Politica Internazionale

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giovedì 29 novembre 2012

Il cambiamento egiziano, pericoloso precedente nelle primavere arabe

La successione temporale, tra l'importante ruolo di mediazione giocato nel conflitto tra Hamas e lo stato di Israele, ed il cambiamento di atteggiamento verso le regole democratiche, assunto dal presidente egiziano Mursi, non sembra affatto casuale. Il sospetto è che la massima carica del paese delle Piramidi, abbia sfruttato un momento di grande favore da parte dell'opinione pubblica internazionale, per mettere in atto un cambiamento che non poteva non essere stato pensato precedentemente, ma che la crisi della striscia di Gaza ha soltanto accelerato nella sua realizzazione. D'altra parte la decisione di emanare il decreto tanto contestato, che rende le decisioni di Mursi inappellabili, non pare trovare motivazione alcuna, se non quella di interrompere lo sviluppo democratico iniziato con la primavera araba e culminato con le elezioni, che hanno proclamato proprio Mursi alla carica presidenziale. Quella che manca è una causa oggettiva e reale che abbia determinato la promulgazione di una legge di tale tenore, se non il compimento di un disegno tendente a riportare il paese, sostanzialmente ad uno stato di regime. Il significato della disposizione regala alla carica di presidente egiziano, poteri addirittura superiori a quelli detenuti dal deposto Mubarak ed il carattere di temporaneità, addotto da Mursi come una delle scuse usate per contrastare le proteste, non giustifica l'instaurazione di disposizioni così liberticide. Neppure la volontà proclamata di arrivare ad un dialogo nazionale tra tutte le forze politiche per giungere ad una intesa nazionale sulla Costituzione, può rappresentare un valido argomento a sostegno della via scelta, che imbocca una strada del tutto opposta a quella democratica. Il risultato è ora quello di un paese spaccato in due, con il funzionamento della giustizia paralizzato dallo sciopero della magistratura, a cui Mursi ha cercato di porre rimedio sostituendo il più alto funzionario in carica, con un uomo di sua fiducia. Così piazza Tahrir è tornata a riempirsi di dimostranti, sostanzialmente contrari alla fratellanza musulmana, il partito al governo, di cui Mursi è espressione. Lo svolgimento della vicenda, ben lontana da una conclusione, porta ad amare riflessioni sui reali sentimenti, verso la democrazia, dei partiti confessionali, come purtroppo temuto da più parti. La mancata affermazione delle formazioni laiche, rischia, che i peggiori timori, circa la reale propensione ad un sereno dibattito sulle regole della vita dello stato, da parte dei partiti di orientamento musulmano si avverino con tragica puntualità. La lotta che si sta combattendo per l'elaborazione della legge fondamentale del paese ha preso una piega dove i musulmani hanno gettato la maschera e non intendono tenere conto delle istanze delle minoranze (principalmente i laici ed i cristiani), portando avanti un progetto quasi teocratico palesemente in contrasto con il rispetto di tutte le parti in causa. Nei prossimi giorni, proprio Piazza Tahrir, luogo simbolo della lotta contro il dispotismo, sarà teatro di una manifestazione organizzata dai Fratelli Musulmani a sostegno del Presidente Mursi, sarà quello il momento cardine per capire la reale direzione che la parte al potere vorrà prendere. L'impressione è di essere di fronte ad un progetto di instaurazione della legge islamica in un paese tutt'altro che in accordo su questa via. La realtà sembra essere quella di una nazione che si avvia dal dispotismo laico di Mubarak ad un dispotismo confessionale, che, ai fini della democrazia, non muta la sostanza della pressione oppressiva sulla popolazione. Se è vero che la salita al potere dei partiti confessionali si è svolta in maniera democratica, lo svolgimento della vicenda pare attestarsi su di un esercizio di questo potere contraddistinto dall'abuso e dalla forzatura. L'atteggiamento di Mursi rivela però, la chiara paura di una affermazione di valori che possano mettere in discussione l'orientamento verso i precetti islamici tradotti da regole religiose in disposizioni civili. Questo aspetto è molto importante, perchè Mursi ha sempre professato una elaborazione e la conseguente applicazione delle leggi, slegata dagli aspetti confessionali, assicurando più volte, che la salita al potere di una formazione religiosa non era in contrasto con i principi democratici universali. Ciò non sta però ora avvenendo, non è chiaro se Mursi agisca di propria volontà compiendo un personale disegno o, più probabilmente, è in accordo con quella parte di mondo islamico, di cui è esponente, portatore di una visione ristretta alla dimensione confessionale della vita politica e sociale del paese. In ogni caso il tradimento è evidente, sia di fronte alla totalità della nazione, che attendeva un miglioramento sostanziale rispetto alla precedente condizione, sia di fronte al panorama internazionale, che pensava alla nazione egiziana come esempio per altri paesi, proprio per l'importanza storica del paese. Difficile non prevedere che le relazioni con l'occidente potranno subire un irrigidimento tutt'altro che positivo, sopratutto, pensando al ruolo egiziano in medio oriente, ma è questa, al momento l'unica speranza dei dimostranti contro il presidente egiziano: l'azione di convincimento delle cancellerie occidentali alla ripresa del percorso democratico così maldestramente abbandonato.

