Politica Internazionale

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venerdì 6 luglio 2012

Presidenziali USA: Romney gioca la carta della politica estera

I temi della politica estera irrompono sulla scena della campagna elettorale americana. Mitt Romney, che ha finora preferito discutere quasi esclusivamente di questioni economiche, deve essere stato sollecitato dai suoi collaboratori ad affrontare quello che per lo sfidante repubblicano è un terreno difficile. Infatti sulla carta, su questo argomento, Obama pare troppo in vantaggio perchè può mettere sul piatto della bilancia l'eliminazione di Bin Laden, il ritiro dall'Iraq e quello prossimo dall'Afghanistan, l'atteggiamento equilibrato tenuto nei confronti dell'Iran, sottoposto a sanzioni dure, ma senza mai travalicare verso posizioni irresponsabili. Dove può sfondare, invece, Romney è sul rapporto con Israele, deterioratosi con la presidenza Obama a causa degli eccessi del presidente israeliano Benjamin Netanyahu, che ha praticato una politica espansionistica nei territori palestinesi in aperta violazione dei trattati e del buon senso. In realtà il rapporto tra USA ed Israele, visto nell'ottica democratica è stato gestito bene da Obama, che finora è riuscito ad impedire le tanto minacciate azioni preventive di Tel Aviv verso Teheran. Ma questo è proprio il punto che intende sfruttare Romney per conquistare la potente lobby ebraica americana. Aldilà delle incomprensibili dichiarazioni, che hanno rivelato un certo dilettantismo ed una scarsa conoscenza del panorama diplomatico, relative a possibili bombardamenti sull'Iran in caso di una sua elezione, Romney intende visitare Israele per fare sentire la sua vicinanza, più che al popolo al governo israeliano. E' però anche un'operazione di facciata in omaggio all'elettorato più conservatore, che interpreta l'atteggiamento di Obama verso l'Iran come una debolezza anzichè apprezzare lo sforzo di cercare di evitare potenziali conflitti. Questo aspetto è collegato al desiderio, mai sopito, dei repubblicani di vedere il proprio paese come potenza predominate sulla scena internazionale, tendenza opposta alla politica praticata da Obama, che anzi spesso ha lasciato gli Stati Uniti in una posizione defilata in più di una occasione presentatasi, valga come esempio per tutti l'appoggio ai ribelli libici che hanno visto gli USA in una posizione di seconda fila rispetto a Francia ed Inghilterra. Romney ritiene che questo sia un buon argomento elettorale e non ha esitato a rispolverare un clima da guerra fredda con pesanti dichiarazioni sul comportamento della Russia. Effettivamente occorre riconoscere che Mosca dalla rielezione di Putin ha praticato una politica estera quanto meno ardita, regalando il proprio appoggio a dittatori e stati potenzialmente pericolosi, situazione ben conosciuta da Obama, che però evita posizioni di evidente contrasto con il Cremlino, continuando nella tattica, seppure faticosa del dialogo ad oltranza. La posizione dello sfidante repubblicano, ha così provocato le immediate critiche del governo russo, che ha pronosticato, nel caso di elezione di Romney, una probabile crisi diplomatica tra i due paesi nel corso del primo anno del suo mandato. Un confronto più duro e serrato di quello attuale trai due paesi preventiva uno sconvolgimento degli equilibri attuali, che seppure poco stabili, consentono ancora margini di collaborazione tra Mosca e Washington. Vista sotto questa prospettiva la mossa di Romney di demonizzare la Russia sembra un autogol, ma potrebbe trattarsi di una mossa calcolata per tentare di recuperare l'elettorato del tea party che si è allontanato dal partito repubblicano, tuttavia negli ambienti ufficiali del partito la sortita di Romney è stata condannata da esponenti autorevoli e di grande competenza internazionale come Henry Kissinger e Colin Powell, che hanno sottolineato come il rapport con la Russia attuale non deve essere rovinato solo per la questione nucleare iraniana. L'avere affermato che Mosca rappresenta per gli USA la più grande minaccia geopolitica pare così essere un miscuglio di inesperienza e voglia di esagerare per sfondare a destra, che non segnala lo sfidante presidenziale per la sua competenza in politica internazionale, inoltre la mancanza evidente di cautela si evidenzia come una caratteristica molto pericolosa per un individuo che intende guidare la nazione più importante del mondo.

