Politica Internazionale

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martedì 31 luglio 2012

Il Venezuela entra nel Mercosur

L'ingresso del Venezuela nel Mercato comune del Sud America rappresenta una novità molto rilevante non solo dal punto di vista economico, ma sopratutto politico. L'attuale stato di salute dell'organizzazione latino americana, fondata per favorire il libero scambio e promuovere una politica tariffaria comune nei paesi aderenti, non sta attraversando un buon periodo a causa dei contrasti nati tra Argentina e Brasile, per le restrizioni protezionistiche inserite per salvaguardare il proprio mercato interno dalla presidente Kirchner, che danneggiano principalmente Brasilia. In effetti dalla sua fondazione, il Mercato comune del Sud America, avvenuta nel 1991, non ha compiuto sostanziali progressi, se non una timida apertura dei confini per le tariffe delle merci, ben lontano, quindi, dal principale scopo fondativo che era la creazione effettiva di un mercato comune tra i paesi aderenti. Una delle principali ragioni è stata individuata nella pesante differenza che contraddistingue la capacità produttiva dei paesi membri, fortemente squilibrata a favore del Brasile, capace di produrre il 77% del totale delle merci. Questa asimmetria ha favorito una cultura protezionistica delle nazioni aderenti, che non ha mai fatto decollare il progetto iniziale. Inoltre, la distanza politica tra i vari governi non ha mai permesso una comunione di intenti, anche solo di base, che potesse permettere all'organizzazione sovranazionale di spiccare il salto di qualità verso una unione più completa. L'arrivo del Venezuela guidato da Chavez, dovrebbe rappresentare una svolta, sopratutto politica per l'organizzazione, che probabilmente lavorerà per dare un maggior peso specifico nell'arena internazionale. Non è un mistero che proprio il Brasile, uno dei principali paesi emergenti, abbia più volte cercato di assumere una posizione più indipendente nel panorama internazionale, quasi di equidistanza dalle principali potenze USA e Cina. Pur avendo una capacità produttiva notevole e quindi una grande potenza economica, il Brasile non è mai riuscito a diventare il protagonista che intendeva essere, malgrado il brillante governo di Lula, capace di imprimere una svolta determinante al paese. Non appare quindi inverosimile che Dilma Rousseff, cerchi una via alternativa, che coinvolga e dia lustro all'Organizzazione che vuole rappresentare il Mercato comune del Sud America. Del resto accogliere il Venezuela, vuole dire sottoscrivere un programma già ampiamente delineato: Chavez ha espresso più volte la sua contrarietà alla politica statunitense ed è entrato in relazioni ufficiali con stati ritenuti molto pericolosi, come l'Iran. L'impressione è che, a rimorchio delle intenzioni brasiliane, un poco tutto il sud america, quindi anche la stessa Argentina, stia cercando una via autonoma, che permetta alla regione di assumere un ruolo indipendente e sopratutto sganciato dall'influenza di Washington. Ma questo significherà anche sapere limitare gli eccessi del presidente venezuelano, sempre a rischio di incidente diplomatico. La focalizzazione del punto di vista politico, rischia di sminuire quello economico, che, viceversa ha delle implicazioni altrettanto notevoli. Quello che si apre può essere un periodo di grande opportunità e sviluppo per tutta la regione, ricca di materie prime, ma povera ancora di conoscenza. Se però gli scopi del mercato comune dovessero affermarsi, sotto la spinta delle necessità politiche, quello che potrebbe formarsi sarebbe un gigante economico in grado di combattere a qualunque livello contro qualunque avversario. E' finora troppo presto per prevedere quali potranno essere gli sviluppi per una organizzazione che finora è stata praticamente in sonno, ma se l'impulso dell'ingresso del nuovo membro dovesse riuscire a smuovere la situazione, l'ingresso di un nuovo soggetto, molto importante, sulla scena internazionale sarebbe praticamente certo. Sicuramente sia gli USA, che la Cina, ed anche la UE, seguiranno attentamente gli sviluppi di una vicenda in grado di spostare gli equilibri attuali, sia economici che politici.

