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lunedì 23 gennaio 2012

Il punto della situazione della difficile transizione democratica ad un anno dalle rivolte

Ad un anno di distanza dall'inizio del processo dell'abbandono dei popoli nord africani della tirannia e dopo la conclusione dell'operazione in Iraq degli USA, sembra opportuno compiere alcune riflessioni sul cammino della democrazia e sui passi avanti che le nuove istituzioni dei paesi coinvolti nel passaggio della forma di goveno stanno compiendo. Innanzitutto, a prescindere dalle vere ragioni che hanno mosso gli interventi occidentali, occorre chiedere se l'apporto esterno ha consentito, oltre al successo militare, anche una maturazione, sia delle strutture alternative a quelle contestate e decadute e se, nel contempo gli strati sociali sono stati capaci di favorire la transizione democratica. Ma ancora prima è necessario domandarsi con quale tipo, livello e grado di democrazia si vuole misurare questi progressi. Non è possibile, infatti, confrontare situazioni ormai sedimentate da anni, grazie a strutture sociali ben definite e forme di partecipazione alla vita politica diffuse e la cui accessibilità è garantita, con situazioni di totale novità all'introduzione della vita democratica. In questo senso, pur registrando il successo dell'abbattimento del regime di Saddam, gli USA hanno compiuto un errore di valutazione marchiano, credendo che fosse sufficiente eliminare la causa della mancanza di democrazia per riempirne il vuoto. Non è stato così. L'Iraq odierno è uno stato di polizia, in preda al terrore continuo, proprio perchè gli americano non hanno saputo consentire la crescita di quella parte sociale che poteva generare le condizioni per lo sviluppo della vita demcocratica. E' vero che la NATO ha imparato la lezione, perchè in Afghanistan, oltre che alla lotta armata, si è puntato sul coinvolgimento della popolazione mediante la costruzione di infrastrutture, quali scuole ed ospedali, che possono costituire il germe fondativo su cui aprire la libertà di confronto. Ma ancora questo è insufficiente, perchè il paragone è con situazioni di totale differenza da quelle occidentali, come la condizione femminile o la divisione tribale, che non permetteranno, forse mai, di raggiungere gli standard dell'ovest del mondo. Nell'Africa settentrionale le cose vanno in una direzione simile: a parte la Tunisia, dove il risultato elettorale ha comunque destato preoccupazioni agli occidentali per l'affermazione dei movimenti religiosi islamici, peraltro avvenuta in una situazione di totale regolarità del voto, in Libia ed Egitto, la transizione democratica appare ingolfata per problemi, seppure differenti, di chiara origine interna. Sulla Libia la previsione era facile, che la strada verso la democrazia non sarebbe stata agevole, dopo l'asprezza del conflitto che ha portato alla morte di Gheddafi, appariva quasi scontato. La causa ostativa maggiore è la struttura sociale divisa rigidamente in forma tribale, questi compartimenti stagni della società, non favoriscono una apertura trasversale, necessaria alla creazione di partiti, che possano caratterizzarsi, seppure da angolazioni politiche diverse, per la presentazione di programmi politici di ambito generale. L'ostacolo, malgrado i concreti tentativi di parte dei protagonisti politici libici, è obiettivamente difficile, ed ha già costituito dissidi pesanti in seno al CNT, proprio nella sua sede principale di Bengasi, centro nevralgico della rivolta. Il punto è cruciale perchè se non si oltrepassa la visione esclusivamente tribale la divisione permane ed il rischio di una ulteriore guerra civile è dietro l'angolo. Questa volta all'occidente non si possono imputare grandi colpe, se non di non avere investito abbastanza negli aiuti extra militari alle nascenti istituzioni libiche, che hanno in definitiva bisogno di creare un bagaglio culturale alla popolazione in generale per assuefarsi alla pratica democratica oltre la divisione in clan. Per l'Egitto la situazione è ancora differente, giacchè sono stati gli stessi egiziani a cadere nella trappola della tutela militare nel passaggio alla democrazia. Quella egiziana è stata, anche per l'importanza del paese, la rivoluzione più seguita e forse più analizzata dai media occidentali. Il paese, nonostante anni di dittatura ha mantenuto una vitalità culturale, che ha permesso una presenza articolata di movimenti e partiti, anche se fuori legge, che parevano essere l'ideale terreno di coltura per facilitare ed assorbire in tempi brevi la democrazia. Il ruolo di mediazione dell'esercito ha consentito una transizione da Mubarak, che ha limitato le perdite umane, che potevano essere più ingenti senza un cuscinetto tra i contendenti. Ma questo ruolo, che all'inizio è stato visto con favore dalla parte dei manifestanti che volevano la caduta della dittatura, non si è evoluto in senso democratico e le forze armate stanno procrastinando questa funzione che si sono auto affidati, mantenendo il paese in una sorta di limbo che ne prevede la tutela, impedendo di fatto la piena transizione alla democrazia. Sulle ragioni di questa impasse, si è intravista anche la possibilità di un interesse USA, per non lasciare l'Egitto ad una potenziale deriva islamica, che comprometta la posizione israeliana nella regione. I rapporti tra le forze armate egiziane e gli Stati Uniti possono fare credere alla veridicità di questi sospetti, tuttavia la situazione non potrà continuare all'infinito, se vi è una verità in queste congetture, meglio sarebbe per Washington lavorare direttamente con tutte le parti che possono concorrere alla formazione di un governo democraticamente eletto. Peraltro sulle buone intenzioni di tutte le parti che hanno contribuito alla caduta della dittatura, non sembrano esservi dubbi: le relazioni tra i movimenti ed i partiti di orientamento più diverso sono tali da potere permettere una transizione pacifica verso una democrazia che, nell'intero panorama, potrebbe avvicinarsi maggiormente ai criteri occidentali.

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