Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

mercoledì 18 gennaio 2012

Il peggioramento della crisi nella zona Euro

La crisi finanziaria europea sembra non avere fine ed i suoi peggioramenti si susseguono senza sosta. E' questo, sostanzialmente, l'allarme lanciato dal governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, che ha sollecitato i governi a nuove riforme strutturali a favore della competitività. Ma il segnale pare essere una ulteriore mannaia in paesi già duramente provati dalle misure severe approntate dai propri governi. Il costo della crisi sta ricadendo sulle fasce più deboli della popolazione della zona euro, che vedono ridotto drasticamente il proprio potere d'acquisto, in una dimensione di diseguaglianza sempre crescente e che va ad innescare una spirale pericolosa sul fronte dei consumi e quindi della produzione. Quella intrapresa sembra una strada improntata su di un rigore eccessivo, destinato a soffocare la crescita, sulla quale è puntato esclusivamente il sistema economico degli stati. Aldilà del taglio al benessere della popolazione, continuando su questa via verranno a mancare le entrate messe a bilancio delle imposte indirette, per manifesta mancanza di liquidità da parte delle famiglie e delle imprese. Il premier italiano Mario Monti, partendo con una politica di rigore eccessivo, per dare un chiaro segnale alle istituzioni UE, ma sopratutto alla Germania, sperava poi che queste misure fornissero il passaporto per avere aiuti per sostenere la crescita italiana, ma così non è stato: la cancelliera Merkel, pur lodando i provvedimenti del governo tecnico italiano, ha più volte affermato che l'Italia può farcela da sola, metodo elegante per smarcarsi dal fornire aiuti a Roma, come aveva fatto con Atene. E' pur vero che il confronto tra le dimensioni dell'economia italiana con quella greca non è neppure da fare, troppo più grande quella della penisola, che è pur sempre la terza economia della zona euro, ma proprio per questo non risulta comprensibile non intervenire a favore di un mercato che per Berlino rappresenta uno sbocco importante. La verità è che i governi della Germania e della Francia, sono sottoposti a pressioni interne difficilmente gestibili, sopratutto per Parigi, che a cento giorni dalle elezioni si è vista arrivare la declassazione delle agenzie di rating. Uno dei problemi europei finanziari più immediati, legati agli umori dei mercati, è proprio il rapporto dell'Europa con queste agenzie, che rappresentano una fonte di dissesto fondamentale e mantengono inalterata la propria credibilità nonostante abbiano compiuto nel tempo errori grossolani. Il sospetto che siano pilotate in favore di un'altra economia in crisi: gli USA, sembra più che legittimo. Nonostante tutte le rassicurazioni fornite da Washington, l'imminente campagna per le presidenziali americane, offre il prestesto, sia a democratici che repubblicani per aggiustare il tiro contro l'euro, maggiore avversario del dollaro. Gli americani sono piuttosto sensibili all'argomento della supremazia della bandiera a stelle e strisce ed il ritorno sul vecchio continente alle divise nazionali potrebbe favorire l'economia USA, sia come collettore di risorse sia permetterebbe agli Stati Uniti di combattere l'espansionismo economico cinese che si concretizza sempre di più in Europa, grazie alla disponibilita di liquidi enorme. Il rischio di un imminente ulteriore declassamento italiano e del default greco mettono l'Euro in una posizione pericolosa, di fronte alla quale le strategie di una UE, che non riesce a compattarsi a dovere, non paiono sortire effetti di rilievo. Ancora una volta la politica è però la grande assente: con l'agilità di un elefante, le istituzioni UE, non riescono a proporre ed imporre soluzioni che abbiano natura di urgenza e diano quella credibilità politica che costituisce la principale difesa contro l'instabilità dei mercati. La necessità che l'Europa si doti di sistemi e misure dotate di automatismi atti a fronteggiare in tempi rapidi le sollecitazioni dei mercati è uno dei cardini su cui punta Draghi: la valutazione del debito che consideri l'impatto dei giudizi delle agenzie di rating è ormai una esigenza improcrastinabile, ed anzi risulta molto strano come non vi sia ancora messo rimedio. Un'altra necessità a cui dare corso con velocità è aumentare il fondo salva stati, ma non solo, occorre che il fondo sia messo al riparo da giudizi negativi con dispositivi salvagente, che lo tutelino in maniera completa da eventuali speculazioni dei mercati, dato che è destinato ad essere il maggiore strumento di salvaguardia della situazione finanziaria degli stati aderenti. Quello che purtroppo emerge è una costruzione dell'euro basata su fondamenta leggere, che non solo non hanno previsto l'evoluzione storica della finanza mondiale, ma che, ancora peggio, non si sono adeguate mentre i cambiamenti erano e sono in corso. Oltre cioè alla debolezza normativa si assiste ad una imperizia preoccupante di chi è stato e sta nelle posizioni di comando, perchè appare legato a logiche localistiche e privo del tutto di una visione di insieme e sopratutto a lungo termine.