martedì 27 novembre 2012

L'incremento demografico delle zone povere sarà sempre più pericoloso gli equilibri mondiali

Il rapporto diffuso dall'UNICEF in occasione della giornata mondiale dell'infanzia, presenta dati preoccupanti circa l'incremento demografico generale, su quello del continente africano e su quello dell'infanzia nelle zone povere. Le previsioni dicono che nel 2025 le nascite saranno concentrate, per un terzo del totale, in Africa, dove vi sarà un dato analogo relativamente alle persone con meno di diciotto anni. Questi valori presentano un brusco cambiamento nella serie storica dei dati statistici, che contavano appena un bambino su dieci nato in Africa, su quelli nati nel mondo nel 1950. All'interno del dato di previsione, che evidenzia in maniera sostanziale i cambiamenti e le tendenze demografiche future, è compreso il fatto che i decessi dei bambini sotto i cinque anni saranno concentrati nell’Africa subsahariana. Il totale della popolazione, nel 2025, avrà un incremento di un miliardo di persone, passando dall'attuale totale di sette miliardi ad otto miliardi di abitanti, dove un miliardo sarà composto da bambini, di cui il 90% collocato nelle regioni meno sviluppate. La scomposizione dei nati da ora al 2025, valutati in due miliardi di individui, avrà la maggiore concentrazione, circa un quarto, nei 49 paesi classificati come sottosviluppati, mentre 860 milioni di persone nasceranno in nazioni già molto popolose, ma con buone prospettive di crescita come: Cina, India, Indonesia, Pakistan e Nigeria. Proprio la Nigeria dovrebbe registrare l'aumento più consistente, annoverando 31 milioni di persone sotto i 18 anni, con, però, il dato previsionale di un decesso di una persona su otto in questa fascia di età. Da qui al 2025 mancano ancora poco più di dodici anni, su questa previsione, che proviene da un ente altamente attendibile, si può ancora incidere, lavorando per cambiare dati che rischiano fortemente di compromettere equilibri mondiali molto labili. Un incremento così forte in stati poverissimi, si può contrastare con politiche demografiche, che siano tese alla riduzione della natalità, associate ad investimenti che permettano una sussistenza autonoma di partenza, che debba poi evolversi in economie di tipo più maturo. L'alternativa è fornire uomini, come merci, al mercato dell'emigrazione illegale, destinata ad assumere proporzioni di esodo biblico, di cui si sono già avuti esempi sostanziali con le recenti carestie, avvenute nella regione del Corno d'Africa. Strettamente connesso con questo fenomeno vi sarà l'aumento dell'influenza dell'estremismo islamico, che avrà facile terreno di coltura, in una situazione esplosiva, dove sarà facile addebitare, come in parte è vero, la mancanza di cibo ai paesi occidentali. Non esistono quindi, soltanto ragioni umanitarie, che dovrebbero comunque essere quelle più rilevanti, per cercare di cambiare queste previsioni, sono presenti anche ragioni di chiara opportunità politica ed economica, che richiedono una pronta risposta sia in sede sovranazionale che presso i singoli stati più ricchi. Le pesanti carestie avvenute recentemente non hanno saputo fornire risposte che andassero aldilà della pura emergenza: forniture di generi alimentari in grado di mitigare temporaneamente il bisogno immediato di cibo. Non vi è stato, viceversa, o vi è stato in maniera non incisiva perchè limitata ad alcuni progetti pilota, una azione organica di lungo periodo capace di dare il via alla soluzione definitiva del problema alimentare nelle zone più sottosviluppate. Non che questa operazione sia facile, ci si muove in una zona che non ha ricchezze naturali tali da richiamare investitori in grado di contribuire alla cronica mancanza di infrastrutture, inoltre la sicurezza è un aspetto, purtroppo molto aleatorio, per la presenza di bande criminali e gruppi estremisti, che sono in grado di ostacolare, spesso con la scusa della religione, l'intervento delle associazioni umanitarie. Occorre quindi una presenza militare capace di pacificare le zone di intervento, come atto preventivo di una eventuale azione di intervento infrastrutturale. La necessità di costruire canali di irrigazione e strade è il primo passo da compiere per potere aspirare ad una autosufficienza economica, che possa scongiurare, almeno in parte, le fosche previsioni del rapporto UNICEF. Pur in tempi di crisi economica così grave per i paesi ricchi, i loro governi devono trovare le risorse da investire affinchè la mortalità infantile, ed in generale per fame sia combattuta, nel contempo le istituzioni sovranazionali come l'ONU devono aumentare il loro impegno al di fuori dell'emergenza, proprio per evitare ulteriori emergenze, altrimenti la polarizzazione nord-sud del pianeta è destinata ad aggravarsi con risultati allarmanti sia per la geopolitica, che per la sicurezza e per l'economia.