Cuba verso il modello cinese

Per uscire dalla gave crisi economica, che sta condizionando materialmente la vita del paese, il presidente cubano Raul Castro ha iniziato una visita in Cina, per capire la trasformazione della nazione in colosso economico, mantenendo un ordinamento nominalmente comunista. Il motivo ufficiale della visita è costituito dalla firma di accordi commerciali tra l'Avana e Pechino, tesi a rilanciare l'economia cubana. La Cina, dopo il Venezuela rappresenta il secondo partner commerciale di Cuba, ed intende intensificare i rapporti, anche per la posizione strategica di Cuba e per il basso costo del lavoro. Significativa a questo proposito l'apertura di linee di credito capaci di creare investimenti infrastrutturali capaci di richiamare la presenza di imprese straniere. Per l'Avana è importante anche rompere l'embargo internazionale provocato dal blocco imposto dagli USA, che ha di fatto affossato la già gracile economia cubana. Tuttavia, aldilà dell'importanza degli accordi commerciali e delle basi gettate per creare i presupposti per una industrializzazione del paese, il rilievo più importante della visita a Pechino del presidente cubano è costituito dalla volontà di comprendere il modello cinese per applicarlo nel proprio paese. La trasformazione in economia di mercato, pur nella rigidità di un sistema politico tutt'altro che democratico, tanto da non prevedere la pluralità dei partiti ed anche il mancato riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, della Cina pare una strada adeguata ai dirigenti de l'Avana da seguire per l'evoluzione del paese cubano, ormai consapevole di dovere dare una svolta ad una struttura produttiva insufficiente per uscire dalla miseria in cui è sprofondato il paese. Il punto di partenza è stato probabilmente individuato nella fase che la Cina ha attraversato negli anni 80 e 90 del secolo scorso, quando ha avviato una privatizzazione graduale di vecchie industrie statali in un contesto protetto da fenomeni inflattivi giunto alla garanzia di un mercato stabile, anche per il ferreo controllo del partito unico al potere, che ha potuto impedire i problemi tipici presenti in una forma di governo democratica, quale rivendicazioni sindacali o di altri gruppi di pressione. Il basso costo del lavoro, analogia che Cuba può garantire da subito, è stato il volano iniziale dello sviluppo cinese, sopratutto mantenuto e garantito per le imprese dalla rigidità dei salari non gravati da forme di contrattazione e quindi imposti dall'alto. Un doppio ossimoro sia per il comunismo, a cui si rifaceva e si rifa il regime cinese, che per lo stesso capitalismo che aveva trovato in Cina il terreno maggiormente favorevole nel corso della storia. In sostanza la Cina si è sviluppata in un capitalismo senza controllo proprio grazie ad una politica che non ammetteva dissenso. Ciò ha permesso, pur in assenza di diritti democratici l'uscita dalla povertà di una grande massa di persone, ma ha anche creato profonde differenze sociali, capaci creare forti tensioni in una società in grande evoluzione. La situazione di Cuba attuale presenta numerose analogie con la situazione di partenza della Cina verso lo sviluppo, un partito unico capace di un controllo capillare sulla società del paese ed in grado di imporre soluzioni anche pesanti dal punto di vista lavorativo, un tessuto sociale sull'orlo della miseria, che può garantire una mano d'opera a basso costo ma insieme desideroso di affacciarsi al consumo generalizzato e così capace di alimentare anche un mercato interno, che può essere rilanciato proprio grazie all'ingresso di soggetti stranieri, invogliati da una situazione garantita dall'assenza di forme di opposizione e quindi dalla certezza di avere di fronte un interlocutore unico per le trattative. Se per Cuba la strada verso questo modello sembra così avviata, occorre rilevare la pericolosità della diffusione nel mondo del sistema cinese in quel mondo che si definiva comunista, come succede anche in Vietnam, che infatti sarà la prossima tappa della visita di Raul Castro. E' un tipo di sviluppo che si concreta in assenza totale di regole e tutele per i lavoratori, spesso sottoposti sia ad orari massacranti che esposti ad ogni tipo di rischio per la propria salute. Certo all'inizio garantisce una via d'uscita dalla miseria, ma questo non può giustificare i soprusi e gli abusi subiti per riscuotere un misero salario. L'occidente dovrebbe fare maggiore pressione affinchè la tutela di questi lavoratori compia una sostanziale evoluzione, non solo per considerazioni morali, ma anche economiche: il minor costo del lavoro e le minori garanzie costituiscono una forma di concorrenza sleale che impoverisce il tessuto industriale dei paesi più ricchi, che sono già stati colpiti da delocalizzazioni selvagge e che hanno impoverito il tessuto sociale. Avviare un dibattito nelle sede internazionali per elaborare forme minime di tutela universale per i lavoratori è ormai diventato improcrastinabile.

