Politica Internazionale

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lunedì 31 ottobre 2011

Libia: Gheddafi aveva la bomba atomica

Il presidente del CNT libico avrebbe affermato che le bombe atomiche libiche sarebbero state trovate e sarebbero già a disposizione dei tecnici dell'AEIA. Sulla questione dell'arsenale atomico di Gheddafi erano spesso comparse notizie mai confermate, ora si tocca con mano il rischio che hanno corso i paesi più vicini allo stato libico, che il colonnello avrebbe potuto fare oggetto di bersaglio. Il ritrovamento pone domande, per certi versi scontate. Le disponibilità economico finanziarie, sicuramente ingenti del regime di Tripoli non possono confermare il possesso di una tecnologia molto avanzata, che richiede personale con conoscenze molto approfondite. Per intenderci il livello raggiunto dall'Iran, che non avrebbe ancora consentito lo sviluppo dell'ordigno atomico, è molto più avanzato di quello libico; non sarebbe stato, cioè, un problema di approvigionamento del materiale necessario, ma di conoscenza della materia. La conseguenza logica è che qualche paese che poteva disporre di ordigni già pronti possa avere rifornito l'arsenale libico, giacchè non è verosimile pensare ad un aiuto che comprendesse il passaggio di know-how verso la Libia. Sulla fine rapida, una volta catturato, del dittatore si è detto di tutto, anche la comodità che faceva una morte del genere per coprire segreti scomodi per nazioni sia di tipo democratico che autoritario, sia occidentali che no. La presenza della bomba atomica in Libia genera anche riflessioni parallele sulla guerra in Iraq, dichiarata per la presunta disponibilità di un arsenale nucleare da parte di Saddam Hussein, fatto poi rivelatosi falso ed anche costruito ad arte, ma, che comunque non ha impedito una guerra che si trascina ancora ora. Se allora serviva un pretesto per cancellare il regime iraqeno, come è possibile che la stessa ragione non sia stata pubblicizzata nelle fasi iniziali della guerra libica, che sono state oggetto di un acceso dibattito all'ONU. Questo silenzio appare ora interessato, non era certamente giudicato positivo fare conoscere questo fatto all'opinione pubblica mondiale, ma se da un lato si possono comprendere le ragioni tese a smorzare l'impatto mediatico, dall'altro lato risulta sospetta l'azione di occultamento di una motivazione così forte. Soltanto l'analisi, se ci sarà, delle bombe, potrà dire da quale direzione Gheddafi ha potuto dotarsene e se la verità riuscirà a venire fuori si annuncia un botto, certamente innocuo, ma altrettanto fragoroso.

Il Kenya si muove contro Al-Shabaab

Il Kenya attacca i seguaci del movimento Shabaab in territorio somalo. Le corti islamiche protagoniste di diverse azioni contro il paese vicino non sono più un fenomeno sostenibile per l'equilibrio regionale e costituiscono un pericolo concreto anche per Francia ed USA. I due paesi occidentali affiancano l'esercito kenyano materialmente contro i terroristi islamici, in special modo gli USA, stanno utilizzando droni telecomandati contro le postazioni più difficili da raggiungere all'interno del territorio somalo. Gli USA hanno sposato la causa del Kenya perchè permette di condurre una ulteriore azione repressiva contro la parte somala di Al-Qaeda, andando così ad inserirsi nella strategia complessiva contro il movimento estremista islamico. Per la Francia il ragionamento è differente, l'impegno militare in prima persona è giustificato dalla protezione degli investimenti fatti nella zona ed obiettivo dei radicali. La tattica militare del governo Kenyano è essenzialmente quella di tagliare le vie di comunicazione con la città di Chisimaio, che mediante il suo porto, assicura le entrate necessarie ad AL-Shabaab per la sua sopravvivenza. La rete Al-Shabaab è anche sospettata di essere dietro ai pirati che si muovono nel Golfo Persico e costituiscono un grave pericolo per le navi mercantili dirette verso il canale di Suez. Un ulteriore problema per il Kenya è l'afflusso della più consistente quantità di profughi del mondo, verso i suoi campi di accoglienza, dovuta alla grave carestia alimentare presente in Somalia. Una delle cause di questa migrazione di proporzioni bibliche e che il Kenya non riesce più a gestire è l'atteggiamento di Al-Shabaab verso gli aiuti alimentari, che vengono osteggiati con la scusa della provenienza dall'occidente cristiano. Gli estremisti islamici usano questa arma, molto più subdola che gli attentati, facendo pagare alla popolazione somala la loro strategia complementare all'uso della forza armata, ma di gran lunga più efficace per fiaccare lo stato vicino. Dietro al problema resta l'assenza endemica dello stato somalo che non riesce a ridarsi una struttura capace di governare il proprio territorio. Tuttavia non si comprende l'atteggiamento occidentale e dell'ONU che non pare volere prendere in mano la situazione in maniera risolutiva, impegnando sul campo forze armate sia di terra che aeree, capaci di cancellare le milizie islamiche e permettere di ricreare finalmente uno stato somalo sovrano. Ancora una volta nascono spontanee le domande sui criteri che determinano l'impegno in alcuni stati piuttosto che in altri.