lunedì 26 novembre 2012

USA: Partito Repubblicano le ragioni della sconfitta e la necessità del cambio di atteggiamento

Negli USA, il dopo elezioni ha portato nel Partito Repubblicano un momento di forte contrasto, dettato dal pessimo risultato elettorale, che oltre a non raggiungere la vittoria nella corsa per la presidenza, ha anche subito un calo di seggi al Senato. La situazione attuale è quella di un partito spaccato in due, con, da una parte, il vecchio gruppo dirigente ed i suoi seguaci e, dall'altra gli esponenti del Tea Party, che rappresentano la nuova tendenza all'interno del movimento conservatore statunitense. Pur avendo diversi punti in comune, le due parti sono, nel contempo, molto distanti sulla concezione intrinseca con cui praticare l'azione politica. Il gruppo dirigente è composto da personale più navigato ed esperto, che, pur restando nei binari del conservatorismo, agisce in modo più pragmatico per il raggiungimento dell'obiettivo. Tuttavia questa caratteristica, nelle ultime elezioni, è stata frustrata da un candidato inadatto, frutto di una scelta basata su troppi compromessi, che ha puntato su di una persona spesso in contraddizione anche con se stessa. I continui errori, compiuti a ripetizione, hanno vanificato le possibilità di vittoria esistenti, fondate sulla delusione dell'azione in campo economico di Obama. L'avere snobbato il voto femminile e quello delle minoranze etniche ha denunciato i limiti di una campagna impostata sulla base elettorale certa, senza cercare il consenso in altre aree attraverso l'elaborazione di programmi, che pur restando nel solco conservatore, sapessero richiamare anche un tipo di elettorato nuovo, oramai necessario per arrivare alla vittoria. Non pare però possibile che la scelta di Romney sia stata presa con tanta leggerezza, ben sapendo i limiti del candidato a cui si affidava la competizione. Quello che emerge è un partito ingessato e privo di linfa vitale e sopratutto arroccato su posizioni ormai troppo lontane dalla base. Del resto è questa, sostanzialmente, l'accusa che proviene dal Tea Party: un allontanamento dalla base, incapace di essere coinvolta anche a livello emotivo, dal programma del candidato presidente. Se il Tea Party ha indubbiamente ragione, vi è però da dire, che la parte direttiva del partito accusa il movimento di avere preso una strada troppo di destra, spesso coincidente soltanto con il comune sentire dell'America più profonda, legata alle questioni religiose e troppo lontano dagli effettivi problemi che uno stato multietnico come gli USA deve quotidianamente affrontare. Ma se questo è vero occorre dire che Romney non ha certo incarnato i valori di una destra moderna, capace di confrontarsi con elasticità alle sfide attuali; semmai la percezione che il candidato repubblicano ha trasmesso è stata di essere troppo elitaria, il che non può certo piacere ai seguaci del Tea Party. L'errore di tutto il movimento è stato quindi di scendere troppo a compromessi con due visioni che erano quasi opposte e non sapere trovare una sintesi capace di produrre un candidato che sapesse ridurre le distanze anzichè aumentarle. La lezione non è da poco, senza sapere compattare fino ad unire queste due anime del partito, i repubblicani hanno poche speranze di incidere nell'immediato sulla politica delgi Stati Uniti. Il futuro perà può dare già delle opportunità per operare dei cambiamenti strategici in attesa di tempi migliori. Nello scorso mandato l'ostruzionismo praticato dai repubblicani in sede istituzionale è stato, spesso, la causa di veri e propri blocchi all'attività dell'apparato statale, una strategia controproducente, che non è irragionevole individuare come una delle cause della sconfitta elettorale. Se non vi sarà un cambio di rotta sarà difficile poi presentarsi come paladini degli interessi nazionali, viceversa un atteggiamento più duttile, che possa dimostrare la partecipazione a scelte che possano favorire azioni tese a favorire le riforme, potrà presentare il Partito repubblicano come una forza più responsabile, non ferma ad inutili posizioni di principio. I prossimi appuntamenti riguarderanno la riforma fiscale e la legge sull'immigrazione: si tratta di due prove cruciali, non solo per la maggioranza, ma, in un'ottica di lungo periodo, ancora di più per la minoranza, che è chiamata ad esercitare un ruolo più attivo del semplice rifiuto. Una partecipazione attiva alle decisioni, impostata su di un dialogo differente potrà generare una nuova immagine del partito, maggiormente disposta a collaborare con un governo di segno opposto, portando alla discussione la propria esperienza e le proprie esigenze, esercitando un ruolo costruttivo anche dalla parte dell'opposizione.