giovedì 5 luglio 2012

Le milizie problema della Libia alla vigilia delle elezioni

La Libia del dopo Gheddafi, resta uno stato che non è in grado di assicurare i diritti civili. Da questa motivazione parte la richiesta di Amnesty International ai politici in lizza per le prossime elezioni, le prime dopo quaranta anni di dittatura, di dare precedenza alla costruzione di uno stato in grado di rispettare i diritti umani, fondato sul diritto. La situazione nel paese mediterraneo sarebbe contraddistinta da continue violazioni dei diritti umani, grazie alla presenza di arresti arbitrari e tortura. Non è un buon biglietto di presentazione per il rinnovato stato libico, dove non è stato sconfitto il fenomeno delle bande armate, che continuano a porsi al di fuori della legge, rifiutando la consegna delle armi e l'arruolamento in strutture dello stato. Quello delle milizie armate è un problema che si è posto ancora prima della caduta di Gheddafi, espressione militare delle tribù, le formazioni paramilitari, costituiscono uno stato nello stato, anzi tanti stati nello stato, gestendo intere porzioni di territorio dove dominano incontrastate in virtù della grande conoscenza geografica e dell'appoggio della popolazione. Tuttavia spesso sono protagoniste di eccessi talmente gravi, che sono capaci di alterare l'immagine che il governo centrale cerca faticosamente di costruirsi. D'altronde era risaputo che lo stato libico era una nazione artificiale, senza un retroterra culturale comune, che non si è creato neppure dopo l'eliminazione della dittatura di Gheddafi. La Libia stava insieme soltanto perchè era governata dal pugno di ferro del dittatore, abile a distribuire parte delle ingenti ricchezze alle tribù più fedeli. Ma ciò non ha creato una coscienza statale comune, anzi una delle strategie del Rais era proprio quella di alimentare le divisioni tribali, per volgerle a proprio vantaggio. Uno degli errori occidentali è stato quello di lasciare il paese a se stesso dopo l'eliminazione fisica di Gheddafi, senza aprire una conferenza, tra tutte le forze della ribellione, capace di valutare e trovare una soluzione, anche dividendo il paese, capace di assicurare da subito stabilità. Gli sforzi di tenere insieme il paese, grazie agli sforzi di una parte delle forze che hanno rovesciato il regime, non paiono così avere sortito un effetto apprezzabile e ciò non fa guardare positivamente alle prossime elezioni. Anche senza l'investitura ufficiale il governo di transizione avrebbe dovuto avere già saldamente in mano la situazione, ma così non è stato e la minaccia delle bande armate grava pesantemente sul processo democratico libico. Una ulteriore particolarità che non ha segnato una rottura con il regime è costituita dall'ingiusta ed ingiustificata detenzione dei migranti che arrivano sul territorio libico per attraversare il Mediterraneo e giungere in Europa. C'è il sospetto che questa sia una bomba a tempo da puntare sulle nazioni della sponda settentrionale del mare mediterraneo, per costringerli a forme di aiuto concordate: una pratica già messa in atto con successo dal Colonnello.