martedì 17 gennaio 2012

Il ruolo della Cina nella questione del petrolio iraniano

La questione dell'embargo all'Iran costituisce l'ennesimo scoglio sul cammino della ripresa mondiale. Anche senza arrivare al blocco totale delle esportazioni del greggio di Teheran, il solo averne ventilato la possibilità ha provocato un immediato rialzo dei prezzi al barile, che va ad aggravare uno stato generale dell'economia del pianeta non certo in buona salute. Anche ragionando sul medio periodo, se non si riuscirà a fare fronte al fabbisogno stimato di materie prime legate all'energia, anche il gas, non solo il petrolio, si potrebbe dovere rivedere i programmi stilati per una possibile ripresa, che appare, comunque, ancora problematica. Per tutte queste ragioni il primo ministro cinese Wen Jiabao, quindi il capo del motore economico più grande del pianeta, ha ritenuto doveroso richiedere la collaborazione degli Emirati Arabi, per ottenere rassicurazioni sulla volontà di aumentare la produzione giornaliera di barili di greggio per compensare l'eventuale diminuzione di esportazione iraniana. La mossa della Cina, che non aderisce alle sanzioni di Washington ed anzi le ha condannate, mira a tutelare la propria economia da problemi di approvigionamento, che potrebbero derivare dal più volte minacciato blocco dello stretto di Hormuz, Pechino, infatti, importa circa il 15% del proprio intero fabbisogno petrolifero dall'Iran. Sul piano dei rapporti internazionali, la manovra del Presidente cinese non sarà indolore in seno all'OPEC. Dati i rapporti già tesi tra i due dei soci più pesanti: Arabia Saudita ed Iran, la mossa cinese è destinata ad acuirne i motivi di scontro, che, va sottolineato, vanno aldilà dei meri dati sui quantitativi della produzione. Va anche detto che Pechino sta dando prova di una abilità diplomatica notevole, che ne dimostra la capacità di restare in equilibrio, mantenendosi sostanzialmente equidistante tra le parti e nello stesso tempo riuscendo a salvaguardare i propri interessi. Certo gli strumenti in mano a Pechino sono consistenti: da un lato la potenza economica che ne fa un cliente per i produttori di greggio altamente solvibile grazie alla grande liquidità disponibile e capace quindi di assorbire grossi quantitativi di produzione e dal lato diplomatico il possesso di un seggio permanente nel Consiglio delle Nazioni Unite, permette spazi di manovra decisamente superiori ad altre nazioni grazie al potere di veto. Pechino ha più volte affermato di lavorare per la pace della regione, ciò rappresenta un proprio interesse preminente, giacchè permette di controllare l'andamento dei prezzi dei prodotti petroliferi, intimamente legati alla capacità produttiva cinese. Frattanto l'iniziativa cinese ha provocato le reazioni iraniane, che vedono, con la manovra del premier di Pechino, il vanificarsi dei propri piani che vertono proprio sulla leva del greggio per spaventare le economie, non solo occidentali. Ma le dichiarazioni del ministro del petrolio saudita Ali al-Naimi hanno cercato di smorzare le polemiche, specificando che l'aumento della produzione dei paesi arabi è dettato essenzialmente dall'aumento della domanda, omettendo però le ragioni che stanno causando questa domanda. Il ruolo della Cina, trascinata dentro la questione del nucleare iraniano per ragioni commerciali, rischia, alla fine, di essere il principale alleato degli USA, anche se in maniera indiretta; resta da vedere quale strategia ora sarà capace di elaborare Teheran per combattere le sanzioni, che hanno prodotto per la Repubblica Islamica una perdita di clienti e quindi di valuta sostanziosa. Il tour diplomatico del presidente iraniano nei paesi latino americani può coprire una parte dell'ammanco venutosi a creare, ma non può coprire in uguale maniera il senso di accerchiamento che si è venuto a creare, anche grazie all'inasprimento dei rapporti con gli stati sunniti della penisola arabica. Se l'Iran si sentirà ancora più sotto scacco la speranza è che non ricorra a soluzioni estreme, come quelle più volte minacciate, per riuscire a trovare una via di uscita.

