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mercoledì 6 febbraio 2013

Provocazioni militari tra Cina e Giappone

Il pericolo di uno sviluppo imprevisto tra Cina e Giappone, per le isole Senkaku, si sta avvicinando sempre di più. Le scaramucce tra i due paesi stanno salendo di tono e finora non è successo nulla soltanto grazie alla freddezza degli equipaggi delle rispettive forze navali ed aeree. Gli ultimi casi riguardano una nave da guerra ed un elicottero giapponesi, entrati nei mirini di navi militari cinesi; il puntamento elettronico è ormai facilmente rilevabile dagli strumenti di cui sono dotati i mezzi da guerra moderni ed è ritenuto un atto ostile che va oltre la mera provocazione e che può causare una risposta preventiva. Tecnicamente quindi lo scontro a fuoco, da cui poteva divampare l'incendio, è stato molto vicino, ma in futuro, non è detto che una eventuale ripetizione dell'accaduto, non porti ad un fraintendimento o ad un malinteso, anche per lo stato di tensione senz'altro presente tra i militari delle due nazioni. Peraltro questo episodio rappresenta l'ultimo caso, conosciuto, di una serie sempre più lunga, con invasione di quello che il Giappone ritiene il proprio spazio aereo, inseguimenti di aerei militari ed arresti di equipaggi di pescherecci. L'ultima evoluzione della contesa sull'arcipelago delle Senkaku è la creazione, da parte del Giappone, di una forza navale riservata al controllo delle isole, formata da due portaelicotteri e coadiuvata dall'impiego di circa 600 uomini stanziati nell'arcipelago, che dovrà essere operativa entro tre anni. Nel mentre la Cina potrebbe, però, prendere delle contromisure per vanificare gli sforzi giapponesi di tutelare quello che considerano il proprio arcipelago, dando luogo ad una possibile escalation militare. L'aggravamento della situazione è maturato in un momento che pareva preludere ad una distensione diplomatica, per i segnali che provenivano da entrambe le parti, tuttavia le provocazioni avvenute hanno riportato lo scenario su tinte più fosche.

martedì 5 febbraio 2013

La Francia ha difeso il Mali per proteggere il Niger?

Vi è un'ottica particolare per leggere il significato dell'intervento francese nel Mali: proteggere il Niger dall'invasione islamica e di conseguenza, tutelare gli investimenti di Parigi nelle miniere di Uranio che sono nel territorio di Niamey. Una instabilità del Mali avrebbe grosse possibilità di allargarsi nel vicino Niger, quindi l'operazione nel paese maliano, oltre ai risvolti di politica internazionale, ne ha uno molto pratico di prevenzione contro attacchi analoghi a quello che si è verificato in Algeria, nell'impianto di produzione di gas di Amenas. Da solo l'esercito del Niger non può proteggere le installazioni presenti nel paese perchè dispone di soli 5.000 uomini, che dovrebbero presidiare gli 840 chilometri di frontiera con il Mali, senza alcun mezzo aereo ed elettronico per la sorveglianza della linea di confine. Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo, ma è il quarto produttore di uranio del mondo, ed è destinato a balzare al secondo posto entro sette anni. Il solo comparto dell'uranio rappresenta per il paese il 60% delle proprie esportazioni, tuttavia di tutta questa ricchezza resta ben poco al paese, circa 100 milioni di euro l'anno, che non permettono di elevare il tenore di vita della popolazione locale. Già nel periodo tra il 2007 ed il 2009, gruppi di indipendentisti tuareg, avevano scatenato una serie di attentati nel nord del paese, quello dove vi è la maggiore concentrazione di miniere, che era stata definita la guerra dell'uranio. Il malcontento, insomma, è presente e strisciante nel paese e può rappresentare un buon terreno di coltura per l'inserimento del fondamentalismo islamico, sulla base di uno sfruttamento delle materie prime nazionali che si eleva soltanto di poco dalle pratiche colonialiste. La Francia, che utilizza per la produzione del suo fabbisogno di energia elettrica ben 58 centrali atomiche, che producono il 78% del totale dell'elettricità consumata, preleva dal Niger, ex colonia francese, tra il 30 ed il 40 per cento dell'uranio consumato. La multinazionale Areva, di proprietà dello stato francese per l'ottanta per cento, gestisce direttamente ben due grandi miniere. Per Parigi, quindi, la stabilità della nazione nigerina risulta fondamentale e strategica per la propria economia. Ma non è solo la Francia ad interessarsi dell'uranio del Niger, anche la Cina, attraverso la China Nuclear Internazionale Uranium Corporation, gestisce una miniera, quella di Azelik, anche se è la più piccola del paese. Pechino però ha un maggiore sfruttamento del petrolio, grazie alla gestione del sito di Agadem, capace di una produzione di 2.000 barili al giorno. Gli investimenti cinesi hanno incontrato maggiormente il favore del governo, come in molte altre realtà africane, e ciò determinerebbe maggiori opportunità per Pechino nel futuro. Questa situazione potrebbe essere però fonte di scontro tra i due partner commerciali del Niger, intanto Pechino non ha collaborato alla difesa contro l'islamismo fondamentalista, se non con l'appoggio interessato tramite il parere favorevole alla risoluzione del Consiglio di sicurezza, che, in fin dei conti, ha permesso di sfruttare l'impegno militare francese a costo zero. Questo fatto non potrà passare sotto silenzio da parte di Parigi, che potrà presentare il conto sia alla Cina che al Niger. Nonostante ciò Parigi dovrà rivedere la politica economica nel paese africano, verosimilmente incrementando il gettito a favore di Niamey, sia per calmarne lo scontento del governo, sia per contrastare l'avanzata cinese nel paese e sopratutto per permettere di creare una maggiore diffusione del benessere tra la popolazione, che impedisca alle idee fondamentaliste di attecchire.

