Politica Internazionale

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martedì 8 gennaio 2013

Mali: i radicali islamici tentano l'offensiva

La situazione del Mali sta subendo un peggioramento a causa dell'avanzata degli estremisti islamici che hanno preso il nord del paese. Il tentativo di sfondamento della immaginaria linea di demarcazione dove si sono attestate le forze antagoniste è stata ripristinata per la risposta delle truppe governative di stanza a Mopti, ma ciò non è bastato all'esercito regolare per guadagnare posizioni, giacchè i radicali islamici sono riusciti a mantenere le proprie posizioni. L'azione degli estremisti era iniziata fin dai giorni scorsi per attaccare Mopti, che costituisce l'ultimo baluardo delle forze dell'esercito regolare, le colonne sono formate dai combattenti salafiti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), il Movimento per l'Unità di Jihad in Africa occidentale (Muyao) e Ansar Dine (Difensori della Fede), che si contraddistinguono per la rigorosa applicazione della legge coranica. Malgrado il ripristino delle posizioni precedenti allo scontro la situazione resta carica di tensione e non sono da escludersi altri combattimenti nei prossimi giorni. La ripresa degli scontri è da ascrivere, principalmente, allo stallo delle trattative in corso ad Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, tra il governo del Mali, Ansar Dine ed i ribelli Tuareg del Movimento di Liberazione Nazionale Azawad (MNLA), a causa del mancato accordo sull'applicazione della legge coranica, la sharia, in tutta la nazione maliana, considerato prerequisito fondamentale, dai radicali islamici, per continuare il negoziato, ma condizione sempre rifiutata dal governo di Bamako. Nel Nord del Mali, territorio sotto il controllo degli estremisti islamici, la situazione sociale è profondamente deteriorata proprio per l'applicazione della sharia, applicata in modo violento ed integralista; sono già diverse le vittime uccise per futili motivi, così come le mutilazioni praticate soltanto a causa di semplici sospetti ed in generale l'aumento delle punizioni corporali a riguardato una serie di infrazioni diventate tali solo grazie ad una lettura distorta del Corano. Anche i monumenti ed i documenti del paese hanno subito gravi danni per questi motivi. Tutto ciò malgrado una risoluzione del 20 dicembre del Consiglio di Sicurezza, che, finalmente autorizzava l'intervento armato internazionale per debellare i gruppi integralisti; ma la risoluzione risulta viziata nella forma dall'assenza di una scadenza temporale, che vanifica una delle poche decisioni che potrebbero avere effetti concreti da parte del Consiglio di Sicurezza. Romano Prodi, l'ex premier italiano, che ricopre la carica di inviato speciale per le Nazioni Unite per il Sahel, prevede che le operazioni militari non potranno iniziare prima di settembre per le croniche carenze sia economiche che militari dell'esercito del Mali.

Obama incontra Karzai

Nell'agenda di Obama l'Afghanistan torna da protagonista con la visita del premier Karzai, che si recherà a Washington il prossimo venerdì. I piani del ritiro delle truppe USA, previsto per la fine del 2014 non sono cambiati, ma alla luce della grande instabilità del paese occorre pianificare la gestione della transizione in ogni suo punto. In particolare le due delegazioni affronteranno il futuro di una collaborazione che sia sostenibile politicamente, ma sopratutto economicamente per gli USA e che possa garantire a Kabul il presidio di almeno gran parte del territorio. Oggettivamente, però, questa possibilità pare di difficile attuazione: già con la presenza dell'esercito NATO esistono numerose zone, specialmente le valli impervie al confine con il Pakistan, dove l'autorità del governo afghano non è affatto vigente. Il pericolo concreto per Kabul è che queste porzioni di territorio, senza il presidio dei militari americani, si estendano fino a mettere in concreto pericolo il governo afghano in carica. Insieme a questo rischio vi è la potenziale ripresa dell'estremismo islamico, con il suo contenuto di odio verso l'occidente. Quello che più spaventa Washington è la possibilità della creazione di nuove basi da cui fare ripartire l'azione terroristica. Attorno a queste visioni, reciproche e praticamente simmetriche, verteranno i colloqui per assicurare la sicurezza del passaggio di potere anche attraverso il rafforzamento delle forze armate dello stato afghano ed i negoziati con i talebani, mai decollati ma neppure conclusi definitivamente. Karzai ed il governo afghano si è più volte detto contrario al ritiro delle forze USA, ben conscio di un possibile deterioramento delle condizioni di sicurezza dello stato, ma Obama ha rivolto verso ancora più verso oriente il centro della sua azione militare; ciò ha decretato la necessità di uno spostamento di risorse, anche in ragione del continuo stallo nel paese afghano, dove la situazione è stata giudicata, sebbene sempre problematica, di difficile risoluzione definitiva. Tuttavia, proprio in ragione dei pericoli di una nuova offensiva dei talebani o di Al Qaeda, le due parti potrebbero concordare il numero dei soldati USA ancora presenti sul territorio afghano. Questo provvedimento potrebbe essere inquadrato, appunto, in una misura di sostegno dell'esercito afghano, giudicato ancora non del tutto adatto a presidiare il proprio territorio, ma occorre concordare tra i due stati in maniera esplicita e definita sia il ruolo che lo status giuridico di questi militari americani presenti sul suolo di Kabul. Verosimilmente il numero dei soldati americani potrà essere compreso dai 3.000 ai 9.000 uomini, tale entità, se paragonata agli effettivi attualmente presenti, circa 100.000, fornisce la misura di quello che potrà essere l'impegno statunitense: un compito di affiancamento ed istruzione, forse anche di presidio attraverso l'impiego di mezzi elettronici, ma certo non un impegno equivalente a quello attuale. Dopo il 2014 per l'Afghanistan si prospetta una situazione di minore sicurezza, soltanto in parte mitigata dai possibili sviluppi che le relazioni con gli USA riusciranno ad evolvere.