venerdì 23 novembre 2012

La Cina nuovo protagonista nel Medio Oriente

Una delle novità più importanti emerse dalla fine dei recenti combattimenti tra Israele ed Hamas, avvenuti nella striscia di Gaza, è il nuovo ruolo che la Cina sta cercando di ritagliarsi nelle questioni medio orientali. Pechino è stata sollecitata dagli arabi, in particolare dal piccolo Partito Comunista Palestinese, ad intervenire con un ruolo di mediazione per la soluzione del conflitto e lo ha fatto, sbilanciandosi, dalla parte dei palestinesi. Questo sostegno implica un dialogo privilegiato con il movimento che ha il maggior peso politico nella striscia di Gaza. Per Hamas, del resto, avere un sostegno direttamente all'interno del Consiglio di sicurezza, può rappresentare un bilanciamento allo stretto rapporto di cui gode Israele con gli Stati Uniti. Se ciò si verificasse, i rapporti di forza all'ONU potrebbero cambiare radicalmente a danno di Tel Aviv, che vedrebbe compromessa la sua libertà di azione, che ha ottenuto ben poche condanne, in funzione di possibili future censure, come ad esempio sul tema degli insediamenti dei coloni. Il cambiamento di Pechino, circa il suo consueto approccio alla poltica estera, che ha finora previsto la non ingerenza negli affari interni degli stati come regola di comportamento, potrebbe significare una svolta epocale nel panorama internazionale ed il primo segno tangibile della volontà di esercitare attivamente un ruolo da grande potenza. La questione israelo palestinese, costituirebbe una buona occasione per cimentarsi in una contesa da troppi anni irrisolta, con un ruolo da protagonista. La posizione ufficiale cinese è quella di sostenere l'efficacia della tregua, in una maniera non neutrale; infatti Pechino, pur esortando entrambe le parti al cessare il fuoco, ha messo particolare enfasi per fermare l'azione israeliana, ritenuta troppo violenta. Vi è anche un altro elemento che fa pendere la preferenza cinese verso i palestinesi ed è il pieno appoggio alla domanda di adesione dello stato della Palestina come membro osservatore presso l'ONU. Questo cambiamento di atteggiamento della Cina, forse già frutto del nuovo corso uscito dal recente congresso, non potrà che determinare contrasti con l'amministrazione americana, principale alleato di Israele e unica potenza estera ad agire nell'area. Delle possibili e probabili reazioni americane non possono non essere consci i dirigenti cinesi, la mossa di Pechino non può essere casuale, se la Cina ha messo in conto complicazioni diplomatiche, deve, per forza, avere valutato di trarre sviluppi positivi. Le valutazioni cinesi possono essere sia della già citata volontà di perseguire un ruolo di grande potenza, sia di avere solidi argomenti per i futuri rapporti che intende allacciare con il mondo arabo. Le questioni economiche sono molto spesso alla base delle azioni cinesi e la volontà di stringere sempre nuovi accordi con i maggiori produttori di petrolio potrebbero avere causato la virata verso la causa palestinese, da sempre al centro dei sentimenti dei paesi arabi. Tuttavia giudicare soltanto sulla base degli interessi cinesi i possibili sviluppi della nuova situazione che si sta andando a creare può essere riduttivo. La presenza di un soggetto così importante, sia nell'area, che nella questione a livello politico, potrebbe favorire un dialogo più equilibrato, che potrebbe convenire anche all'amministrazione americana non proprio in sintonia con il governo di Tel Aviv. Quello che potrebbe accadere con la presenza cinese potrebbe favorire un processo di pacificazione più duraturo che potrebbe consentire di mettere lel basi alla costruzione della nazione della Palestina, finalmente come stato indipendente.

