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giovedì 12 giugno 2014

I radicali sunniti ridisegnano il Medio Oriente

L’avanzata dei radicali sunniti in Iraq e nella Siria orientale ridisegna il Medio Oriente e segna il fallimento della politica estera americana nella regione. Per gli equilibri mondiali si tratta di una notizia che altera una situazione già esplosiva e pone la questione mediorientale al centro delle problematiche delle relazioni internazionali. L’unificazione dei territori a forte presenza sunnita genera il tanto temuto califfato, destinato, probabilmente a diventare uno stato dove dovrebbe vigere la sharia e quindi costituire un esempio per tutti gli estremisti islamici; da non trascurare i legami con il mondo del terrorismo fondamentalista, che potrebbe trovare un terreno di coltura adatto alla sua espansione, per formare le nuove reclute. L’ipotesi è allarmante e riporta in gioco anche la permanenza di Assad come figura chiave a fungere da argine al fenomeno. Il lato siriano, infatti, dal quale si può arrivare facilmente a colpire Israele, non deve cadere preda dei combattenti islamici e soltanto Assad, in questo momento può garantire questa opzione. Malgrado tutte le controindicazioni del caso Damasco diventa indispensabile per Washington per evitare sconfinamenti verso Tel Aviv. L’unione dei territori dell’Iraq, pone fine anche all’unità di Bagdad, con i curdi sempre più autonomi e decisi a staccarsi e la parte scita ormai irrimediabilmente separata da quella sunnita. La politica di Bush nella regione emerge in tutto il suo fallimento, ma anche la decisione di Obama di abbandonare il paese ha non poche responsabilità nella piega che hanno preso gli eventi; inoltre la decisione del presidente statunitense di non intervenire in Siria, e nemmeno di fare la pressione sufficiente per una decisione dell’ONU, da la dimensione poco avveduta con la quale è stato trattato l’insieme delle problematiche, caratterizzato dall’assenza di una visione complessive degli elementi in gioco e dei possibili sviluppi, che hanno, poi investito un territorio più ampio. La prima emergenza da affrontare è la fuga di più di mezzo milione di persone dalle zone finite sotto il controllo dei fondamentalisti. Adesso occorrerà vedere quali saranno le mosse di Mosca e Teheran alleate tradizionali di Assad, che potranno rinfacciare all’occidente dove ha condotto l’avversione per Damasco. Certamente la situazione è in divenire e nessuna ipotesi è da scartare, ma sicuramente nessun rappresentante mondiale, eccetto probabilmente quelli dei paesi arabi del Golfo, può assistere passivamente a questi sviluppi. Una cosa che sarà da accertare è la responsabilità di chi ha permesso questa escalation con aiuti materiali e finanziari. Puntare il dito contro le monarchie arabe del Golfo Persico è perfino troppo facile: l’interesse prevalente, ad un certo punto , è stato quello di fare cadere Assad per togliere un alleato di Teheran e quindi di indebolire l’Iran; tuttavia neppure ai paesi del Golfo conviene che si formi una entità statale di questo tipo, vicina ai confini dei paesi arabi ed in grado di influenzarne la popolazione. La sensazione è che la situazione sia sfuggita di mano e che ormai sia troppo tardi per una retromarcia, che potrebbe esserci già stata. Vi è poi la delicata situazione dei diplomatici turchi rapiti, non stupirebbe che Erdogan facesse appello al trattato della NATO, considerando il rapimento come un attentato al paese turco e che quindi potrebbe coinvolgere direttamente l’Alleanza Atlantica. Un ultima considerazione: le primavere arabe e l’esportazione della democrazia, sancito come teorema a sostegno dell’invasione americana in Iraq hanno ottenuto i risultati opposti di quelli voluti; quello che si intende è che l’equilibrio mondiale era maggiormente garantito dai dittatori, che da popolazioni non mature non in grado di governarsi senza ricorrere alla religione come un sostituto del despota deposto. SI tratta di una riflessione amara ma che, salvo pochi casi, è sempre più sostenuta dallo sviluppo degli eventi.

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