lunedì 7 gennaio 2013

USA: un ex repubblicano sarà il nuovo Segretario della Difesa

Nella nomina a Segretario della Difesa degli Stati Uniti, da parte di Obama, nella persona dell'ex senatore del Nebraska Chuck Hagel, si riassumono, in maniera interessante, i punti controversi della fase attuale della politica americana, sia interna che estera. Per quanto riguarda il versante interno la nomina di un uomo, che pur conservando sempre la propria indipendenza, è appartenuto al Partito repubblicano, non può che significare il tentativo di trovare terreni di intesa per l'apertura di una via nuovo per il dialogo con il partito avversario di quello del Presidente in carica. La necessità di trovare soluzioni condivise che possano permettere alla nazione statunitense di uscire da una pericolosa impasse burocratica, sul versante dell'economia, non potrà che essere apprezzata dall'opposizione americana con la nomina di un uomo a lei molto vicino, in una posizione di forte prestigio internazionale e di fondamentale importanza per lo scenario politico del paese. Tuttavia, sul fronte della politica internazionale, le posizioni del nuovo Segretario della Difesa non sono propriamente ortodosse per il Partito Repubblicano. Hagel, secondo fonti repubblicane molto vicine alla comunità ebraica USA, potrebbe essere il Segretario alla Difesa più antagonista per Israele, inoltre vi sono altri aspetti da cui si può desumere l'indirizzo che assumerà la Difesa USA: in passato, infatti, l'ex senatore aveva richiesto tagli al bilancio militare americano e fu critico con l'invasione dell'Iraq. Il nuovo Segretario sembra, quindi, essere in linea con gli intendimenti del Presidente Obama, che forte del suo successo elettorale, vuole reimpostare il rapporto con Tel Aviv, per riportarlo entro confini ben delimitati, che mettano al centro il rispetto del territorio palestinese della Cisgiordania, con il fine ultimo della creazione dei due stati sovrani; del resto la posizione dell'ex senatore del Nebraska è che Israele deve trattare con Hamas, in quanto soggetto legittimato dal voto elettorale palestinese, una posizione singolare all'interno degli stessi democratici. Hagel, inoltre, non è un militarista ma propende per soluzioni più ragionate, l'identikit ideale per gestire la crisi iraniana, che pur vivendo un periodo lontano dai riflettori, è ben lontana da una risoluzione; significativo, in questo senso, che il suo voto sul tema delle sanzioni contro Teheran è stato contrario. Anche per questo motivo il nuovo Segretario alla Difesa, dovrebbe essere accolto dagli iraniani in maniera meno dura, in vista di possibili contatti diplomatici per la questione nucleare. L'unica perplessità potrebbe essere la grande indipendenza sia di giudizio che di azione dimostrata da Hagel nella sua vita politica: in caso di dissidio con il Presidente, anche per Obama potrebbe essere difficoltoso gestirlo.