venerdì 28 ottobre 2011

La sfiducia: nuova sensazione per gli USA

Quello che si è materializzato nel panorama politico degli USA, ed è opportuno analizzare, è lo sviluppo dei due movimenti anti sistema che stanno caratterizzando la scena americana: Tea Party e gli occupanti di Wall Street. Questa volta gli Stati Uniti sembrano non fare tendenza ed arrivare dopo, infatti le analogie tra i movimenti localisitici e di destra europea, anche estrema, presenti ben prima sulla scena ed il Tea Party non sono poche. Entrambi rappresentano un disagio sociale basato sulla paura dello straniero, sul timore di vedere rotti definitivamente equilibri basati sulla piccola proprietà e sulla troppo invasiva azione statale che soffoca le tradizioni, gli usi locali e l'iniziativa economica proveniente dal basso, con leggi restrittive ed incremento delle tasse. Chi manifesta contro Wall Street contesta il sistema da sinistra e si caratterizza per un'azione non violenta che tende a fare risaltare la natura pacifica del movimento che ha forti analogie con gli indignados spagnoli, tuttavia la peculiarità americana, valida in entrambi i casi è la ricerca del rifugiarsi in movimenti collocati fuori dai partiti e ciò rappresenta una novità per il panorama statunitense. La mancanza di fiducia nei soggetti canonici della politica americana, rende l'idea del pessimismo e del malcontento diffuso verso le istituzioni, che non appaiono capaci di risolvere i problemi del cittadino medio. La crisi economica ha fiaccato il motore principale del sogno americano: l'entusiasmo e l'ottimismo. Gli USA sembrano accartocciati su stessi, ripiegati nella ricerca di un isolazionismo e di un protezionismo innaturale per il paese americano, ma comune sia alla destra che alla sinistra. Esiste anche un fattore nuovo e particolare che influisce ulteriormente su questo clima: la presa d'atto che gli Stati Uniti non sono più la potenza mondiale che poteva comandare il mondo. Se c'è stato un effetto inaspettato della globalizzazione è avere trasformato i piedi del gigante in argilla, in sostanza anche gli USA hanno subito un notevole indebolimento che ha intaccato la ricchezza interna ed il prestigio internazionale. Ciò ha confuso gli americani, che ora reagiscono in maniera anomala secondo i propri soliti standard. Ma ciò è anche il segno che gli USA sono diventati una nazione normale, con quali effetti sul piano internazionale, sia economico che politico, è difficile da prevedere.

La Cina scende in campo per il finanziamento della zona Euro

La Cina sta valutando sulla possibilità di intervenire, con investimenti sostanziosi, direttamente entro i confini del debito dell'Eurozona. Per Pechino è vitale che i paesi dell'area euro non entrino in una crisi letale per le loro economie, che sono i migliori clienti delle merci cinesi. Non si tratta, infatti, come è logico di una operazione di beneficenza, la Cina ha necessità di non vedere ridursi la propria crescita oltre un livello determinato, per continuare a finanziare il proprio sviluppo. Presente la contrazione interna, Pechino deve fare tutto il possibile per sostenere la domanda all'estero dei propri prodotti ed inoltre deve diversificare l'investimento della propria grande liquidità disponibile. Infatti gli ingenti investimenti effettuati negli USA e che sono in sofferenza per le difficoltà dell'economia americana, necessitano di alternative, da cui ricavare anche guadagni di tipo politico, come, peraltro avvenuto negli Stati Uniti. Un primo salvagente per la zona euro potrebbe essere emesso nella misura di cento miliardi di dollari, che andebbero comunque ad aggiungersi ai più di 500 miliardi di dollari già investiti dal dragone cinese nel debito dei paesi europei. La destinazione della liquidità cinese potrebbe andare alimentare il già presente fondo salva stati oppure, in alternativa, il nuovo fondo che verrà creato. La Cina ha lasciato anche aperta la porta ad ulteriori investimenti nel caso si verificassero delle condizioni capaci di favorire la cooperazione bilaterale su benfici reciproci. Dietro queste parole si nasconde, neanche troppo velatamente, l'intenzione della Cina di assumere piena dignità come stato industriale, senza risolvere gli annosi problemi legati ai diritti sindacali e politici dei lavoratori e dei cittadini cinesi, per diventare una vera e propria economia di mercato. Pechino tenta di sfruttare il momento di debolezza dell'economia europea per non adeguarsi ai criteri della concorrenza, mantenendo il basso costo del lavoro e vendendo merci prodotte in assoluta assenza di garanzie per i lavoratori, permettendo così un prezzo di mercato più basso. Un'altra questione a cuore del governo cinese è l'abbattimento dei dazi, che secondo Pechino costituiscono una barriera alla concorrenzialità delle merci cinesi. In effetti è proprio questa la ragione di essere di tali dazi, compensare, almeno in parte le condizioni che favoriscono i prezzi bassi cinesi. Nonostante le difficoltà finanziarie presenti, l'Europa deve diffidare dalle offerte cinesi, che, se accolte, aprirebbero le porte senza limitazione alcuna, allo strapotere di Pechino in campo economico, rischiando di ridurre al rango di colonia, in un futuro neanche troppo lontano, il vecchio continente.