Il taglio del welfare, come politica per abbattere i debiti pubblici

Uno dei più eclatanti e devastanti effetti della crisi economica in atto è il preoccupante taglio, operato in modo indiscriminato praticamente in tutta la totalità dei paesi, del sistema del welfare. Anni di conquiste e di progresso sociale, vengono ridotti, se non cancellati, in maniera tale da riportare indietro le lancette degli orologi della storia. In alcuni casi i governi sembrano perfino praticare modalità punitive, nei confronti della maggioranza delle società che amministrano. La caduta degli ascensori sociali, precipitati verso il basso della piramide della società, provoca che i destinatari dei tagli siano, oltre ai ceti più bassi, anche i ceti che una volta erano definiti medi. L'erosione di ricchezza, avvenuta tramite un progressivo abbassamento del valore dei salari, giunta ad una sempre maggiore diminuzione dei servizi, senza contare l'aumento della tassazione diretta ed indiretta, determina il ritorno di situazioni, che si credeva ormai lasciate alle spalle. Siamo di fronte al fallimento di un modello sociale, che pur in diverse varianti e sfumature a seconda della zona geografica e della effettiva ricchezza dei rispettivi paesi, assicurava per prima cosa la dignità di cittadinanza, attraverso provvedimenti concreti al maggior numero possibile dei suoi componenti. Fa specie e sorprende, che tali pratiche restrittive, giustificate con il necessario abbattimento del debito pubblico, siano percorse, tranne poche eccezioni, da un arco politico che va dalla destra, anche quella cosidette sociale, alla sinistra, sopratutto quella definita più illuminata, passando per il centro, che in Europa spesso si ispira ai valori cristiani. Non si capisce se questi abbattimenti dello stato sociale siano stati intrapresi per calcolo di convenienza e faciltà di azione, si colpisce, in sostanza, il maggior numero di individui, ricavando tanto con poco sforzo, o se si tratta di una scelta politica ben precisa, per riportare la massa ad un livello facilmente controllabile, costringendola all'emergenza continua. In ogni caso è il fallimento del capitalismo, inteso come maggiore diffusione del benessere possibile, ed è, al contrario, l'affermazione dei pochi sui tanti, tramite l'accentuazione delle differenze e delle distanze sociali. In sostanza si favorisce la concentrazione della maggior parte della ricchezza della società, in mano ad un numero ridotto di persone, con percentuali che sfiorano, nei casi migliori, il 10% della totalità. Questa pratica, ancora una volta, è derivata da un uso distorto della ideologia liberale degenerata nella sua peggiore accezione: quella del liberismo senza freni e controlli. Credere che favorire i ceti ricchi, sottoponendoli a tassazioni ridicole, possa costituire una leva per la crescita economica, oltre ad essere moralmente opinabile, è ormai una scelta sbagliata, dimostrata ampiamente, nei teatri più diversi. Del resto la recessione attuale, dipende in buona percentuale, anche dall'impossibilità della maggior parte della popolazione di esercitare una adeguata capacità di spesa, dalla quale deriva la contrazione dei consumi, ma anche le minori entrare per lo stato, che provoca, quindi, un risultato opposto alla direzione voluta. La maggiore dimostrazione di questo fatto è il quasi totale mancato ricorso a politiche di tassazione basati sul patrimonio, che possono permettere l'allegerimento della pressione fiscale sul lavoro. La volontà di percorrere questa via è il più chiaro segnale dei risultati che si evidenzieranno in un futuro sempre più prossimo. Tuttavia, anche le società, pur nella loro anestesia dettata da un insieme di sfiducia ed uso sapiente dei mezzi di comunicazione, iniziano a presentare qualche motivo di cambiamento. L'affermazione di Hollande, in Francia, che ha messo al centro della propria campagna elettorale una tassazione elevata per i grandi capitali, il successo elettorale dell'estrema sinistra in Grecia, che partiva proprio da questi presupposti, possono indicare la via per la costruzione di un modello alternativo, basato sulla maggiore redistribuzione del reddito nazionale. Mantenere un welfare adeguato e degno di uno sviluppo sociale adeguato, rappresenta infatti, il migliore programma possibile per ricostruire una società più equa.