lunedì 16 gennaio 2012

Il Qatar favorevole all'intervento in Siria

Nonostante le rassicurazioni del Presidente siriano Assad, che ha più volte promesso la democratizzazione della vita politica del paese con riforme, in verità, mai partite ed amnistie per i ribelli al regime vigente, la repressione nel paese continua attraverso spargimento di sangue, grazie ad azioni militari in grande stile. Oscurata dalla cronaca, sopratutto per i temi economici, la vicenda siriana è lontana da una risoluzione in un senso o nell'altro, con il regime, che malgrado lo schieramento di forza messo in campo, non riesce ad avere ragione della protesta, che anzichè placarsi sembra aumentare di intensità con il passare del tempo. La situazione preoccupa la Lega Araba, alla ricerca di un ruolo di primario livello nel panorama internazionale. La necessità dell'affermazione di un organismo sovranazionale nei paesi arabi passa, oltre che dai tavoli delle conferenze, anche dal concreto intervento nelle aree di crisi. La situazione siriana agli occhi del mondo rappresenta un caso che può dare la necessaria visibilità ad una ipotetica azione diretta, anche con un intervento armato da parte di un soggetto interessato a conquistare posizioni di preminenza nel teatro internazionale. Principale fautore di questo interventismo è l'emiro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Khalifa al Thanin, che spinge per uno schieramento di truppe sul territorio siriano, giustificandolo con ragioni umanitarie. In effetti la situazione del paese di Damasco sta diventando giorno dopo giorno sempre più critica, con masse di persone che spingono ai confini, sopratutto quelli turchi per sfuggire alla repressione della dittatura. Il problema dei profughi è direttamente connesso con quello dell'esercizio della violenza e la situazione nei campi allestiti nei territori immediatamente contigui ai confini siriani è sempre più critica. Il Qatar non è nuovo ad iniziative basate sull'impiego di uomini e mezzi per la risoluzione di crisi internazionali, infatti, già per la guerra libica si è distinto per avere assunto il comando delle operazioni alla conclusione della missione della coalizione occidentale dei volenterosi. Ma oltre le ragioni umanitarie vi è una concreta apprensione dei paesi vicini alla Siria, che temono una deriva del paese, che ricopre con il suo territorio una valenza strategica altissima, oltre al timore di una influenza ancora maggiore di quella attuale da parte iraniana. Non è difficile leggere infatti dietro l'interventismo della Lega Araba l'azione di retroguardia dell'Arabia Saudita e quindi, seppure indirettamente degli Stati Uniti, per una normalizzazione del paese siriano in senso anti iraniano. Il vero obiettivo è disinnescare la bomba siriana ed ottenere un governo almeno neutrale, che non permetta a Teheran di usare gli altopiani di Damasco come base di lancio dei propri missili per minacciare Israele ancora da più vicino. Perchè in ultima analisi è proprio questa la ragione del possibile intervento, togliere all'Iran il terreno sotto i piedi per potere esercitare il suo ricatto e nel contempo togliere ad Israele i prestesti per un attacco preventivo contro la Repubblica Islamica, che potrebbe portare una regione piuttosto estesa in un clima di guerra.