giovedì 27 ottobre 2011

Un conservatore come erede al trono saudita

La morte del principe ereditario saudita mette in pole position il potente ministro degli interni Nayef nella posizione di nuovo successore al trono. Nato nel 1933, ha ricoperto già in diverse occasioni la guida del paese quando il re saudita ha subito i recenti interventi chirurgici negli Stati Uniti. Il nuovo delfino è uomo di stato di orientamento conservatore che ha legami profondi con la setta wahhabita, che ha una visione molto rigida della parte sunnita dell'islam. L'attuale momento dell'Arabia Saudita, non pare tuttavia, uno dei migliori per l'ascesa di Nayef, con il paese impegnato in profondi contrasti interni sia dal lato delle richieste democratiche, che dal lato dei problemi con la minoranza scita, che richiede maggiore autonomia e migliori condizioni di trattamento, sia sul fronte dei diritti politici, che del lavoro. L'avvento di un conservatore rischia di irrigidire il dialogo e rallentare le timide riforme recentemente concesse, sia nei maggiori investimenti in favore di una sorta di welfare nascente, che nelle timide aperture politiche concretizzatesi con la possibilità dell'esercizio di voto nelle consultazioni a livello comunale. Nayef è un sostenitore della polizia religiosa, il Mutawa, fortemente criticato dai sauditi per i metodi spesso brutali con cui impone i propri criteri di moralità. Questa rigidità fa temere molti analisti che venga intrapresa una via ancora più repressiva, specialmente nei confronti delle minoranze in un momento in cui sarebbe necessaria una maggiore flessibilità per favorire un approccio più morbido ai problemi. Sul fronte della politica estera, proprio l'aspetto fortemente religioso lo pone come un nemico dell'Iran maggiore rappresentante della parte scita dell'Islam, continuando così nel solco tradizionale dei governanti sauditi e non ci dovrebbero essere variazioni neppure sull'alleanza con gli Stati Uniti, dove l'Arabia continuerà ad essere uno dei maggiori alleati strategici sia a livello regionale che globale, dal punto di vista militare che energetico. Tuttavia data l'età avanzata, i maggiori esperti di cose arabe, ritengono che l'erede al trono sarà un sovrano di transizione in attesa di nuova linfa che vada a ringiovanire il vertice del paese.