mercoledì 4 luglio 2012

L'eccessivo potere della finanza nell'economia attuale

Uno studio del Fondo Monetario Internazionale delimita in modo netto il ruolo della finanza in relazione alla crescita. Pur riconoscendo la necessità del mercato finanziario per sostenere gli investimenti, il rapporto dice chiaramente che l'eccesso della presenza del settore finanziario all'interno dell'economia di un paese, gioca un ruolo negativo, perchè, attraverso un uso distorto della leva finanziaria, provoca il surplus di contante colpevole delle cosidette bolle speculative. Lo studio fornisce un dato preciso oltre il quale la finanza è dannosa per l'economia di una nazione, nella misura in cui i prestiti al settore privato oltrepassano il 110% del PIL nazionale. Infatti l'analisi dimostra come i paesi più in crisi siano proprio quelli in cui questa soglia viene superata, inoltre i dati storici degli ultimi trenta anni evidenziano che la crescita del settore finanziario negli Stati Uniti sia cresciuta sei volte più del PIL nazionale. Questi dati concreti, non teorie opinabili, evidenziano che il peso della finanza è diventato preponderante rispetto all'economia reale, finendo per soffocarla e talvolta distruggerla. A parte le considerazioni morali, che devono comunque essere tenute in considerazione se si vuole dare una regolazione efficace al sistema globale, le pratiche del guadagno facile mostrano tutti i loro limiti proprio in un'ottica puramente economica. Il troppo liberalismo su di una parte così importante dell'economia, mascherato da progresso sia politico che economico, si è rivelato fatale proprio per quei soggetti che contestavano l'intervento regolatorio di stati ed istituzioni. La mancanza di regole certe e condivise, sopratutto a livello internazionale, ha provocato la morte di industrie e manifatture che costituivano la ricchezza tangibile di un paese, sostituita con una crescita effimera, che alla lunga si è rivelata fallimentare. L'impoverimento delle famiglie e le difficoltà dei bilanci statali non si possono certo imputare alla sola finanza, ma sicuramente l'uso indiscriminato e non regolato della speculazione ha aumentato di molto le difficoltà economiche, peggiorando considerevolmente la qualità della vita delle persone. Le tante anomalie di questi anni dovevano destare maggiore attenzione in chi è preposto a governare i fenomeni economici, le tante discrepanze delle valutazioni borsistiche, che privilegiavano titoli vuoti, senza cioè una ricchezza materiale di attrezzature e brevetti, rispetto ad aziende in grado di produrre ricchezza attraverso la produzione di beni ottenuti con sforzi lavorativi e capaci di innovare materialmente il mercato, doveva essere un segnale di allarme facilmente interpretabile. Non si può dire il perchè non sia stato così con sicurezza assoluta, se, cioè questa immobilità è dipesa da incompetenza o convenienza, sopratutto per chi ha optato e continua a privilegiare i risultati di brevissimo periodo rispetto ad una programmazione con risultati immediati minori, ma capace di dare stabilità sul medio e lungo periodo. L'opinione più naturale è che l'applicazione pressochè totale del liberismo economico a qualunque latitudine non abbia saputo prevedere gli effetti nefasti che avrebbe prodotto. Si è puntato così su di una economia totalmente non regolata se non da una visione basata sull'esclusivo guadagno immediato, che ha creato, tra i tanti effetti negativi, un aumento della distanza tra poveri e ricchi, determinando la concentrazione della maggior parte della ricchezza nelle mani di pochi. Questo fatto ha poi di conseguenza compresso l'economia per mancanza di risorse alle famiglie. E' quindi ora che si torni ad una regolazione incisiva sul fenomeno finanziario, che deve rimanere perchè essenziale, ma ridotto nei giusti termini di necessità del fabbisogno; il giusto dosaggio infatti può permettere uno sviluppo non più condizionato da improvvise bolle speculative capaci di alterare la effettiva ricchezza di un paese. Uno dei metodi, oltre all'applicazione della Tobin tax, potrebbe essere quello di diminuire la tassazione sul lavoro e sulle imprese produttrici di beni reali, consentendo l'immediato autofinanziamento per il proprio sviluppo in modo da drenare il ricorso alla leva puramente finanziaria, per riportarla nei limiti previsti dallo studio del Fondo Monetario Internazionale.