venerdì 4 gennaio 2013

Hollande prova un nuovo modello economico per la Francia e per l'Europa

Schiacciato dal peso dei dati economici e dall'abbassamento repentino degli indici di popolarità e con la concreta esigenza di ridare fiato al paese, il Presidente francese François Hollande, prova a rilanciare la sua azione di governo con l'elaborazione di un nuovo modello francese, che serva anche a fare da battistrada per una Unione Europea più unita e coesa di fronte ai problemi dell'economia. Il modello sarà imperniato su sviluppo, ecologia e popolazione e dovrà creare i presupposti per risolvere la disoccupazione, specialmente quella giovanile, che affligge il paese. A sostegno di queste politiche dovrà essere trovata una sintesi efficace nella strategia degli investimenti pubblici e privati capace di creare posti di lavoro a tempo indeterminato per interrompere la precarietà, fenomeno endemico di questa fase storica caratterizzata dall'incertezza derivante dalla crisi. Il modello che verrà a crearsi dovrà essere alla base della risoluzione dei problemi dell'economia ben oltre i confini francesi, ma dovrà rappresentare un possibile esempio anche per l'intera Europa, dove la tanto perseguita politica di crescita dovrà avvenire senza lo stravolgimento delle regole sociali, cosa, peraltro, in parte già abbondantemente avvenuta. Per Hollande il binomio Francia-Europa è fondamentale, il Presidente francese è un convinto europeista, ma si pone come alternativa alla Germania della signora Merkel per una futura leadership, più favorevole a politiche espansive e che sappia guardare, sempre entro certi limiti, meno favorevolmente all'eccessivo rigore fin qui imposto da Berlino. Del resto sono questi temi, che in campagna elettorale lo hanno contrapposto a Sarkozy, che gli hanno permesso di arrivare alla carica più alta dell'Eliseo. Il richiamo ai valori tradizionali della repubblica francese, quali: libertà, uguaglianza, fraternità, solidarietà e giustizia, cui fare riferimento nell'estensione del nuovo modello in costruzione, non pare un esercizio retorico ma un ribadire i punti fermi dai quali ripartire. Tuttavia per una affermazione continentale, senza dare per scontata la riuscita del programma all'interno dei confini nazionali, Hollande dovrà trovare delle sponde nei maggiori governi europei. Lasciando perdere la Gran Bretagna, che sta praticando una politica ostruzionistica nei confronti dell'Europa e che ha agito scorrettamente proprio nei confronti del governo francese in carica, promettendo grande accoglienza per i contribuenti ricchi in fuga da Parigi, saranno decisivi i risultati elettorali in Italia e Germania nelle prossime consultazioni politiche. Il risultato di Berlino è obiettivamente il più importante per l'intera Europa: se si dovesse affermare una nuova linea, opposta a quella della cancelliera in carica, che potesse essere meno rigida, l'azione di Hollande troverebbe una maggiore facilità di applicazione, viceversa una conferma della Merkel acuirebbe le differenze con Parigi, con pesanti ripercussioni sulla politica comunitaria. In questo senso una affermazione del centro sinistra in Italia, potrebbe aiutare la Francia ad operare un bilanciamento dell'azione tedesca. Ma i pronostici sono ancora troppo difficoltosi, la legge elettorale in vigore in Italia non permette molte speculazioni e finchè lo scrutinio non sarà completato sarà ben difficile avere delle certezze. Anche sul fronte tedesco, però vi è profonda incertezza la scadenza elettorale prevista per autunno lascia aperte ancora tutte le possibilità, malgrado nelle ultime tornate i favori della Merkel siano stati in calo, la paura che una nuova ondata di debito potenziale si abbatta sull'Europa a causa di una attenuazione del rigore, potrebbe favorire in extremis l'attuale cancelliera. Nel frattempo, però Hollande non può aspettare gli eventi, la necessità di agire per risollevare un paese in difficoltà metterà alla prova il modello che dovrebbe ridare respiro alla Francia. Se ci riuscirà sarà uno spot elettorale enorme per i movimenti ed i partiti affini alla sinistra francese che parteciperanno alle elezioni negli altri paesi europei.