venerdì 13 gennaio 2012

I problemi connessi all'embargo sul petrolio iraniano

Gli sviluppi della questione delle sanzioni sul petrolio iraniano stanno per aprire nuovi scenari diplomatici. Incassato l'appoggio di Europa e Giappone sulla riduzione dei quantitativi di acquisto di greggio iraniano, gli USA devono ora affrontare il problema Cina ed India. I due colossi economici necessitano per le loro economie del petrolio di Teheran e non intendono rinuciarvi, ma diverso è il loro atteggiamento di fronte a Washington. Per la Cina, sempre più intenzionata a recitare un ruolo di primario livello sul panorama internazionale, l'embargo contro l'Iran non è giustificabile perchè portato avanti, non in sede ONU, dove comunque farebbe mancare il suo appoggio in sede di Consiglio sdi sicurezza, ma in maniera autonoma dagl Stati Uniti, che si arrogano il diritto di controllare l'espansione nucleare iraniana. E' chiaro che una potenza nucleare ai confini dell'impero cinese non conviene neanche a Pechino, ma in questo momento prevale la ragione economica: infatti con il paese iraniano sottoposto a sanzioni, gli acquirenti possono spuntare considerevoli sconti sugli acquisti di greggio e questa motivazione va a giustificare il contrasto con gli USA, mascherato da ragioni diplomatiche e di equlibrio internazionale. L'atteggiamento indiano è diverso, più prudente, come tradizionale alleato americano l'India non vuole urtare la suscettibilità americana e cerca quindi di aggirare il problema trovando metodi alternativi di pagamento, che non possano violare le sanzioni. Si tratta di equilibrismi diplomatico finanziari, ma che possono contare sull'impossibilità da parte di Washington di rompere con l'India, alleato chiave nella questione pachistana. Sul lato della produzione mondiale di greggio gli USA hanno ottenuto rassicurazioni dall'Arabia Saudita, sull'incremento della produzione per compensare le quantità soggette ad embargo ed evitare così catastrofiche ricadute sui prezzi del petrolio, ma si capisce che se l'Iran abbassasse i prezzi in maniera considerevole ci sarebbe la corsa al mercato nero del petrolio di Teheran, vanificando così le sanzioni pensate da Washington.
Nel contempo la lotta sotterranea contro il nucleare iraniano si alza di livello a causa dell'ultimo attentato in cui è rimasto vittima uno scienziato nucleare della Repubblica islamica. I contendenti, essenzialmente tre: Iran, USA ed Israele stanno facendo un gioco sempre più pericoloso, che rischia di portare a situazioni di non ritorno e la sempre presente minaccia del blocco navale dello stretto di Hormuz mantiene alta la temperatura. D'altro canto l'aumento della tensione significa che i servizi segreti israeliani ed americani ritengono che i progressi iraniani sul nucleare siano stati consistenti ed anche l'intensificazione dell'azione diplomatica rende l'idea della preoccupazione che si respira. Difficile fare previsioni a lungo termine, il difficile equilibrio rischia di rompersi ormai per un nulla e questo significa doversi prepare a scenari molto difficili.