martedì 3 luglio 2012

Le esercitazioni militari iraniane aumentano la tensione nel medio oriente

Il prossimo vertice sul programma nucleare iraniano, che si terrà ad Istanbul tra l'Iran ed i cinque membri permanenti di sicurezza delle Nazioni Unite, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania, parte sotto i peggiori auspici, non tanto per la difficoltà sempre maggiore delle trattative di arrivare ad un punto soddisfacente, quanto per le esercitazioni militari iraniane, che hanno avuto lo scopo di testare l'efficacia dei missili balistici di Teheran. La tempistica di questo sfoggio di forza militare non è casuale, il messaggio che racchiude infatti è diretto a quelle nazioni, prima fra tutte Israele, ma anche gli Stati Uniti, che potrebbero pensare ad una azione bellica contro il paese iraniano, per azzerare i suoi progressi verso la bomba atomica.
I missili Shahab 1, 2 e 3, Qiam, Fatah e Tondar sono stati lanciati in diverse zone del paese con un tasso di successo vicino al 100%. In particolare il mezzo balistico più pericoloso è lo Shabab 3, capace di una gittata di 2.000 chilometri, che consentirebbe di colpire, oltre ad Israele, tutti quei paesi del medio oriente dove sono ospitate le basi militari americane. La stessa Turchia, in quanto membro NATO, potrebbe entrare nel raggio di eventuali ritorsioni o addirittura, attacchi preventivi alle forze USA, presenti sul suo territorio. Gli altri tipi di missile, pur avendo una gittata inferiore, tra i 200 ed i 750 chilometri, restano pur sempre un'arma letale in mano alla teocrazia islamica. Nonostante si stimi che nell'arsenale iraniano siano presenti soltanto alcune decine dei missili a gittata maggiore, la capacità di colpire obiettivi occidentali non deve essere sottovalutata, specie se si considerano i progressi di Teheran nella ricerca atomica. L'ordigno nucleare giunto ad un vettore capace di coprire una distanza intorno ai duemila chilometri, giustifica i peggiori timori di Israele. Se Washington ha tenuto a bada finora Tel Aviv, la dimostrazione evidente dell'esercitazione militare delle forze armate iraniane, contribuirà ad aumentare le difficoltà di contenere la volontà israeliana di prevenire una tale possibilità. Il pericolo è che diventi la maggioranza chi considera una guerra preventiva il male minore, prima, cioè, che Teheran possa disporre pienamente dell'arsenale atomico. Un tale sviluppo della situazione potrebbe portare alla decisione di un attacco autonomo da parte dell'esercito israeliano al quale gli americani non potrebbero sottrarsi. Lo scenario diventa quindi ogni giorno più preoccupante, anche per le posizioni russa e cinese, che continuano una politica della trattativa ad oltranza, senza sottoscrivere le sanzioni occidentali contro l'Iran, che non riesce a produrre risultati apprezzabili. Peraltro risulta difficile comprendere la strategia iraniana, che pare sempre più provocatoria, sopratutto nei confronti di Israele, sopratutto in un momento di estrema difficoltà regionale per la questione siriana. Una tale instabilità espone il mondo intero ad un rischio di conflitto, che da regionale può espandersi, anche in forme non tradizionali, su di una scala più vasta, andando a coinvolgere attori differenti ed esponendo a sviluppi imprevisti anche nazioni più lontane dall'epicentro. Uno dei pericoli maggiori è la strumentalizzazione del confronto sia in chiave religiosa, occorre ricordare il crescente attivismo violento degli estremisti islamici in Africa ed in Asia, sia in chiave nord sud del mondo, in quest'ottica va ricordato, invece, l'attivismo diplomatico iraniano nei paesi centro e sud americani. La radicalizzazione e l'incanalamento di un conflitto, alla cui base vi è la paura della disponibilità della bomba atomica in mano ad un regime pericoloso, può creare nuove alleanze e spostarne di vecchie, alterando pericolosamente equilibri ormai assodati, ben aldilà del solo medio oriente.