Nel Mali del nord è necessario sostituire l'economia criminale

Non rientra nelle intenzioni del governo del Mali trovare un accordo con i radicali islamici che hanno occupato il paese. La dichiarazione è ufficiale e proviene dal ministro degli esteri del paese africano, Coulibaly Hubert Tieman; la posizione del paese maliano è inconciliabile con coloro che hanno distrutto il processo democratico nella parte settentrionale del paese ed una pace con Al Qaeda nel Maghreb Islamico è quindi impossibile. Ma per evitare il ritorno dei jihadisti non può bastare solamente l'attuale fase militare, seppure vittoriosa, grazie all'appoggio determinante di Parigi. La gestione del periodo immediatamente successiva al conflitto è la più difficile perchè, oltre a mantenere il presidio del territorio, occorre analizzare e correggere le cause, che hanno portato alla sottrazione così veloce della sovranità nazionale. Se risulta essenziale un presidio armato sufficientemente attrezzato, formato, presumibilmente da una forza di caschi blu di origine africana, come auspicato dalla Francia, che impedisca nel breve periodo un ritorno immediato di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, che avrebbe conseguenze terribili, sopratutto per la popolazione, la priorità nel lungo periodo è impiantare una economia che vada a sostituire l'insieme di traffici e contrabbando, che hanno permesso ai terroristi di conquistare la fiducia della popolazione, nelle prime fasi dell'invasione. La parte di territorio che era stata conquistata dai ribelli è contraddistinta da una povertà endemica all'interno di una conformazione geomorfologica che ha favorito un ampio sviluppo di un insieme di attività, che sono state definite come economia criminale. In effetti la ricchezza dei gruppi terroristici in questi pochi mesi di dominazione pare essere accresciuta in modo esponenziale, per avere assunto il controllo delle vie di passaggio, dove transitavano i migranti, la droga, il traffico di armi ed infine gli ostaggi occidentali, i cui riscatti pagati dagli stati di appartenenza consistevano in somme in euro a sei zero. Di tutti questi flussi di denaro per la popolazione locale restavano pochi spiccioli, che erano però somme molto alte se immesse in una economia di pura sussistenza. Il reclutamento nelle formazioni dei ribelli era pagato, infatti, dai 300 ai 600 euro al mese, stipendi quasi al pari dei precari occidentali, che permettevano un innalzamento immediato del tenore di vita. Si capisce allora come la penetrazione sociale, almeno iniziale, sia stata facilitata. L'instaurazione del regime del terrore dovuto alla applicazione integrale della sharia, avvenuto nella fase successiva ha raffreddato il rapporto della popolazione con Al Qaeda, tuttavia l'emergenza economica individuata dal governo del Mali resta una priorità da risolvere, per fare mancare a possibili ritorni dei radicali islamici, gli appigli con cui entrare in sintonia con il tessuto sociale. Non secondaria, poi, è anche la questione prettamente della sicurezza, del controllo territoriale e della lotta alla criminalità, che ha diverse ricadute anche sul piano internazionale. Sono, infatti, per primi ad essere interessati i paesi occidentali che si affacciano sul Mediterraneo affinchè sia stroncato il traffico di droga e di armi e la tratta degli esseri umani, che transitano nelle vie del deserto del Sahara, come altrettanto lo sono le organizzazioni internazionali ed umanitarie. Il Mali non possiede i mezzi per affrontare da solo tutte queste emergenze, che sono anche un investimento per l'occidente. La necessità di investimenti occidentali si scontra con lo stato di crisi delle economie più ricche, tuttavia se si vuole salvaguardare la sicurezza europea ed occidentale, occorre elaborare dei piani che assecondino la volontà del paese africano ad esercitare una sovranità completa sui territori del nord, che non deve essere soltanto militare ma sopratutto sociale.

