati europei. Esiste però il problema inglese, la rigidità del rifiuto ad applicare la Tobin tax, da parte di Cameron, potrebbe generare una spaccatura nella UE, se le ragioni della Gran Bretagna dovessero trovare dei seguaci: si aprono così possibili scenari che vanno dall'Europa a più velocità fino alla spaccatura vera e propria con la necessità di ridisegnare i confini dell'Unione. Se la prima opzione non è praticabile perchè implica una dose di patteggiamenti in grado di paralizzare la vita comunitaria in estenuanti trattative, che la situazione attuale non può consentire perchè necessita di tempi di azione rapidi, la seconda eventualità è quella più temuta perchè implica un fallimento della politica di inclusione in ragione del fatto che una UE più grande è anche più forte. Nel mezzo ci sta soltanto la volontà, se esiste, di mediare, tenendo però conto, che il tempo stringe e che ogni decisione rinviata è un aggravio delle situazioni dei singoli stati e quindi della totalità dell'Unione.

lunedì 9 gennaio 2012

Nessuno fuori dall'eurozona?

Di fronte al pericolo di una concreta rottura dell'eurozona, i leader europei si prodigano in dichiarazioni rassicuranti che possano favorire la ripresa dei mercati; ma il problema che affiora è politico: ormai le nazioni europee, anche le più forti, si sono rese conto della necessità di fare quadrato, pena la fine dell'Unione Europea e di ogni prospettiva politica del soggetto continentale. Quando Angela Merkel, socio di maggioranza della UE, dice che nessuno deve uscire dall'eurozona, significa che anche la Germania, pur con i necessari paletti che intende mettere, si è rassegnata a mediare sul vero problema che assedia l'Euro: quello dei debiti sovrani e la necessità di garantire, contemporaneamente anche la crescita economica. La sterzata data dal nuovo premier italiano Monti, in accordo con Sarkozy, in questa direzione ha dato i suoi frutti, permettendo alla Francia di trovare una sponda affidabile per contenere lo strapotere tedesco. In questa ottica anche il fatto che non verrà abbandonata a se stessa neppure la Grecia, come ribadito dalla premier tedesca, significa che nonostante i sacrifici a cui sarà sottoposta Atene, l'ipotesi della sua espulsione dalla moneta unica europea non sarà attuata. Queste considerazioni non attenuano però la necessità di una veloce attuazione dei meccanismi anticrisi, che, se nella prima fase dovranno essere per forza di natura economico finanziaria, dovranno, poi, essere sostenuti da provvedimenti forti di natura politica, dando maggiore forza alle strutture politiche centrali dell'Unione Europea. Se la direzione sarà questa, diventerà inevitabile la rinuncia ad alcune prerogative dei singoli stati, a quel punto potrebbe verficarsi quella selezione che non è riuscita alle crisi economiche: sarà difficile vedere, infatti, stati governati da formazioni nazionaliste e peggio localistiche, si pensi all'Ungheria, privarsi degli spazi di manovra che la legge nazionale consente. A quel punto le nazioni più forti dovranno sapere imporre le istituzioni centrali, pena mettere fuori i recalcitranti, anche se come capitale hanno città che si chiamano Londra. Solo così, attraverso una politica dichiaratamente forte anche gli speculatori dovranno cambiare bersaglio.

domenica 8 gennaio 2012

La pochezza degli argomenti dei candidati repubblicani specchio della società USA

Mentre la sfida elettorale che dovrà designare lo sfidante di Obama si sta intensificando, si assiste ad una ben triste sfilata di propositi, sempre più esasperati, per raccogliere il consenso dell'elettorato repubblicano. Siamo in una fase prevalentemente rivolta a quell'elettorato non certo moderato, che sicuramente non farà mancare il suo appoggio al partito che sfida il presidente in carica. Ma per chi analizza la politica non è una perdita di tempo: l'estremismo e la violenza dei propositi di chi si sfida per comptere con Obama, non può che risultare preoccupante, sia all'uomo della strada che ai governanti degli altri paesi, forzatamente alla finestra in attesa degli eventi. Cercare di convincere potenziali elettori ancora sparlando dei gay, assicurando il bombardamento dell'Iran e promettendo di non pagare i debiti degli europei segnala un livello talmente basso della politica americana che non può non essere sottolineato. Infatti per Obama, nonostante le tante promesse non mantenute ed i tanti errori compiuti nel cammino della sua presidenza, non dovrebbe poi essere tanto difficile ottenere la rielezione. Tuttavia non si può che fermarsi a riflettere sulle conseguenze se questo non dovesse succedere; cosa cioè aspetterebbe al mondo intero se uno di questi pazzi impreparati dovesse diventare il presidente degli Stati Uniti. E' pur vero che il dire ed il fare vi è un abisso, nemmeno il presidente USA, alla fine può decidere singolarmente il bombardamento di Teheran, ma quello che viene detto in campagna elettorale è il chiaro sintomo di una mancata crescita della nazione statunitense, che aldilà delle eccellenze dei grnadi centri, è ancora formata da un ceto sociale arretrato, anzi ancora più arretrato grazie alla globalizzazione che ne ha, di fatto, provocato l'isolamento; un isolamento in cui si è chiusa come in un rifugio stagno ed impermabile alle nuove necessità e tensioni sociali. Del resto anche quella che doveva essere l'illuminata amministrazione Obama ha represso, anche con brutale violenza, i moti di chi chiedeva maggiore equità contro lo strapotere finanziario. Ma questi rivoltosi, un vero e proprio pericolo per la coscienza americana, erano e sono comunque una minoranza informata che non può bastare a bilanciare le grandi masse arretrate, pilotate facilmente da televisione e predicatori, che riescono ad indirizzarle nel solco del più bieco americanismo, fatto di dimostrazione di muscoli e mancanza di rispetto per le minoranze. Per il mondo l'esistenza di questa arretratezza fatta di ignoranza e povertà all'interno della nazione più potente del pianeta è un pericolo sempre maggiore, perchè vi sono sempre meno argini per contenerla. Ed è forse questo l'errore più grosso di Obama fatto nella sua presidenza, non avere fatto poi molto per intaccare questo stato di cose: se il presidente in carica allungherà il suo mandato sarà il caso di ripensare tutto il rapporto con quella che viene comunemente definita l'America profonda.