L'Inghilterra vuole uscire dall'Europa?

Il pensiero anti europeo inglese si concretizza nella possibilità di effettuare un referendum per uscire dall'Unione Europea, come ha prospettato il premier Cameron. L'euro scetticismo di Londra non è una novità, l'adesione alla casa comune europea è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento tiepido, tipico di chi voleva sfruttare le possibilità derivanti dall'adesione con Bruxelles, senza, però, condividerne i lati meno vantaggiosi per il proprio sistema. L'impulso di unificazione europea dato dall'adozione della moneta unica è stato subito scartato in nome della sterlina, paravento di ragioni ben meno di bandiera. In realtà Londra non ha mai pensato seriamente di contribuire alla costruzione di una potenza europea, sopratutto dal lato politico e mascherando questa intenzione con ragioni economiche. L'incremento della crisi finanziaria ha poi aggiunto ulteriori perplessità ad una adesione al progetto europeo già poco convinta. In effetti attualmente i motivi politici sono ormai diventati equivalenti a quelli economici. L'Inghilterra non può tollerare le restrizioni, che saranno sempre più stringenti, che Bruxelles imporrà agli stati membri, in nome degli accordi recentemente sottoscritti in materia di debito e bilancio e che sono destinati a creare perdite consistenti di sovranità da parte dei governi nazionali. Per una nazione che ha perso il suo tessuto industriale e manifatturiero e che ha come principale attività la finanza, è impossibile accettare di non avere le mani libere da controlli sulla speculazione, significherebbe perdere consistenti quote di mercato, sopratutto a causa del contrasto di quelli canali speculativi operanti da Londra, che sono oggetto di attenzione da parte delle istituzioni europee. Quello che Cameron teme di più è la crescente influenza che sta acquistando l'area dell'euro su argomenti riguardanti l'intera Unione Europea, anche, quindi, su quella parte che non ha e non intende aderire alla moneta unica. La destinazione presa da Bruxelles prevede come punto di arrivo una maggiore integrazione politica, che riguarderà sia i già citati aspetti fiscali, che la politica estera e la difesa. Si tratta di argomenti sui quali i governi inglesi, di ogni colore, hanno sempre mostrato una certa ritrosia a rinunciare alla propria autonomia, ma il rovescio della medaglia è che un Regno Unito fuori dall'Unione Europea perderebbe, inevitabilmente, peso politico ed autorevolezza, riducendosi a diventare un alleato subalterno agli Stati Uniti. Neppure la strada di una rinegoziazione degli accordi con la UE pare una via praticabile, seppure l'atteggiamento comunitario è stato fino ad ora anche troppo paziente con Londra, non appare verosimile che Bruxelles conceda altri vantaggi agli inglesi senza contropartite adeguate. Se, infatti, l'Unione Europea può tranquillamente permettersi l'uscita della Gran Bretagna, acquisendone addirittura dei vantaggi, l'isolazionismo a cui rischia di condannarsi Londra non può che significare diventare un paese di secondo piano, dal punto di vista politico e diplomatico e più povero da quello economico. Certo il Regno Unito può diventare una sorta di paradiso fiscale, come Cameron ha scorrettamente proposto ai ricchi francesi in caso di aumento delle tasse patrimoniali, come previsto dal programma elettorale di Hollande, ma una tale politica non farebbe altro che accelerare l'indebolimento inglese nei confronti degli ex partner europei. E' palese che senza una trasformazione radicale della propria economia Londra non può che stare a metà del guado, ma è l'atteggiamento delle istituzioni europee che deve cambiare per mettere fuori dai trattati chi non aderisce al progetto di unificazione europea, l'unico che può permettere al vecchio continente di stare al passo dei colossi che dominano la scena mondiale.