giovedì 22 novembre 2012

Dopo il conflitto. Riflessioni sull'accordo tra Israele ed Hamas

Raggiunta la tregua i due schieramenti si proclamano entrambi vincitori, e, lasciando da parte il tragico bilancio dei morti, si può ritenere che ciò contenga elementi di verità, anche se con distinzioni molto importanti. Israele ha mostrato la propria forza militare, non solo funzionale all'occasione specifica, ma anche come monito futuro a chi vorrà attentare al proprio territorio, sia in senso stretto, che in senso più ampio, cosa che vale sopratutto per l'Iran. Malgrado le vittime palestinesi provocate, Israele può uscire dalla vicenda con un atteggiamento gradito alle potenze occidentali, in particolar modo agli Stati Uniti, per non avere voluto strafare con una operazione di terra, più volte minacciata, finendo per dimostrare senso di responsabilità ed ascolto delle indicazioni dell'occidente. Nel contempo, però la trattativa con Hamas, ottiene il risultato politico più importante per Tel Aviv: il discredito dell'ANP e di Abu Mazen, lasciati ai margini della vicenda e mai entrati in gioco. L'avversione di Israele verso Abu Mazen è cresciuta in maniera esponenziale dopo che il Presidente dell'ANP ha portato avanti il suo progetto di riconoscimento della Palestina come stato osservatore all'ONU, elemento di profondo disturbo, a livello internazionale, per Tel Aviv. Ora l'esclusione, praticamente totale, dai negoziati per la pace, pongono l'ANP in una posizione sfavorevole come portavoce di tutti i palestinesi. Tuttavia questo obiettivo centrato dagli israeliani, rischia di diventare un boomerang per Tel Aviv, in quanto l'ANP è sempre stata la parte più moderata dei palestinesi con cui rapportarsi. La crescita di importanza di Hamas sul piano diplomatico, può essere parte di un disegno di Israele più complesso, di cui la parte politica che governa la striscia di Gaza è del tutto inconsapevole. Infatti l'accresciuta rilevanza di Hamas, motivo di vanto per il movimento, rischia di privilegiare, all'interno del movimento per la liberazione della Palestina, la parte meno affidabile per il percorso del processo di pace e della eventuale costruzione di uno stato indipendente, perchè soggetta ad idee più fondamentaliste e meno accomodanti. Come dire, che, se sorgessero complicazioni, Israele potrebbe accomunare anche la Cisgiordania ad eventuali azioni contro il movimento palestinese. In effetti le vicende precedenti allo scoppio del conflitto di Gaza, preannunciavano proprio questo: il disconoscimento dell'ANP da parte del governo di Israele come interlocutore privilegiato nel processo di pace. Tel Aviv, pratica una strategia prevedibile, che garantisce sempre buoni risultati e che punt alle continue divisioni tra le due anime principali del movimento della Palestina. E' una tattica che in questo momento premette agli israeliani di guadagnare tempo su di un argomento per loro molto importante: il destino degli insediamenti, che violano gli accordi di Oslo. Nella sua fame di territorio e sotto elezioni, il governo israeliano sa di essere in difetto di fronte agli accordi internazionali e punta a screditare la controparte proprio di fronte alla platea della nazioni come interlocutore non più affidabile. Ma è una tattica che non può portare lontano, sicuramente nel breve periodo avrà ricadute positive, ma alla lunga sarà difficile che Hamas possa rimpiazzare l'ANP nel suo ruolo guida delle trattative, anche perchè Abu Mazen è comunque preferito dagli USA. Hamas, di contro, si gode il suo momento di popolarità, spacciando una sconfitta militare completa, come una prova di resistenza contro la forza di Israele. Ben più importante è però la rilevanza internazionale che il movimento islamico ha saputo accreditarsi grazie all'intervento diplomatico di Egitto, Turchia e Qatar. Essere diventati interlocutori di governi nazionali, nell'occasione allo stesso livello, ha accresciuto la sua importanza sul piano