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venerdì 27 gennaio 2012

In Tibet torna la repressione cinese

Nel Tibet si riapre una stagione di violenza e repressione. Gli episodi di questi giorni riportano la regione alla drammatica situazione del 2008, con manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza di Pechino, che si vedono costrette a reagire all'ondata di ribellione provocata da una lunga serie di suicidi di monaci, che si danno fuoco dopo essersi cosparsi di carburante. L'alta drammaticità del metodo del suicidio, giunta ad una alta spettacolarizzazione, ha un grande potere sulla popolazione ed è infatti molto temuta da Pechino, sia perchè ha una gran presa sulla folla dei tibetani, sia perchè suscita sdegno profondo nell'opinione pubblica internazionale. Il fatto che Pechino abbia ammesso la presenza di morti, un comportamento molto differente da quello solito di chiusura totale sull'argomento Tibet, può soltanto significare che la situazione sta degenerando pericolosamente. Il centro della protesta si trova nella provincia di Sichuan, nella città di Seda, che è sottoposta al coprifuoco e risulta completamente isolata perchè circondata dalle truppe cinesi. Anche nel distretto di Aba, sempre nel Sichuan, vi sono tensioni. I rivoltosi hanno attaccato le forze cinesi con pietre e bombole di gas e nella zona del distretto di Luhuo, un monastero sarebbe assediato perchè vi si sarebbero rifugiati diversi rivoltosi. Il tema centrale rivendicato dai dimostranti verte, oltre alla libertà del Tibet, sulla continua opera di sradicamento delle tradizioni, usi e costumi autoctoni; processo che Pechino porta avanti per nazionalizzare il Tibet e piegarlo così ad un atteggiamento più malleabile verso la Cina. La politica cinese in Tibet segue un approccio composto da un misto di violenza fisica unito ad una politica che tende a normalizzare il territorio mediante una azione scientifica tesa ad erodere l'identità culturale, religiosa e linguistica del popolo tibetano, con il fine di assumerne l'assoluto controllo. Le normali resistenze di un popolo, che nutre per i propri valori un attaccamento assoluto, costituiscono, anche grazie al notevole apporto del fattore religioso, un ostacolo che Pechino, negli anni, non ha mai saputo gestire. Non sono bastati infatti l'ingente spiegamento militare ed i massicci inserimenti di cittadini cinesi nelle zone tibetane allo scopo di scalfire la presenza preponderante degli elementi culturali locali. La Cina per giustificare le repressioni compiute ricorre al solito ritornello delle dittature in difficoltà, che è quello di accusare gruppi, o addirittura nazioni straniere di soffiare sul fuoco delle rivolte, per fomentare le istanze separatiste ed in ultima analisi minare l'integrità territoriali cinese. Il problema è molto sentito dalle autorità di Pechino per le evidenti ripercussioni sul piano internazionale. Nonostante l'influenza economica cinese, capace di soffocare lo sdegno delle nazioni più potenti, si deve ricordare ancora il voltafaccia del vicepresidente americano Biden sull'argomento, ci sono state alcune eccezioni, la più rilevante delle quali è stata l'atteggiamento della cancelliera Merkel; ma esiste una grande quantità di pressione esercitata da movimenti pacifisti ed organizzazioni di pensiero capaci comunque di sollevare il problema in maniera molto rilevante sul piano internazionale. Dopo lo schiaffo del Nobel al Dalai Lama, Pechino, proprio a causa delle proprie ambizioni di protagonismo nel teatro internazionale non può permettersi altre forme di pressione sui diritti civili oltre a quelle che già patisce sul fronte propriamente interno. Tuttavia l'amministrazione cinese non può cedere sul fronte interno alla protesta tibetana, un cui eventuale successo, anche di ridotte dimensioni, potrebbe rappresentare una crepa nell'efficiente sistema volto a normalizzare l'impero. La questione non è di poco conto, perchè su di essa si basa il progetto espansionistico economico cinese da percorrere mediante un pugno di ferro sistematico all'interno del proprio territorio da praticare senza cedimenti. Difficile fare una previsione positiva sul futuro del Tibet, che deve restare un esempio, se possibile da contrastare, su come le dittature cercano di distruggere le tradizioni dei popoli sottomessi per cancellare ogni forma di opposizione.

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