lunedì 4 febbraio 2013

La Corea del Nord vicina al terzo test nucleare

Le linee guida illustrate nel fine settimana, durante un incontro del Partito dei Lavoratori della Corea del Nord, la formazione egemone nel paese, Kim Jong-un ha illustrato le linee guida per il rafforzamento delle strutture militari al fine di proteggere la sovranità nazionale. Secondo gli esperti il linguaggio criptico dei burocrati nordcoreani, significa che il temuto test nucleare di Pyongyang sarebbe imminente. Anche nella Corea del Sud si ritiene che i preparativi siano completati e che la Corea del Nord stia per fare esplodere il suo terzo ordigno nucleare, dopo quelli del 2006 e del 2009. Per Seul la decisione su come affrontare la questione è ormai di natura politica. Ma nel frattempo sono iniziate le manovre navali congiunte con gli Stati Uniti, mentre sulla terra anche gli eserciti dei due paesi stanno effettuando esercitazioni comuni. Si tratta della risposta, in tempo praticamente reale, alle intenzioni nordcoreane, che costituisce una prova di forza destinata ad aumentare una tensione già di per se molto elevata. Ma per Pyongyang il test nucleare è diventato un passo obbligato, sopratutto in risposta alle sanzioni, che colpiscono un paese già duramente provato economicamente a causa della sua arretratezza, imposte dal Consiglio di sicurezza per il lancio di un missile, che ufficialmente doveva mettere un satellite in orbita, mentre in realtà era il test per un razzo a lunga gittata. Da valutare le reazioni di Pechino, sia alle esercitazioni militari, mai troppo gradite, che alla perseveranza della Corea del Nord, già ripresa nei canali ufficiali e non dalla Repubblica popolare cinese. Altrettanto problematica potrebbe essere la gestione della situazione al momento dello scoppio dell'ordigno, con la Corea del Nord praticamente accerchiata, sia dal mare, che dalla presenza dei 28.000 marines americani attestati sul confine nel 38° parallelo. Per Obama la regione orientale è diventata preminente per i suoi risvolti economici e, pur mantenendo per scelta un basso profilo, sopratutto in sede diplomatica, la posizione americana è quella di non concedere alcunchè alle pretese di Pyongyang, sopratutto sul versante nucleare, posizione in cui Pechino ha dimostrato di essere d'accordo per avere accordato il proprio sostegno alle sanzioni ONU. Per la Corea del Nord potrebbe essere arrivato il fatidico momento di avere passato il segno, con un futuro immediato sotto stato di assedio, mentre nel lungo periodo, senza anche gli aiuti cinesi, il regime potrebbe implodere sotto se stesso.

