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venerdì 28 ottobre 2016

Europa: la necessità di sanzionare l'Ungheria

Esiste una evidente asimmetria nel comportamento che l’Unione Europea ha tenuto con la Grecia, se confrontato con quello che sta tenendo con l’Ungheria. Atene era colpevole, nelle valutazioni di Bruxelles, di avere messo in pericolo l’economia europea, per bilanci truccati e dati finanziari disastrosi. Era colpe concrete ed accertate, ma si scelse di addebitarle al popolo greco e non ai reali responsabili, in un’ottica di punizione che doveva servire da esempio per altre possibili situazioni future. Si trattava della volontà tedesca tesa a mantenere i valori del deficit continentale entro limiti fissati in modo certo; poco importava, che, questi metodi, contribuissero alla generale sfiducia nelle istituzioni europee, dando l’occasione al populismo di diffondersi sempre di più e creare attriti pericolosi tra gli stati membri, in grado di influire sulla stabilità politica dell’intero sistema. Per punire la Grecia si è voluto correre tutti questi rischi, senza concedere minimamente ad Atene un poco di tolleranza, che potesse alleviare le sofferenze del popolo ellenico. Budapest, al contrario, si permette ben di peggio, ma, per ora, ed è già da molto tempo, viene tollerata in maniera da fornire l’occasione al governo magiaro di rafforzarsi sempre di più. L’Ungheria è diventata la capofila dei paesi dell’est europeo, quelli che gravitavano nell’orbita del patto di Varsavia, ad opporsi ai valori fondamentali sui quali è costituita l’Unione Europea. Orban, il premier conservatore, vincitore delle elezioni, dimostra di non gradire la critica ed il rispetto per le opposizioni: il suo rifiuto alla democrazia liberale è tanto evidente, quanto il suo gradimento verso democrazie attenuate, come la Russia e la Turchia, dove il ruolo dell’uomo forte è centrale, ma in aperto contrasto con i requisiti minimi di una democrazia compiuta. Così l’Europa trova al suo interno una sorta di regime, che si pone in aperto contrasto con gli obblighi assunti con l’ingresso nell’Unione, ma che continua ad assicurarsi i lauti contributi economici, decisivi per la crescita del paese. Occorre ricordare che tra i principali introiti ungheresi ci sono proprio i contributi derivanti dalle tasse versate dai cittadini tedeschi, francesi, italiani e degli altri stati europei, che consentono, oltre alla già citata crescita economia, anche di mantenere i conti statali in ordine. Gli insulti ai governi stranieri, tra cui quello italiano, sono gravi, ma sono meno importanti della grave situazione interna dei diritti politici e sociali, sempre più compressi, come sono meno gravi del rifiuto di accogliere i rifugiati, in nome di un conservatorismo illogico e irrazionale. Deve, però, essere specificato, che il governo dell’Ungheria ha potuto agire praticamente indisturbato, aldilà di qualche commento di prammatica. Bruxelles non ha mai intrapreso alcuna azione ufficiale di censura riguardo alla condotta del governo di Orban e, perfino il gruppo dei partiti popolari europei ha mai agito contro la formazione politica che guida il paese ungherese, mantenedola al suo interno. Orban denuncia quella che ritiene una eccessiva ingerenza europea negli affari interni del suo paese, paragonandola all’azione dell’URSS contro l’Ungheria degli anni 50 dello scorso secolo, quando la repressione sovietica soffocò nel sangue la rivolta di Budapest. Bruxelles deve fare una analisi seria dei suoi comportamenti e dei suoi obiettivi e chiedersi se stati come l’Ungheria di Orban debbano restare al suo interno, vanificando il processo di unificazione continentale e favorendo gli euroscettici ed i populisti, in definitiva portando verso la dissoluzione stessa l’Unione fino a qui costruita con mille difficoltà e contrasti. L’Unione Europea deve finalmente assumere un comportamento dove deve dimostrare di non subire più l’azione politica di paesi interessati ai soli contributi economici, ma che non condividono i suoi principi fondativi. Sembra essere arrivato in modo inevitabile il tempo di  adottare politiche punitive, comprendenti sanzioni economiche, agendo sulla decurtazione dei fondi  di coesione, fino ad arrivare anche a cancellarli , sulla riduzione del diritto e delle modalità di voto nei consigli europei ed anche comprendere l’espulsione dall’Unione per chi non ha i requisiti adatti per restarvi. Si deve, cioè, passare da una politica troppo inclusiva, che ha ammesso in modo quasi indiscriminato praticamente tutti gli stati che ne hanno fatto richiesta, salvo poche eccezioni, ad una politica maggiormente selettiva, sia sulle adesioni che sulle permanenze all’interno dell’Unione. Ragioni particolari devono essere accantonate, come quelle economiche di Berlino, che ha sempre manifestato apertura verso i paesi orientali per allargare il proprio mercato o come quelle dell’Alleanza Atlantica, che attraverso l’Europa, ha agito e continua ad agire in funzione anti russa, obiettivo che può essere condiviso, ma che non deve essere un requisito in grado di sorpassare altri e ben più importanti valori, da cui, è evidente, è sempre meno possibile dare la giusta importanza. L’Unione Europea può fare a meno di tutti quei paesi che non si vogliono adeguare ai suoi valori: così come potrà rinunciare al Regno Unito, ancora più facile sarà fare a mano dei paesi orientali. Ciò può costituire il punto di partenza per una rinascita europea, basata sui valori politici e sociali che mettono al centro i cittadini e quindi anche una riduzione dell’importanza dei troppo considerati standard economici e finanziari, passaggio essenziale per riconquistare la fiducia delle popolazioni e ridurre la pressione dei movimenti populisti.

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