La contesa delle isole nel mondo, elemento di potenziale peggioramento delle relazioni internazionali

Insieme alle dispute dei mari orientali asiatici, che riguardano piccoli gruppi di isole contese da potenze più o meno grandi, come Cina, Giappone e Corea del Sud, in questi giorni torna alla ribalta la questione delle isole Falkland o Malvinas, grazie ad una lettera inviata dalla Presidentessa argentina, Kirchner, al premier britannico Cameron, in cui se ne richiede la restituzione a Buenos Aires, in ragione della risoluzione ONU del 1960, che invitava le nazioni membro a cessare il colonialismo. Secondo l'Argentina le isole le furono strappate con la forza proprio con un atto tipico del colonialismo ottocentesco, cui non è mai stato messo riparo e che pregiudicato la continuità e l'integrità del paese sud americano. In verità un referendum è previsto a Marzo tra gli abitanti delle isole ed il suo esito appare scontato in favore della Gran Bretagna, che, proprio facendo leva su questo risultato atteso, rifiuta qualsiasi negoziato senza l'avvallo dei residenti. Il precedente degli anni ottanta dello scorso secolo, rappresenta però, un pericoloso antefatto: la giunta militare argentina, nel tentativo di distogliere l'attenzione dai problemi interni del paese, invase le isole con una forza militare che diede origine alla risposta inglese, dando il via ad un conflitto che causò la morte di 255 militari britannici e 649 argentini e si concluse con la vittoria di Londra ed aprì la strada alla caduta del regime insediatosi a Buenos Aires. Le analogie con la situazione attuale sono evidenti: il governo argentino in carica è alle prese con problemi interni, principalmente di natura economica, ma che riguardano anche la corruzione della classe al potere, sui quali tenta di sviare l'attenzione seguendo uno schema classico degli esecutivi in difficoltà, che puntano a temi di politica estera per creare temi di attenzione, spesso sovrastimati, in grado di distogliere l'attenzione e la concentrazione dell'opinione pubblica da problematiche più pressanti, sulle quali è necessaria una maggiore libertà di azione lontano dai riflettori della stampa e dei media. Ma a queste motivazioni se ne aggiungono anche altre di ordine economico, non è un caso che il risveglio delle rivendicazione nazionalistica sia avvenuta in coincidenza con la volontà britannica di effetuare perforazioni nel mare intorno alle isole per la ricerca del petrolio. Peraltro le Falkland o Malvinas non sono l'unico territorio conteso tra i due stati: esiste una ampia porzione del territorio antartico, che recentemente è stata denominata "Queen Elizabeth land" da Londra e che è da tempo rivendicata da Buenos Aires, anche in questo caso i ricchi giacimenti di materie prime, sono senz'altro all'origine della contesa. Come si evince dalla successione di questi fatti, esistono segnali preoccupanti che indicano che gli equilibri presistenti in tante parti del globo, spesso intorno ad isole o arcipelaghi poco più che disabitati e spesso posti in posizione defilata, sono alterati da nuove rivendicazioni generate da necessità politiche interne, è appunto il caso argentino, ma anche quello del Giappone nella contesa con la Cina, o potenzialità economiche fino ad ora non solo non sfruttate ma, in certi casi, neppure prese in considerazione, dove l'elemento energetico è spesso preponderante o almeno in concorso con l'elemento strategico di natura militare o mercantile e, non ultima, anche la risorsa ittica concorre ad essere una ragione del contendere. Questo trend delle relazioni internazionali è stato finora troppo sottovalutato, ma merita una attenzione molto rilevante ma perchè potenzialmente rappresenta un fattore di rischio molto alto nella dialettica tra gli stati, con oggettive possibilità di degenerare in qualcosa di più grave che accuse espresse nelle note ufficiali dei governi. I rischi di conflitti marini, con evidenti ripercussioni sui commerci e la produzione e quindi sui costi di produzione, devono allertare tutte le diplomazie mondiali affinchè venga trovata una strada risolutiva univoca, che tracci una soluzione generale preventiva. Il silenzio, veramente assordante, delle organizzazioni internazionali e sopratutto dell'ONU, che è assente nella sua funzione essenziale di organismo sovranazionale supremo, perchè asservito a logiche tutt'altro che internazionali, non può che suscitare viva preoccupazione. Non sono soltanto le grandi potenze che si devono attivare nell'ambito generale dell'argomento, ma anche le medie potenze possono adoperarsi per una azione di convincimento e sopratutto di regolamentazione, che sappia creare condizioni universali cui attenersi. La prevenzione di qualsiasi focolaio di contesa diventa essenziale in una economia, principalmente, ma anche in una politica internazionale, sempre più globalizzate, dove la riduzione della potenzialità conflittuale è necessaria ad evitare quelle ripercussioni meccaniche sugli indici finanziari, capaci di creare situazioni di crisi oggettive. In conclusione non si può che auspicare l'apertura di una conferenza internazionale che possa gestire anticipatamente queste questioni, impedendone il loro potenziale sviluppo negativo.