Siria, Iran e Turchia condannano l'azione militare di Israele

Damasco rompe la prassi consueta di mantenere il silenzio dopo essere stata vittima di una azione militare israeliana. Tale comportamento, nel passato, è stato giustificato da atteggiamenti o azioni compiute in segreto e che risultavano inamissibili agli occhi del panorama internazionale e che non consentivano, quindi, di richiedere una censura pur giustificata. Ma la situazione interna, dove la guerra civile ha preso il sopravvento ed il regime di Assad si trova in grande difficoltà, autorizza il dittatore siriano ad annunciare rappresaglie, anche se dietro il bombardamento di Tel Aviv, vi era la presunta fornitura di armamenti e strumenti di controllo elettronici al gruppo estremista libanese Hezbollah. Nella situazione caotica della Siria, ogni cautela di tipo diplomatico viene abbandonata ed anzi, per convenienza, l'attacco contro il convoglio in territorio siriano, da parte della forza aerea di Israele, viene sfruttato per accusare Tel Aviv di seguire una strategia volta a destabilizzare il paese e spostare, quindi, l'attenzione dalle vicende interne a quelle estere. Insieme alle accuse sono arrivate anche le minacce di Assad, che ha affermato che l'episodio sarà seguito da una risposta di pari tenore. Si tratta di minacce a cui difficilmente seguirà una attuazione pratica, le condizioni dell'esercito siriano sono quasi allo stremo, anche se episodi disperati e fuori dalle logiche previsioni non possono essere escluse. Israele si è premunito da tempo contro le potenziali minacce provenienti dalla Siria, schierando le batterie antimissile "Iron Dome" al suo confine settentrionale. Di ben altra valenza, però, sono state le minacce iraniane: il Comandante del Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica dell'Iran, il generale Mohammad Ali Jafari, ha espressamente dichiarato che l'attacco di Israele non potrà avere una risposta, perchè la ritorsione violenta è l'unico modo possibile per relazionarsi con Tel Aviv. Teheran usa il rapporto preferenziale con Damasco come mezzo per minacciare direttamente Israele, reo ufficialmente di tramare per una destabilizzazione della regione, attraverso la tattica di colpire la Siria. Se per Teheran è fondamentale sottolineare l'alleanza con la Siria, sopratutto agli occhi del mondo scita, è ancora più importante fare confluire nella maggiore quantità possibile l'indignazione dei paesi musulmani, per l'azione militare in territorio straniero di Israele, a proprio vantaggio, come paese capofila contro quella che lo stesso Mahmud Ahmadinejad, ha definito come l'entità sionista. Nella questione è molto importante la situazione di tensione, mai sopita, tra i due paesi, che ha raggiunto i livelli massimi da quando l'Iran pare vicino alla costruzione della bomba atomica, con la conseguenza di un potenziale intervento armato contro i reattori iraniani da parte dei bombardieri con la stella di David, per ora, fortunatamente, evitato, grazie all'azione di Obama. Resta il fatto che, sia la Siria, probabilmente insieme all'Iran ed Israele hanno compiuto degli atti contrari al diritto internazionale. Ma se quello di rifornire di armi, gruppi terroristici, stanziati in un paese terzo, il Libano, rappresenta già una gravità elevata, l'invasione di un territorio straniero con le proprie forze armate, senza una dichiarazione ufficiale, costituisce una violazione ancora maggiore. In questa ottica la dichiarazione del premier turco Erdogan, che ha definito l'operazione israeliana come terrorismo di stato, esplica in modo chiaro il sentimento internazionale, presente anche in alcuni paesi occidentali, che temono una escalation della pericolosa situazione regionale. L'atteggiamento della Turchia deve essere valutato in maniera tutt'altro che superficiale: ex alleata di Israele, Ankara ha praticamente interrotto i rapporti con Tel Aviv in seguito ai fatti che hanno riguardato una azione militare da parte delle forze armate israeliane su di una nave turca, quindi anche qui in regime di extraterritorialità, che portava aiuti umanitari nella striscia di Gaza. La Turchia, che è protagonista di un notevole exploit commerciale sia per le sue esportazioni verso i paesi asiatici di religione musulmana, sia per la presenza sul suo territorio di molte industrie europee, ha percorso, negli ultimi anni una strategia di affermazione internazionale tale da assumere sempre più rilievo nella regione ed oltre, assumendo, ad esempio un ruolo quasi di guida nei confronti di alcuni paesi che hanno vissuto la primavera araba. L'influenza turca verso una buona parte del mondo arabo è stata dovuta anche alla ragione che al potere vi è un partito di ispirazione islamica, che ha introdotto, sebbene in forma più blanda rispetto ad altre nazioni, elementi confessionali nella vita pubblica, ciò ha permesso di accrescere il prestigio e la considerazione dello stato della Turchia, che viene considerato da molte entità un possibile modello da seguire per conciliare la forma di governo democratica con l'Islam. L'azione israeliana ha così già determinato conseguenze niente affatto irrilevanti sicuramente su di una visione prospettica a medio lungo periodo, che gli effetti della distruzione del convoglio di armi per Hezbollah, potrebbero non riuscire a bilanciare. Quello che risulta più preoccupante nell'immediato è il possibile concretizzarsi della minaccia iraniana, che potrebbe dare luogo ad una situazione in cui uno scenario di guerra non risulta affatto improbabile: occorre considerare la situazione interna iraniana alla vigilia di un voto che non si preannuncia scontato, sopratutto per gli effetti delle sanzioni sull'economia e la condizione interna della società, che, tuttavia, pare appoggiare in massa la scelta nucleare dello stato. Per il governo in carica spostare l'attenzione dai temi nazionali a quelli internazionali, dove gode più consenso, potrebbe essere una strategia da percorrere anche andando incontro ad evoluzioni pericolose. Ancora una volta l'unica soluzione sarebbe pacificare la situazione siriana, con l'estromissione dal potere del dittatore Assad: si fermerebbe la carneficina provocata dalla guerra civile e Teheran resterebbe senza un alleato fondamentale e senza appigli per provocare Israele. Serve però un accordo tra USA e Russia, su di una soluzione che dia possibilmente uno sbocco pacifico alla crisi. Mosca pare però avere mutato la sua posizione, ammorbidendola, essendo conscia dell'impossibilità per Assad di uscire vittorioso dalla guerra civile. Il governo russo avrebbe già fatto le sue mosse con l'opposizione siriana, per potere mantenere la propria base navale di Tartus, unica nel mediterraneo per l'armata di Mosca, considerata di importanza altamente strategica.