Obama chiede maggiore impegno ai governi europei

La rielezione di Obama potrebbe passare anche attraverso la ripresa europea. E' questo, infatti, il significato dell'esortazione ai leader dell'area euro da parte del Presidente degli Stati Uniti. Barack Obama ha espresso fiducia nella ripresa europea, ma, allo stesso tempo, ha chiesto ai governi del vecchio continente di adottare una azione decisiva per la risoluzione della crisi. La ripresa dell'economia statunitense è infatti legata all'andamento della crisi europea, che rimane il principale mercato, perchè comunque è anche il più ricco, per le merci USA. L'amministrazione di Washington ha sottolineato più volte come sia tanto il tempo investito con i governi europei per uscire anzitempo dalla crisi. La pressione che Obama mette sull'Europa è giustificata da personali necessità contingenti: il progressivo avvicinarsi delle elezioni impone un cambio di passo all'attività presidenziale volta a scongiurare quella che è la principale preoccupazione dell'elettorato americano. Infatti mai come nelle prossime elezioni l'argomento della crisi economica e delle possibilità di uscirne sarà centrale e determinante. Ancor più che la politica estera conteranno le ricette che i candidati sottoporranno agli elettori; ma se lo sfidante Romney ha già fatto ampia professione per un ritorno al più sfrenato liberalismo, come unico e risolutivo ingrediente, la posizione di Obama è più articolata. La volontà di introdurre una tassazione per i più ricchi, in modo da favorire una redistribuzione del reddito ed una maggiore collaborazione con l'Europa, per concordare strategie comuni, giunte alla volontà di una limitazione degli abusi della finanza, fanno del programma economico del presidente uscente una linea maggiormente in sintonia con la necessità di regolare, come è stato da più parti avvertito, il settore economico finanziario, per eliminare quelle contro indicazioni eccessivamente liberiste, che tanti danni hanno fatto. Semmai si può appuntare ad Obama una scarsa azione precedente e preventiva. E' pur vero che gran parte della sua legislatura è stata segnata da una coabitazione con un parlamento sfavorevole, che ne ha limitato l'azione in maniera sostanziale, tuttavia anche i soli interventi in sede non istituzionale, sono sempre stati troppo timidi nei confronti dell'azione della finanza. Se l'appello ai governanti europei è giusto e condivisibile nella sostanza, meno lo è se si considera da quale pulpito provenga. La responsabilità americana, cioè di parte del paese statunitense, nella creazione delle tante bolle che hanno influenzato l'economia mondiale in maniera totalmente negativa, imporrebbe anche una presa di responsabilità, che non si avverte, o non si avverte abbastanza, dal presidente americano uscente. E ciò è più grave se si pensa a quanto pareva delinearsi attraverso la sua elezione. Non soltano la maggioranza degli americani, ma anche degli europei, probabilmente, insieme alle richieste di assunzione di manovre efficaci, dirette ai governi europei, vorrebbe anche parole di rassicurazione sulla effettiva volontà di regolare la finanza una volta per tutte, come strumento attraverso il quale generare sviluppo e non mero mezzo fine a se stesso per generare immensi guadagni per pochi individui.