mercoledì 26 ottobre 2011

Il Qatar sostituirà la NATO in Libia

La NATO afferma di avere esaurito i propri compiti in Libia. Il capo di stato maggiore britannico, David Richards, in una riunione tra i comandanti dei paesi NATO, che hanno partecipato alla missione libica ed il CNT, ha dichiarato che i compiti dell'alleanza erano essenzialmente tre: fare rispettare la no fly zone, l'embargo e la protezione dei civili, come deciso dall'ONU; terminati questi incarichi non vi è più ragione di restare sul territorio libico. L'organizzazione atlantica cerca di sganciarsi facendo passare il fatto di avere adempiuto ai propri compiti in un'ottica puramente legalitaria, tuttavia, senza entrare nel merito della strategia politica dell'abbattimento del regime di Gheddafi, occorre rilevare che, per almeno il terzo punto, l'incarico NATO non è stato del tutto assolto. Infatti l'accanimento di alcune parti dei ribelli contro civili ritenuti, a torto o a ragione, fedeli al colonnello è stato troppo tollerato dalle forze dei volenterosi, che hanno lasciato dare libero sfogo a ritorsioni e vendette. Questo tralasciando il trattamento inumano riservato ai combattenti lealisti ed ignorato dalla NATO, che ha tentato di ripulirsi la coscienza proclamando a gran voce aperture di inchieste sul tema. Se la NATO lascerà il paese, la Libia non sarà lasciata sola a ricostruire le proprie forze armate e di polizia. Sarà infatti, probabilmente il Qatar a capo di una nuova forza multinazionale che sosterà nel paese oltre la fine dell'anno ed almeno fino a quando le condizioni del paese non saranno tali da garantire un adeguato livello di sicurezza interna. Le forze armate del Qatar avrebbero già operato con effettivi di terra nella guerra libica a fianco delle forze del CNT, tuttavia questa partecipazione non è mai stata riconosciuta dal governo del Qatar, che ha sempre smentito in modo ufficiale l'impiego di propri soldati direttamente sul campo di battaglia. L'appoggio al CNT necessitava di forze di terra direttamente sul terreno a completare il lavoro della forza aerea, ma il grosso degli uomini impiegati non poteva non provenire da un paese musulmano, per non urtare la suscettibilità della popolazione e sopratutto non generare dubbi circa possibili intenzioni "colonialistiche" di eventuali paesi occidentali presenti con propri uomini sul terreno. Non che questi siano mancati, ma sono stati, presumibilmente, impiegati soltanto in alcune operazioni mirate. D'altra parte il governo del Qatar non poteva ammettere lo schieramento di propri soldati in aperta violazione della risoluzione ONU, che ha consentito l'intervento aereo.

L'anomalia italiana

Le espressioni a volte di sorpresa, a volte di incredulità, spesso di commiserazione, che contraddistinguono i politici europei quando parlano dell'Italia, sono dovuti alla più grossa anomalia presente in un sistema politico democratico occidentale nella storia recente. Non si vuole qui dare un giudizio di opportunità o peggio morale sulla condotta del premier italiano, ma analizzare le cause che discendono dalla sua presenza e che vanno a determinare il blocco politico attualmente presente nel bel paese. Fin dalla sua entrata in politica, Silvio Berlusconi ha rappresentato una fonte di profonda divisione, sia tra le forze politiche che nella società italiana. Il confronto politico si è radicalizzato in maniera insana, esaltando la pura partigianeria e scavando un solco diventato ormai incolmabile tra le forze partitiche, che da avversari sono diventati esclusivamente nemici. Quello che si è instaurato è un clima dove alcuna collaborazione tra forze avverse è totalmente impossibile, anche in situazioni particolarmente difficili, dove l'unità nazionale dovrebbe essere un attributo indispensabile, l'unico dialogo possibile è una continua sequela di insulti fine a se stessi. Nonostante il paese italiano avesse attraversato la delicata fase del dualismo tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, avversari storici su fronti opposti, il rapporto tra questi due soggetti, pur nell'aspra dialettica politica, non è mai trasceso ad episodi di così basso livello come quelli attuali. Uno dei fattori dello scadimento del livello della politica italiana è stata la sua spettacolarizzazione che ne ha determinato la volgarizzazione. Le istituzioni si sono trasformate da un luogo paludato di forma alta, ben definita e rispettata ad un bivacco frequentato da personaggi improvvisati e non all'altezza. L'affermazione del partito azienda ha inserito nelle istituzioni personaggi senza l'adeguata preparazione ne la necessaria autonomia ed i partiti storici si sono adeguati verso il basso anche con fantasiose forme, come il partito leggero, che hanno distrutto anni di storia e tradizione associativa. Siamo così arrivati alla presa d'atto pubblica, in realtà già percepita da tempo, dai governanti europei. L'indegno siparietto della Merkel con Sarkozy, pur con tutte le giustificazioni che gli si voglioni accordare, rappresenta bene lo stato d'animo che alberga nelle cancellerie continentali. Quello che ferma l'Italia è il blocco politico a cui è costretta, la presenza ingombrante di Berlusconi riduce le formazioni politiche ad un comportamento astioso che non permette alcun costrutto. L'unica soluzione praticabile è quella di un governo senza l'attuale premier, come raccomandato da più parti in Europa, che permetta di affrontare una fase interna con maggiore pacificazione e consenta al paese di affrontare in piena concordia l'emergenza a cui è di fronte.