venerdì 1 febbraio 2013

L'ONU potrebbe inviare i Caschi Blu nel Mali

L'ONU potrebbe decidere di inviare i caschi blu nel Mali; l'argomento sarebbe in discussione al Palazzo di Vetro di New York e potrebbe entrare nell'ordine del giorno del Consiglio di sicurezza. La decisione potrebbe essere presa anche se l'intervento francese, per liberare il paese africano dagli estremisti islamici, non fosse ancora concluso. Parigi ha mostrato di essere favorevole alla decisone, anche se ha espresso alcune perplessità circa il dispiegamento della forza di pace in una situazione non ancora del tutto stabilizzata. Questo perchè i caschi blu potrebbero essere obiettivo di attentati da parte delle ultime formazioni che oppongono resistenza. Ciò potrebbe determinare un intralcio allo svolgimento delle operazioni. Diverso il caso di un impiego con l'esclusivo scopo di mantenimento della pace in uno scenario liberato dai terroristi. Questa soluzione solleverebbe, almeno in parte, i francesi dai compiti seguenti ai combattimenti. In ogni caso per Parigi, una tale decisione sarebbe una vittoria sul piano internazionale e determinerebbe la fine dell'isolamento nell'impegno nel paese maliano, rappresentando un riconoscimento tangibile dell'operato eseguito, aldilà delle dichiarazioni di simpatia, che hanno seguito l'intervento. Tuttavia, paradossalmente, anche una decisione favorevole del Consiglio di sicurezza potrebbe non bastare senza l'avallo e l'appoggio dell'Algeria. La decisione dell'ONU, comunque, sarebbe il logico seguito alla risoluzione del Consiglio di sicurezza che riconosceva la pericolosità del fenomeno del terrorismo islamico nel nord del Mali, ma prevedeva l'invio di una forza armata soltanto alla fine del 2013. Si stima che il fabbisogno di uomini si aggiri su di un numero entro il raggio compreso tra le 3.000 e 5.000 unità, due sono le possibilità che si profilano: la prima una forza costituita da soldati provenienti da paesi non africani, senz'altro maggiormente preparati ed armati, ma forse, invisi alla popolazione, la seconda una forza formata da militari di origne africana, con il sostegno logistico delle nazioni Unite e, verosimilmente, istruttori occidentali; questa scelta, che gode dell'appoggio dell'Unione Africana e della Comunità degli stati dell'Africa Occidentale, pare, dal punto di vista diplomatico, più facilmente percorribile, anche se esistono dei dubbi sull'operatività di questi militari e sul rispetto dei diritti umani che potrebbero assicurare. Questo aspetto è molto sentito dalla comunità internazionale, che vuole risparmiare alla popolazione civile, eventuali nuovi soprusi, dopo quelli patiti dall'applicazione della sharia da parte dei miliziani islamici radicali.