lunedì 30 luglio 2012

Il futuro delle medie potenze

Con la rapida evoluzione della politica internazionale, giunta alla crescente crisi economica, che determina una riduzione delle risorse, sopratutto verso il settore militare, vi sono un ampio numero di paesi, che rientrano nella definizione di media potenza, che devono interrogarsi sul loro ruolo nel teatro della relazioni internazionali. La difficoltà crescente di assicurare alle grandi potenze il necessario appoggio militare per operazioni su vasta scala, impone la ricerca di soluzioni alternative, che consentano comunque quella necessaria presenza per assolvere i propri compiti, nell'ambito delle politiche estere elaborate. La necessità di una presenza militare, ancorchè mitigata, resta un punto fisso nella strategia delle relazioni diplomatiche, per dovere inteso come contributo ad operazioni sia di pace che di anti terrorismo, dunque ricomprese in quadri più ampi della singola visione nazionale, elemento fondamentale della cooperazione tra gli stati. Tuttavia l'uso del mezzo di dissuasione militare rientra in un concetto tutt'altro che preventivo della gestione della situazione internazionale. Una riduzione delle operazioni militari non può che essere attuata con programmi che prevengano questa necessità. Si deve cioè investire maggiormente nella cooperazione internazionale con programmi mirati a consentire che lo sviluppo locale raggiunga un grado tale da soddisfare i bisogni primari in maniera completa. Non si tratta del solo problema alimentare, ma anche quello sanitario e scolastico, che non possono essere disgiunti per potere affrontare la sfida della crescita. In quest'ottica anche la formazione tecnica e specialistica, va vista come stadio ulteriore. Questa via, se intrapresa, potrebbe diventare appannaggio di quei paesi che si definiscono medie potenze, in una divisione di compiti con le grandi potenze a cui andrebbero i maggiori oneri militari. Questo ruolo non andrebbe visto, ne percepito come riduttivo, ma complementare a quello delle potenze maggiori. Del resto l'impegno richiesto e la capacità da mettere in campo richiedono comunque grossi sforzi e grande disponibilità sia economica che di conoscenze. Se la presenza militare ha garantito spesso anche un investimento per un ritorno di tipo commerciale, anche la cooperazione internazionale può ricomprendere aspetti che vadano aldilà della azione caritatevole. Intanto consentire una stanzialità ai popoli che sono spesso protagonisti di fenomeni migratori, significa bloccare sul nascere una problematica che investe una miriade di implicazioni, che vanno dal traffico umano, a quello di armi ed a quello della droga. E poi sulla base della cooperazione si può trovare intese per le aziende del paese impegnato per la costruzione delle necessarie infrastrutture. Un'altra via da seguire è l'impegno diplomatico come mediazione in quelle zone del mondo dove vi sono conflitti che non vedono soluzioni di uscita. Una efficace azione diplomatica che abbia come centro la ricerca di soluzioni alternative al confronto militare, rappresenta una efficace chiave di accesso a posizioni importanti nel teatro internazionale. Queste soluzioni non sono rivoluzionarie, perchè, in parte, già attuate, ma quella che dovrebbe cambiare è l'intensità dell'investimento sia politico che economico, per bilanciare il disimpegno militare. Questo argomento potrà suscitare, se attuato, un dibattito anche forte: i sostenitori delle missioni militari sono molteplici perchè ricomprendono interessi diversi, il primo tra i quali è quello squisitamente economico. Se si abbraccia una riorganizzazione delle forze armate più orientata ad essere difensiva del territorio nazionale e, quindi non più capace di affrontare teatri di guerra lontani, si riduce drasticamente l'investimento in mezzi e materiali, provocando proteste, magari mascherate da falso nazionalismo. In realtà un disimpegno totale delle forze armate delle medie potenze è impossibile, ma una razionalizzazione dell'impiego è auspicabile, attraverso il privilegio della specializzazione spinta e dell'uso sempre più massiccio dell'intelligence. Si possono poi immaginare alleanze alternative, ma non contrarie, alle grandi organizzazioni internazionali, per favorire progetti di comune interesse, anche tra nazioni solitamente lontane, in modo da creare polarità sempre nuove nel panorama internazionale. Il fine delle medie potenze deve essere quello di non perdere importanza sullo scacchiere internazionale, ma mantenere ed anche aumentare il loro peso, attraverso modalità alternative all'uso del mezzo militare, anche in un'ottica di diventare paesi portatori di pace.