giovedì 3 gennaio 2013

Gli USA sempre sotto la pressione della crisi

L'applicazione della tassa sui redditi alti, approvata negli USA, segna concretamente l'inizio della fine del liberalismo, che ha contraddistinto i rapporti sociali degli ultimi vent'anni americani. Obama è riuscito finalmente, complice la grave situazione del bilancio nazionale, a fare approvare una misura che segna il cambiamento del paradigma che affermava come fondamentale per la crescita economica, la maggiore facoltà di spesa dei ceti più abbienti, a discapito dei ceti medi e bassi. La legge rappresenta un principio fondamentale che va verso una maggiore equità e riconosce il fallimento del sistema liberista, che tanti danni ha provocato grazie a speculazioni incontrollate, che sono state ripianate con i soldi pubblici. Anche le borse hanno accolto positivamente l'introduzione delle tasse per i redditi più alti, andando simbolicamente contro ogni consuetudine economica classica, che vedeva sempre bocciato dagli indici borsistici ogni provvedimento contenente un innalzamento della tassazione. Pare così, che gli stessi mercati si siano resi conto della necessità di una redistribuzione del reddito complessivo, grazie alla quale l'economia possa ripartire. Tuttavia, malgrado questi elementi positivi, appare chiaro da subito che la manovra non sarà sufficiente per risolvere i problemi di fondo del deficit americano, che risiedono, fondamentalmente, in forti squilibri strutturali dell'economia USA. La crescita prevista del debito pubblico americano in dieci anni dovrebbe essere di 4.000 milioni di dollari, nello stesso periodo la norma introdotta, che, è bene ricordarlo, aumenta la pressione fiscale soltanto per i redditi superiori a 400.000 dollari, porterà nelle casse americane appena 600.000 milioni di dollari in più, ed anche se fosse stata approvata la soglia proposta da Obama per aumentare la tassazione, 250.000 dollari, il gettito entrante sarebbe stato di 800.000 milioni di dollari. Come si vede dalla fredda analisi dei numeri, che va oltre il giusto entusiasmo egualitario, il provvedimento è ampiamente insufficente e pare rimandare soltanto il problema, anche se i meccanismi virtuosi che potrà innescare nel ciclo economico dovrebbereo innalzare le entrate fiscali indirette. Resta però, sullo sfondo, il difficile dialogo delle parti politiche, che faticano a trovare terreni di intesa comuni. Il varo della legge è stato infatti accompagnato da laboriose trattative, che hanno ricompreso anche pesanti tagli al bilancio, nella misura di circa 110.000 milioni di dollari, capaci di influire sui rispettivi settori di interesse. Se i democratici hanno dovuto rinunciare a finanziamenti diretti a sostenere chi è stato colpito dalla disoccupazione o le sovvenzioni al programma di assistenza sanitaria per i pensionati, i repubblicani hanno visto drasticamente ridurre il bilancio del Pentagono. Ma questi accordi non sono stati sufficienti per raggiungere una convergenza più ampia, infatti il computo dei voti non ha registrato l'unanimità dei consensi, con alcuni deputati repubblicani che hanno espresso comunque parere negativo. Questo dato è però il sintomo di un malessere crescente nel partito della destra americana, dove sta emergendo una tendenza più conciliante con il Presidente in carica, malgrado le profonde differenze di vedute, dovuta sia alla necessità concreta di evitare il default, sia a nuove strategie elettorali che permettano al partito di recuperare consensi ed anche cercare di acquisirne di nuovi; del resto la riduzione dei parlamentari del partito legati al movimento più estremo, quello del "tea party", decretata dall'elettorato, dimostra come questa direzione possa essere quella giusta. Tuttavia, per una drastica riduzione del deficit USA, sarebbe necessaria una convergenza ancora maggiore, in un senso o nell'altro, ovvero in politiche tali da combinare la pressione fiscale con il taglio della spesa, dove la maggiore differenza sta propri su quali capitoli di bilancio intervenire. L'intenzione di Obama è quella di combinare una riforma che regoli le aliquote fiscali di pari passo con i tagli, in modo da introdurre benefici e deduzioni che sono attualmente precluse alla maggioranza degli americani. Su di una base del genere, però, una piena convergenza è impossibile e la lunghezza delle trattative diventa un elemento negativo per la necessaria velocità di decisione richiesta dal rapido andamento del mercato. Resta da dire che il mondo intero segue l'evoluzione dell'intera vicenda con profonda apprensione: dai risultati delle riforme americane, che sono tutt'altro che concluse con l'approvazione di questa legge, dipende l'uscita dalla crisi, che sta attanagliando il tessuto produttivo e sociale del pianeta.

