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martedì 19 febbraio 2013

In Pachistan aumenta la violenza contro gli sciti

Gli episodi di violenza, che hanno provocato ben 89 morti, avvenuti in Pakistan, ai danni dell'etnia Hazara, di religione scita, annunciano un grave deterioramento all'interno dell'Islam, con conseguenze, che potenzialmente, possono provocare la deflagrazione di un conflitto di proporzioni immani. Gli autori degli attentati sono riconducibili ad aderenti al movimento estremista sunnita Lashkar-e Jhanvi, che non riconoscono gli sciti tra i componenti della fede musulmana. Nello scorso anno, in Pachistan, sono stati ben 400 i morti appartenenti all'etnia Hazara a seguito di attacchi causati dalla violenza settaria. Le persecuzioni si inquadrano in una strategia, che mira a conversioni forzate ed in ultima analisi alla trasformazione del Pakistan in teocrazia sunnita. In questo obiettivo al gruppo Lashkar-e Jhanvi, si affiancano Al Qaeda ed i Talebani, che godono di protezioni all'interno dello stesso governo di Islamabad. Occorre essenzialmente tenere presente due fattori che possono essere determinanti nella questione. La prima è il possesso di armamenti nucleari da parte del Pachistan. Si tratta di un aspetto fondamentale per gli equilibri regionali ed anche mondiali; il governo centrale, ancorchè corrotto ed inaffidabile, già ora, non riesce ad esercitare la piena sovranità sull'intero territorio sul quale esercita nominalmente il predominio legale; anzi ciò è vero soltanto nella zona immediatamente intorno alla capitale, nel resto del paese vi sono ampie porzioni di territorio in cui la legge è amministrata da bande locali o dai Talebani. In questa situazione trovano terreno fertile le azioni che puntano ad una legalità parallela, spesso fondata sul predominio etnico e religioso. Se queste pratiche dovessero diffondersi fino ad arrivare alle zone nevralgiche dei centri di potere, il pericolo che l'arsenale bellico cada in mano a gruppi radicali diventerebbe concreto. Il secondo fattore è che questi gruppi estremisti sunniti stanno intensificando la loro azione da circa un anno, per fare ciò hanno senz'altro avuto bisogno di finanziamenti, perlomeno per sostenere la lotta politica verso il regime teocratico. Trattandosi di sunniti non si può non pensare alle monarchie del Golfo Persico, che hanno ingaggiato da tempo una guerra non dichiarata contro l'Iran. Se questa influenza fosse malauguratamente vera sarebbe, altresì, impensabile la mancanza di una risposta da parte di Teheran, che ha fatto della tutela delle minoranze scite nel mondo, uno dei cardini della sua politica estera. Ecco delinearsi, quindi, il potenziale pericolo di un conflitto tutto interno all'Islam, che potrebbe coinvolgere una zona molto vasta che dall'Arabia Saudita, attraversa l'Iraq, l'Iran ed arrivi fino a Pakistan ed Afghanistan. Si tratta di un territorio strategico per l'economia mondiale perchè vi sono le più grandi riserve di greggio e costituisce un insieme di punti strategici per gli equilibri geopolitici. Difficile non credere che Washington guardi a questi episodi, che sono tutt'altro che avulsi da una visuale panoramica complessiva, senza la giusta preoccupazione. Del resto per gli USA, e per l'occidente, l'estremismo sunnita è ugualmente pericoloso di quello scita ed in una eventuale guerra di religione sarebbe veramente difficile assumere la scelta di un qualsiasi atteggiamento. Se si riduce, invece, la visuale, limitandosi al caso Pachistano, la comunità internazionale non può augurarsi l'instaurazione di una teocrazia opposta a quella iraniana soltanto perchè sunnita. Purtroppo le possibilità di riuscita che questo accada, perlomeno in parti singole del paese è molto alta: le elezioni in programma tra pochi mesi presentano un paese fortemente disunito, dove la povertà è fortemente aumentata in un contesto di difficile gestione della cosa pubblica da parte dello stato. Anche sul piano internazionale, l'alleanza con gli USA si è allentata per i ripetuti episodi di inaffidabilità delle istituzioni nella collaborazione nella lotta al terrorismo e l'inserimento cinese si è limitato ad insediamenti economici, senza abbracciare una visuale di collaborazione più complessiva, che non rientra nei piani di Pechino.

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