giovedì 26 luglio 2012

La fine del liberalismo e la necessità di una maggiore presenza dello stato

L'affermazione dell'ex Chief Excutive Operations di Citygroup Sandy Weill costituisce una pietra tombale sugli eccessi del liberismo, incarnato dall'eccessivo uso dello strumento finanziario. Weill dice espressamente che le banche di investimento devono essere separate funzionalmente dagli istituti che svolgono un ruolo puramente bancario. Dietro questo tecnicismo vi è l'ammissione del fallimento totale dell'evoluzione del sistema bancario degli ultimi venti anni. La conseguenza è la presa d'atto della profonda ingiustizia del metodo di scaricare sulla totalità dei contribuenti, creando costi sociali enormi, il costo economico del salvataggio di istituti bancari autori di investimenti totalmente sbagliati, ma troppo grossi per essere lasciati fallire. Ciò implica la profonda distorsione del cosidetto pensiero liberale, oramai definito liberista con una accezione tutt'altro che positiva. Ampliando il discorso non si può che constatare che è fallita l'idea stessa di capitalismo, dove con tale definizione si intendeva la diffusione maggiore possibile delle opportunità e della ricchezza, ottenuta con metodi etici e corretti. Se il liberalismo partiva dagli assunti della limitazione del potere statale ed il contenimento delle regole, i cosidetti lacci e lacciuoli, per favorire la libertà dell'impresa economica, non si può non notare, che proprio questa assenza di regolamentazione, fortemente voluta, tra gli altri, da campioni politici come Reagan e la signora Thatcher, è la causa principale dell'attuale dissesto economico.
La bizzarra politica creditizia delle banche, che ha favorito più di una delle cosiddette bolle, l'entrata sul mercato di strumenti e prodotti finanziari poco trasparenti, che hanno alterato l'effettivo valore delle industrie e del lavoro, la pesante commistione con parti consistenti di pezzi di politica profondamente corrotta, favorita dalla mancanza di legislazione, sono stati il terreno di coltura che ha permesso la più completa sovversione del comparto finanziario, che ha completamente alterato i suoi compiti originari, di strumento di sviluppo e crescita fino alla trasformazione in mostro economico, sempre più affamato di capitali da distruggere. L'avere assunto una sua fisionomia slegata dal mondo reale ha generato un comparto che da utile e funzionale allo sviluppo economico è diventato, nel percorrere i suoi nuovi obiettivi, il principale responsabile del degrado economico. Ciò ha favorito eccessi e controsensi, purtroppo numerosi, troppo spesso rappresentati dalla chiusura di fabbriche ed industrie produttive, a cui veniva levato l'ossigeno del credito soltanto perchè il guadagno ricavato era ritenuto troppo basso. Si è preferito speculare su investimenti volatili che hanno alterato la forma stessa dei tessuti sociali di comunità intere, spesso impoverite da operazioni avventate e fallimentari. Emarginando lo stato al mero ruolo notarile, la politica si è, nei casi migliori, appiattita su di uno stato di cose tutte giustificate dal feticcio del libero mercato, mentre, nei casi peggiori, ne è stata complice incamerando guadagni gestiti con leggerezza e sfacciataggine. Ora la necessità di imporre una ferrea regolamentazione a tutto il settore è improcrastinabile, la società europea, vittima di tasse e tagli, per ripianare debiti i cui responsabili, non solo non sono stati puniti, ma che sono stati liquidati con importi milionari, rischia di esplodere. Ma non si tratta soltanto di elaborare una nuova impostazione legislativa, quello che deve cambiare è anche l'impostazione stessa dello stato, che deve tornare ad essere un guardiano attento per tutelare i suoi componenti con occhio vigile e mano ferma, che la sua funzione gli attribuisce. Bisogna cioè uscire da una situazione neo medioevale, dove la massa ha la dignità di sudditi anzichè di cittadini. Ristabilire poi la supremazia della politica in campo economico è necessario per togliere la supremazia della finanza sulla società, una supremazia distorta e non legittima nè legittimata se non da fiumi di denaro che non hanno costituito alcun beneficio generale.