martedì 10 gennaio 2012

La UE decisa ad introdurre la Tobin tax

Il piano della Commissione Europea è ormai chiaro e consiste nella volontà di introdurre la Tobin Tax, anche oltre i paesi dell'Eurozona, cioè in 27 stati, escludendo la Gran Bretagna, che si è già opposta ferocemente al provvedimento, vedendo i propri privilegi intaccati. Lo scopo finale è quello di convertire il gettito della nuova imposta in un fondo direttamente destinato al bilancio dell'Unione Europea, per ridurre la contribuzione degli stati membri. Nella volontà di creare la nuova imposta andando ad applicare la tassa sulle transazioni finanziarie, la Commissione Europea, va ad introdurre almeno due novità: la prima è la tassazione del settore bancario, che in Europa non ne è praticamente soggetto, la seconda, forse politicamente ancora più rilevante, è l'introduzione di una autonomia finanziaria, seppure parziale, dell'Unione Europea. Il primo aspetto è la presa d'atto della necessità di iniziare ad imporre una tassazione ad un settore che spesso con le proprie manovre avventate, se non con vere e proprie speculazioni, ha creato problemi agli stati, certo la natura dell'imposizione fiscale non vuole essere punitiva, tuttavia questa introduzione può essere considerata come un primo segnale contro le transazioni troppo spinte. A ciò si deve aggiungere un sentimento di equità verso la totalità del sistema, chiamando chi muove materialmente il denaro a contribuire al funzionamento del sistema Europa. Questo aspetto si lega quasi ad incastro con la seconda novità che verrà introdotta dal provvedimento: l'autonomia di bilancio delle istituzioni comunitarie. La particolare rilevanza della volontà di distaccarsi dalla contribuzione dei singoli stati, nasce dall'esigenza di essere meno soggetta all'influenza dei paesi membri in una chiara ottica di ricercare l'autonomia necessaria per conquistare quella indipendenza sufficiente ad imporsi come istituzione guida dell'insieme dei paesi aderenti. Vista sotto questa ottica la portata del provvedimento si può considerare come un investimento sul futuro del ruolo che la UE vorrà assumersi come guida reale dell'Europa e nel contempo, in linea con le intenzioni di Germania, Francia ed ora anche Italia, rafforzarne le posizioni e la forza, anche politica, per avere maggiore peso nel ruolo di indirizzo. Si tratta di una vera e propria presa d'atto della necessità, di configurare maggiormente il ruolo centrale delle istituzioni europee in vista di una maggiore unione in senso sia politico che economico in grado di contrastare le tempeste che fino ad ora sono state affrontate per lo più divise dagli stati europei. Esiste però il problema inglese, la rigidità del rifiuto ad applicare la Tobin tax, da parte di Cameron, potrebbe generare una spaccatura nella UE, se le ragioni della Gran Bretagna dovessero trovare dei seguaci: si aprono così possibili scenari che vanno dall'Europa a più velocità fino alla spaccatura vera e propria con la necessità di ridisegnare i confini dell'Unione. Se la prima opzione non è praticabile perchè implica una dose di patteggiamenti in grado di paralizzare la vita comunitaria in estenuanti trattative, che la situazione attuale non può consentire perchè necessita di tempi di azione rapidi, la seconda eventualità è quella più temuta perchè implica un fallimento della politica di inclusione in ragione del fatto che una UE più grande è anche più forte. Nel mezzo ci sta soltanto la volontà, se esiste, di mediare, tenendo però conto, che il tempo stringe e che ogni decisione rinviata è un aggravio delle situazioni dei singoli stati e quindi della totalità dell'Unione.

lunedì 9 gennaio 2012

Nessuno fuori dall'eurozona?

Di fronte al pericolo di una concreta rottura dell'eurozona, i leader europei si prodigano in dichiarazioni rassicuranti che possano favorire la ripresa dei mercati; ma il problema che affiora è politico: ormai le nazioni europee, anche le più forti, si sono rese conto della necessità di fare quadrato, pena la fine dell'Unione Europea e di ogni prospettiva politica del soggetto continentale. Quando Angela Merkel, socio di maggioranza della UE, dice che nessuno deve uscire dall'eurozona, significa che anche la Germania, pur con i necessari paletti che intende mettere, si è rassegnata a mediare sul vero problema che assedia l'Euro: quello dei debiti sovrani e la necessità di garantire, contemporaneamente anche la crescita economica. La sterzata data dal nuovo premier italiano Monti, in accordo con Sarkozy, in questa direzione ha dato i suoi frutti, permettendo alla Francia di trovare una sponda affidabile per contenere lo strapotere tedesco. In questa ottica anche il fatto che non verrà abbandonata a se stessa neppure la Grecia, come ribadito dalla premier tedesca, significa che nonostante i sacrifici a cui sarà sottoposta Atene, l'ipotesi della sua espulsione dalla moneta unica europea non sarà attuata. Queste considerazioni non attenuano però la necessità di una veloce attuazione dei meccanismi anticrisi, che, se nella prima fase dovranno essere per forza di natura economico finanziaria, dovranno, poi, essere sostenuti da provvedimenti forti di natura politica, dando maggiore forza alle strutture politiche centrali dell'Unione Europea. Se la direzione sarà questa, diventerà inevitabile la rinuncia ad alcune prerogative dei singoli stati, a quel punto potrebbe verficarsi quella selezione che non è riuscita alle crisi economiche: sarà difficile vedere, infatti, stati governati da formazioni nazionaliste e peggio localistiche, si pensi all'Ungheria, privarsi degli spazi di manovra che la legge nazionale consente. A quel punto le nazioni più forti dovranno sapere imporre le istituzioni centrali, pena mettere fuori i recalcitranti, anche se come capitale hanno città che si chiamano Londra. Solo così, attraverso una politica dichiaratamente forte anche gli speculatori dovranno cambiare bersaglio.