mercoledì 2 gennaio 2013

Turchia e curdi cercano un'intesa

Per la Turchia la questione curda è diventata una priorità da risolvere. Le trattative che sarebbero in corso con il leader del Partito Curdo dei Lavoratori, Abdullah Ocalan, in prigione dal 1999, dovrebbero già essere in stato avanzato, ed il primo ministro turco, Erdogan, ha ammesso che presto potranno vedersi effetti concreti. Al momento le azioni di guerriglia dei curdi sono praticamente ferme, per lo stop imposto dal rigido clima invernale, lo scopo principale dello stato della Turchia è che non riprendano con la primavera prossima. Il conflitto tra i curdi e la Turchia va avanti dal 1984, ed è costato la vita a circa 45.000 persone, in maggioranza di etnia curda, con un costo stimato tra i 300.000 ed i 450.000 milioni di dollari. Il Partito Curdo dei Lavoratori, formazione fuori legge per Ankara e considerato movimento terroristico da UE ed USA, è il principale avversario del governo turco, fondato nel 1978, ha come scopo il raggiungimento dell'autonomia e del riconoscimento dei diritti politici per i curdi della Turchia ed in ultima analisi, la creazione di una nazione curda autonoma. In Turchia i curdi sono circa 15 milioni, pari al 20% dell'intera popolazione, e considerano Ocalan il loro leader legittimo, tanto che il governo di Ankara, che pure lo ha condannato, lo ritiene l'interlocutore di maggior peso politico nella trattativa. Tuttavia i tanti anni di carcere hanno allontanato materialmente Ocalan dalla base del movimento e gli scettici ritengono che ciò potrebbe avere minore influenza di quella attesa dal governo turco, nei colloqui in corso. In realtà la trattativa è una esigenza per entrambe le parti: i curdi, in questi anni, non hanno ottenuto risultati apprezzabili e la Turchia, pressata da esigenze internazionali, ha la necessità di scongiurare, come minimo, una ripresa degli attentati, cui è stata spesso vittima. Va detto che Erdogan, ha qualche responsabilità in più per la situazione che si è creata: infatti con la sua elezione del 2011, uno dei primi atti fu di interrompere l'allora trattativa in corso, che durava dal 2009 ed è nota come il processo di Oslo, dalla sede degli incontri tra le due delegazioni. L'attuale premier turco ha sempre messo al centro della sua azione politica, sopratutto iniziale, l'integrità della Turchia e la dura contrarietà a qualsiasi concessione all'etnia curda, anche soltanto quella di prevedere forme di autonomia in favore delle minoranze, metodo usato in altre nazioni per favorire l'inclusione pacifica di gruppi etnici non perfettamente integrati. Questa rigidità ha creato una situazione di reciproca diffidenza, anche in ragione di applicazione di leggi che hanno penalizzato quella parte della società curda nettamente contraria a forme di violenza; ciò ha decapitato il potenziale dialogo che poteva favorire sbocchi pacifici ed ha esacerbato gli animi, creando i presupposti per una maggiore influenza nella società curda delle posizioni più radicali. La Turchia, che è protagonista di una crescita economica considerevole ed ambisce a diventare una affermata potenza regionale, ha necessità di una situazione di tranquillità all'interno dei propri confini, ma non è pensabile che continui la sua linea di intransigenza nei confronti dei curdi, per avere successo nelle trattative in corso dovrà obbligatoriamente fare delle concessioni e favorire la crescita delle parti meno propense alla violenza; ciò sarà possibile soltanto con una revisione radicale del proprio atteggiamento che non potrà non prevedere la concessione di forme di autonomia, sopratutto politica all'interno del proprio territorio, in quella parte dove l'etnia curda è maggioritaria.