In Siria esiste anche un problema curdo

Uno degli aspetti dei fatti di Siria, che non viene abbastanza considerato nel suo giusto valore, è la questione curda. Sul territorio siriano il 10% della popolazione è di etnia curda, che si concentra nelle zone settentrionali del paese, come già nel caso della caduta di Saddam Hussein in Iraq, anche la situazione di caos della Siria, favorisce le istanze autonomistiche a lungo agognate. Vi sono però delle differenze con le tendenze separatiste, che contraddistinguono i curdi della Turchia aderenti al Partito dei lavoratori del Kurdistan. Infatti i curdi siriani sono contrari allo smembramento del paese e propendono per una soluzione di maggiore autonomia, con una soluzione analoga a quella adottata proprio in Iraq, dove all'interno dell'apparato statale sono state previste condizioni particolari, che concedono, appunto, una maggiore libertà di gestione, anche nelle strutture amministrative ai territori dove la presenza curda è radicata. Nelle aree dei curdi della Siria la transizione del potere sta già avvenendo, grazie al lavoro preparatorio iniziato dalla fine dello scorso anno ad opera della sezione siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan, che ha optato per una passaggio di potere poco cruento. In effetti in queste zone la situazione è sempre stata più tranquilla, rispetto, ai teatri del paese dove lo scontro tra i sunniti ed il regime ha assunto dimensioni di vera e propria guerra. I distretti di di Qabaneh, di Afrin, di Amouda di Derika Hamko Girhelaghé sono così ora gestiti direttamente dai curdi, che sono in trattativa con le autorità governative anche per assumere il controllo nelle città di Qameshli, Ras al-Ain e Der Bassie. Le modalità sono improntate alla massima collaborazione con i vecchi funzionari legati al regime, che, in molti casi, sono stati richiamati al lavoro, in modo di garantire la continuità amministrativa, senza incorrere in un pericoloso vuoto di potere. Lo scopo finale è quello di creare un modello che consenta un autogoverno contraddistinto dalla democrazia, ma inquadrato all'interno dello stato siriano. Ma a queste legittime aspirazioni, che paiono improntate ad una volontà pacifica, vi sono essenzialmente due tipi di ostacoli, che potrebbero compromettere il progetto curdo e creare pericolose tensioni. La prima è la presenza nei territori curdi di tribù arabe, che controllano zone chiave per la presenza di giacimenti di gas e petrolio. Ciò ha provocato scontri tra curdi ed arabi, che rischiano di vanificare gli sforzi verso una soluzione pacifica. Su queste tensioni, poi, si è innestato il secondo grande ostacolo alla volontà di autonomia dei curdi siriani: la Turchia. L'Ankara non vede di buon occhio questa tendenza ad una autonomia curda, seppure mitigata all'interno dello stato siriano, perchè teme un aumento delle rivendicazioni dei curdi presenti in Turchia, proprio a causa dell'esempio di ciò che sta avvenendo in Siria. Il governo turco ha più volte, negli scorsi mesi , infranto il diritto internazionale, insieme con l'Iran, conducendo azioni militari sul territorio iraqeno, contro le milizie curde. Ciò rappresenta in modo chiaro e netto come Ankara si ponga di fronte alla questione curda. Infatti la Turchia ha iniziato ad ostacolare i progetti autonomisti dei curdi siriani facendo pressione sulle tribù arabe presenti nella zona, affinchè compiano azioni di disturbo contro la nuova amministrazione ed inoltre ha inviato un gran numero di profughi siriani di etnia araba, dai campi profughi turchi, proprio nei territori amministrati dai curdi, per sovvertire i numeri della percentuale degli abitanti.