diplomatico, facendo diventare Hamas pienamente un soggetto internazionale. Si tratta di una situazione nuova per Hamas, che potrebbe costituire anche un mezzo per ammorbidirne le posizioni estreme, grazie all'uscita dal proprio isolamento, favorita dalla continuazione dei rapporti appena instaurati. Difficile prevedere gli sviluppi su questo piano, per Hamas si tratta di una situazione di assoluta novità, dopo anni di rapporti quasi esclusivi con movimenti clandestini o terroristici, è indubbio che la sua classe dirigente si trova impreparata alla nuova condizione, ma se l'occasione sarà sfruttata a dovere e con responsabilità potrebbe costituire un elemento positivo all'interno dell'intera vicenda. Ma alla fine di queste riflessioni restano i dubbi di un accordo che non convince, se Hamas si è fatta carico della responsabilità di ciò che potrebbe partire dalla striscia di Gaza contro Israele, cosa potà accadere se la minaccia sarà portata avanti, sfuggendo al controllo di Hamas, da gruppi salafiti o di Al Qaeda? E se l'Iran dovesse attuare, a sua volta una tattica preventiva contro Israele aggredendolo? Oppure, al contrario, se l'esercito di Tel Aviv uccide, anche per sbaglio, un militante sospettato di compiere un attentato? Sono solo alcuni dei casi che potrebbero verificarsi e rimettere in discussione tutto, con USA ed Egitto in continua trepidazione per il possibile accadere degli eventi.

mercoledì 21 novembre 2012

La regione del Mar Cinese meridionale futuro fulcro della politica estera mondiale

Obama ha concluso il suo viaggio nel sud est asiatico, dove è stato impegnato ad un rilancio strategico della diplomazia americana nella regione. La chiave di volta della politica estera americana nei confronti dei paesi della zona è stata quella di porsi come una nazione che appartiene al Pacifico e che opera in questo mare, ritenendolo cruciale, sia per i propri interessi, che, in una visione più ampia, nel futuro, dove sarà una parte del globo che avrà una grande espansione è sarà sempre più centrale nei complessi equilibri geopolitici ed economici. Obama ha da tempo individuato queste peculiarità, sopratutto nella zona meta della sua visita. I paesi toccati dal suo tour diplomatico, potranno recitare, grazie alle proprie caratteristiche, ruoli di primo piano per le loro potenzialità, sia dal punto di vista della forza lavoro, che dalla loro posizione geografica. Si tratta di popoli, che pur affetti ancora da condizioni di sviluppo precario, si stanno affacciando velocemente alla ribalta del mondo economico, grazie ad una industrializzazione sempre più spinta; sono, cioè, importanti sotto il punto di vista di produttori che di consumatori. Gli USA hanno tutto l'interesse ad allacciare rapporti sempre più stretti con questi paesi, in un quadro, però, di democrazia affermata, come è stato espressamente chiesto ai governanti della Birmania, che pur avendo compiuto sostanziosi passi avanti, sono stati incoraggiati a proseguire nello sviluppo delle riforme. Obama ha riconosciuto che nel passato la politica americana è stata invasiva, attraverso operazioni militari, che non rientrano più nel nuovo corso degli Stati Uniti, indirizzati ad una collaborazione paritaria per la costruzione di una pace durevole e prospera dal punto di vista economico, per entrambe le parti. Sulla regione è in corso una vera e propria corsa tra Cina ed USA, per avere maggiore influenza sui governi dei paesi che la compongono, per Pechino è fondamentale diventare la prima potenza operante sul territorio per sfruttare in modo completo le distanze relativamente brevi che la separano dagli altri paesi, per Washington è importante non permettere una completa area d'influenza cinese in una zona così importante. I recenti sviluppi inquadrano comunque molto bene quale sarà lo scenario internazionale che sarà alla ribalta della politica estera mondiale: sulla regione del Mar Cinese meridionale i riflettori si sono appena accesi.