domenica 8 gennaio 2012

La pochezza degli argomenti dei candidati repubblicani specchio della società USA

Mentre la sfida elettorale che dovrà designare lo sfidante di Obama si sta intensificando, si assiste ad una ben triste sfilata di propositi, sempre più esasperati, per raccogliere il consenso dell'elettorato repubblicano. Siamo in una fase prevalentemente rivolta a quell'elettorato non certo moderato, che sicuramente non farà mancare il suo appoggio al partito che sfida il presidente in carica. Ma per chi analizza la politica non è una perdita di tempo: l'estremismo e la violenza dei propositi di chi si sfida per comptere con Obama, non può che risultare preoccupante, sia all'uomo della strada che ai governanti degli altri paesi, forzatamente alla finestra in attesa degli eventi. Cercare di convincere potenziali elettori ancora sparlando dei gay, assicurando il bombardamento dell'Iran e promettendo di non pagare i debiti degli europei segnala un livello talmente basso della politica americana che non può non essere sottolineato. Infatti per Obama, nonostante le tante promesse non mantenute ed i tanti errori compiuti nel cammino della sua presidenza, non dovrebbe poi essere tanto difficile ottenere la rielezione. Tuttavia non si può che fermarsi a riflettere sulle conseguenze se questo non dovesse succedere; cosa cioè aspetterebbe al mondo intero se uno di questi pazzi impreparati dovesse diventare il presidente degli Stati Uniti. E' pur vero che il dire ed il fare vi è un abisso, nemmeno il presidente USA, alla fine può decidere singolarmente il bombardamento di Teheran, ma quello che viene detto in campagna elettorale è il chiaro sintomo di una mancata crescita della nazione statunitense, che aldilà delle eccellenze dei grnadi centri, è ancora formata da un ceto sociale arretrato, anzi ancora più arretrato grazie alla globalizzazione che ne ha, di fatto, provocato l'isolamento; un isolamento in cui si è chiusa come in un rifugio stagno ed impermabile alle nuove necessità e tensioni sociali. Del resto anche quella che doveva essere l'illuminata amministrazione Obama ha represso, anche con brutale violenza, i moti di chi chiedeva maggiore equità contro lo strapotere finanziario. Ma questi rivoltosi, un vero e proprio pericolo per la coscienza americana, erano e sono comunque una minoranza informata che non può bastare a bilanciare le grandi masse arretrate, pilotate facilmente da televisione e predicatori, che riescono ad indirizzarle nel solco del più bieco americanismo, fatto di dimostrazione di muscoli e mancanza di rispetto per le minoranze. Per il mondo l'esistenza di questa arretratezza fatta di ignoranza e povertà all'interno della nazione più potente del pianeta è un pericolo sempre maggiore, perchè vi sono sempre meno argini per contenerla. Ed è forse questo l'errore più grosso di Obama fatto nella sua presidenza, non avere fatto poi molto per intaccare questo stato di cose: se il presidente in carica allungherà il suo mandato sarà il caso di ripensare tutto il rapporto con quella che viene comunemente definita l'America profonda.