I paesi arabi all'ONU contro Israele per gli insediamenti nei territori

I paesi arabi all'ONU hanno condannato ufficialmente la pratica israeliana di favorire gli insediamenti nella zona della West Bank. Il governo israeliano, alle prese con notevoli difficoltà di politica interna, persegue questa tattica per aumentare il proprio territorio, tramite insediamenti illegali in zone palestinesi. La mossa dei paesi arabi consiste nel richiedere una ispezione ufficiale alle Nazioni Unite per sancire l'illegalità di una situazione che rischia di diventare un argomento sostanzioso per azioni terroristiche e minare quindi il fragile equilibrio presente in Palestina. Inoltre l'azione israeliana è in palese violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, che però non hanno fornito una risposta ufficiale alla richiesta araba. Ma i dati espongono chiaramente una situazione difficilmente ancora sostenibile: oltre 340.000 coloni vivono ormai stabilmente in Cisgiordania e circa 200.000 si sono insediati nei quartieri di Gerusalemme Est, praticamente annessa allo stato israeliano. Le risposte ufficiali del governo israeliano sembrano fatte per prendere tempo ed evitano accuratamente di affrontare esplicitamente l'argomento, riferendosi a generici richiami alla leadership palestinese a riprendere la via della pace attraverso negoziati diretti con Tel Aviv. La comunità internazionale giudica praticamente unanimemente l'illegalità e la pericolosità degli insediamenti, anche gli USA, i maggiori alleati di Israele, si dicono contrari al proseguimento di questa pratica. Tuttavia, per ora, non si è andati oltre dichiarazioni, che appaiono di facciata, perchè non vi è mai stato un seguito pratico. L'ampiezza che ha assunto il fenomeno ne denuncia anche la difficoltà di una soluzione, riportare indietro tutti i coloni, come dovrebbe essere fatto in base agli accordi vigenti, rappresenta aspetti pratici da non sottovalutare, sia per la reazione stessa di chi è soggetto attivo dell'occupazione, sia per le ripercussioni che tale eventuale disposizione potrebbe scatenare negli ambienti ortodossi, sempre più influenti nella compagine governativa. Ma la gravità della situazione rischia si esasperare troppo gli animi anche in casa palestinese, che, occorre sottolinearlo, è parte lesa nella vicenda. In una situazione regionale molto complicata come quella attuale, sarebbe saggio da parte di Israele, compiere degli adeguati passi indietro per evitare di dare motivi ad eventuali atti terroristici ed anche per uscire da un isolamento che si fa sempre più pressante, sopratutto per le mutate condizioni politiche dei paesi confinanti. La condanna dei paesi arabi agli insediamenti va letta anche come una modalità preventiva nello stesso interesse israeliano; quello che si percepisce, cioè, è di fornire addirittura una opportunità al governo di Tel Aviv, per costringerlo a dare qualche segnale importante che permetta una distensione necessaria al momento storico che gli assetti regionali stanno attraversando. L'Arabia Saudita ed il Qatar, sempre più protagonisti della politica internazionale, hanno la necessità di stabilizzare la regione in ottica anti Iran, ed hanno, quindi, tutto l'interesse che Teheran resti privo di argomenti, per non influenzare troppo diverse situazioni che si stanno presentando sempre più delicate. La questione siriana, il rapporto con gli Hezbollah e con Al Qaeda, costituiscono i sentieri attraverso i quali si muove la strategia della politica estera iraniana, che fa uso costante della leva anti israeliana, come collante della sua azione sia politica che diplomatica. Togliere legittimità agli argomenti di Teheran, significa per i paesi arabi alleati dell'occidente, l'elaborazione di una strategia che può rivelarsi efficace, sopratutto nella prevenzione di possibili conflitti. Sia l'ONU che i paesi occidentali, ma anche lo stesso Israele, dovrebbero valutare meglio questa possibilità che gli viene offerta, perchè, sopratutto, si sviluppa in ambito sovranazionale. Per Israele rinunciare a pezzi, anche consistenti di territorio strappato alla Palestina, potrebbe essere un investimento con un ritorno di gran lunga maggiore in ottica di pacificazione e risoluzione del problema palestinese.