martedì 20 novembre 2012

Cina, Giappone e Corea del Sud si incontrano per aprire una zona di libero scambio

Malgrado i forti contrasti, peraltro finora più scenografici che altro, sulla territorialità di alcune isole disabitate, Cina, Giappone e Corea del Sud, daranno vita ad un vertice che mette al centro la creazione di una area di libero mercato, che promette di diventare un volano eccezionale, potendo diventare, potenzialmente, la zona di libero scambio più estesa nel mondo. Per una volta, quindi, il ruolo dell'economia è più forte di quello militare e diventa elemento concreto di pacificazione internazionale. Infatti nella conferenza di Phnom Penh, dove i membri dei tre motori economici asiatici si incontreranno, le dispute territoriali passeranno senz'altro in secondo piano e non è detto, che se i colloqui saranno fruttuosi, non si possa arrivare ad un accordo condiviso per una soluzione definitiva sulle isole contese, che possa contentare tutte le parti. Già il fatto che queste tensioni non impediscano il vertice, rappresenta un motivo di speranza affinchè la questione non degeneri in una evoluzione pericolosa, ma si indirizzi verso una conclusione ragionevole. L'importanza che riveste il vertice, al quale, è bene ricordarlo, partecipano la seconda e la terza economia mondiale, per i riflessi sull'economia è quindi largamente superiore alle questioni che riguardano le isole contese; attualmente il commercio tra i tre paesi ammonterebbe a circa 515 miliardi di dollari, che salirebbero inevitabilmente se si aprisse la zona di libero scambio tra le tre nazioni. L'intenzione è quella di sviluppare la cooperazione dell'Asia Orientale per provocare la crescita della regione, sopratutto puntando all'incremento dei mercati interni, che sono ora sotto utilizzati, specialmente quello cinese; tale crescita potrebbe compensare la minore domanda occidentale, se permanesse lo stato di crisi attuale e diventerebbe un elemento propulsivo determinante una volta superata la depressione economica dei paesi ricchi. In effetti quando tornerà la fase espansiva nell'occidente sommata con la spinta in un mercato di libero scambio nell'Asia orientale, potrebbe fare schizzare gli indici di crescita verso l'alto, con il ritorno della doppia cifra in Cina. Ma quello che si tratta tra Cina, Corea del Sud e Giappone, potrebbe essere soltanto un punto di partenza per una evoluzione ben più grande, capace di coinvolgere fino a sedici paesi: le dieci nazioni dell'Associazione del Sud-Est dell'Asia orientale (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam), più India, Australia e Nuova Zelanda. Un mercato con una potenzialità enorme, con 23.000 miliardi di PIL, un terzo del prodotto interno lordo mondiale, con una platea di consumatori di ben 3,5 miliardi di persone. Di fronte a questa eventualità si capisce bene perchè, nonostante i venti di guerra del medio oriente, il primo viaggio del rieletto Presidente USA, Barack Obama, nei paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, non solo non sia stato rinviato, ma abbia rivestito una enfasi tutta particolare, sull'importanza degli incontri. Quella che si annuncia è una guerra non militare ma combattuta con armi di fine persuasione, fatta di aiuti ed accordi sempre più stringenti, per accaparrarsi il mercato che attualmente rappresenta le maggiori potenzialità per un'economia che deve uscire dalle secche della crisi.