mercoledì 25 luglio 2012

L'occidente e la Lega Araba pensano al dopo Assad

Il contrattacco portato avanti da Assad, tramite l'aviazione militare dimostra che il presidente siriano non intende cedere il potere. Tramontano così le ipotesi di transizione pacifica fin qui caldeggiate dalla Russia, come scusa per il non intervento sotto l'egida dell'ONU. Tuttavia l'atteggiamento di Mosca non pare subire variazioni e ciò impone all'occidente ed alla Lega Araba di organizzare una transizione politica, che viene data, forse troppo ottimisticamente, per imminente. Infatti l'eventuale caduta di Assad potrebbe provocare diverse conseguenze, che Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Turchia, Arabia Saudita e Qatar, vogliono assolutamente evitare. Per prima cosa è necessario che non si verifichi un vuoto istituzionale, che lascerebbe il paese oltre che in preda al caos, anche alla possibilità di un intervento straniero, quello che si teme, cioè, è una iniziativa iraniana diretta a mantenere il controllo su di un territorio ritenuto da Teheran centrale nella propria strategia di politica estera. A tal fine le potenze occidentali e della Lega Araba sono orientate a favorire un governo, anche in esilio, di unità nazionale, che riunisca tutte le anime della ribellione, pronto a subentrare al potere immediatemente dopo la caduta di Assad. Tale governo dovrà assicurare l'integrità del territorio, condizione che viene considerata essenziale per l'equilibrio regionale, e dovrà essere slegato da influenze straniere che possano compromettere l'indipendenza del paese siriano. In realtà dovrà essere un governo che guarderà più ad occidente che ad oriente, facendo guadagnare la Siria alla causa occidentale, sopratutto in chiave anti Iran. Ma questo governo dovrà anche gestire la difficile situazione interna che si verrà a creare alla caduta di Assad. L'esperienza libica ha insegnato che la presenza delle milizie incontrollate ha creato e crea tuttora, diversi problemi al nuovo governo di Tripoli, costituendo un elemento di pericolosità per lo stesso esecutivo e la stabilità del paese. In Siria questo eventualità non si dovrà verificare per evitare azioni di disturbo di infiltrati e di milizie comunque favorevoli al regime come Hezbollah. Esiste poi il concreto problema della avversione della maggioranza della popolazione contro la comunità alawita, che comprende il 10% degli abitanti della Siria, a cui appartiene la famiglia di Assad e che ha, in questi anni, assorbito la quasi totalità dei posti di potere del paese. Quello che si vuole evitare sono i massacri su base religiosa, che si potrebbero innescare alla caduta del regime, che ha sempre protetto la minoranza religiosa alawita. Appare comunque difficile che questo ipotetico governo, forzatamente costruito e tutt'altro che unito, riesca ad assolvere a questi compiti essenziali, la frammentazione delle forze ribelli in Siria è stata, fino ad ora, un punto che ha facilitato l'azione del regime, nonostante le tante diserzioni subite, infatti, più che la reale forza militare, che resta un dato oggettivo, le truppe regolari hanno avuto davanti un avversario percorso al suo interno da profonde divisioni, che ne hanno impedito l'efficacia dell'azione militare, spesso per mancanza di coordinamento organizzativo. Se questa mancanza dovesse riproporsi anche a livello politico, la Siria rischia di precipitare in una spirale di violenza tipica delle guerre civili, che sarebbe il maggiore ostacolo alla ricostruzione del paese. Su queste basi e con queste premesse si concentra quindi il lavoro degli alleati occidentali per fare si che il paese siriano possa attraversare la fase di transizione con un minimo di garanzie interne, che possano assicurare stabilità al paese e di conseguenza a tutta l'area regionale, cruciale per il mantenimento della pace mondiale.