La Turchia minaccia di entrare nell'Organizzazione di Shangai

Le resistenze all'ingresso della Turchia nell'Unione Europea potrebbero determinare una curiosa scelta di campo per Ankara. Il governo turco avrebbe, infatti, intenzione di diventare membro, per ora soltanto osservatore, della Organizzazione di Shangai per la cooperazione. Il premier turco Erdogan ha individuato questa possiblità in alternativa all'ingresso nella UE, come possibile sbocco della ricerca dell'allargamento delle forme di cooperazione internazionale per il proprio paese. Il persistere dell'ostinato atteggiamento, per la verità in parte giustificato, di diversi paesi membri della UE all'ingresso turco nell'unione, spingerebbe Ankara verso l'Organizzazione di Shangai, considerata da osservatori turchi addirittura potenzialmente più potente della UE. Questa visione, in realtà pare una estremizzazione, il percorso di unione, seppure rallentato e irto di ostacoli, compiuto da Bruxelles, è molto più avanti sull'integrazione, che, tra l'altro, non figura tra gli obiettivi dell'Organizzazione di Shangai. Resta comunque vero che una unione che comprende: Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, come membri permanenti ed India, Mongolia, Iran e Pakistan, come osservatori ha effettivamente delle grosse potenzialità, che però restano distanti dai vantaggi immediati che potrebbe assicurare l'ingresso nell'Unione Europea. Per la Turchia uno dei vantaggi maggiori a fare parte dell'organizzazione di Shangai, sarebbe la comunanza con la lingua di molti stati, fattore che potrebbe assicurare una maggiore integrazione. Tuttavia i fini istituzionali dell'Organizzazione di Shangai sono molto differenti da quelli dell'Unione Europea, nata per motivi di sicurezza, dettati dalla necessità di bilanciare il potere e l'azione militare, che gli USA hanno sviluppato a livello mondiale dopo l'undici settembre 2001, l'organizzazione di Shangai promuove anche la cooperazione economica, specialmente relativamente ai settori energetici, e culturale. L'assenza di forme democratiche nei governi che compongono l'Organizzazione, costituisce un elemento di forte critica in Turchia verso questa soluzione, quello che si teme nel paese è che Erdogan effettui una virata verso una forma dittatoriale del proprio governo, anche se l'assetto democratico del paese, sebbene influenzato da forme più o meno accentuate di commistione con la religione islamica, pare immune da una tale deriva. Ma l'aspetto più curioso è che l'Organizzazione, militarmente, è alternativa alla NATO, mentre la Turchia è un membro dell'Alleanza Atlantica, considerato strategico dagli Stati Uniti; infatti Washington osserva con attenzione questo processo che potrebbe creare una situazione paradossale, e spinge, dietro le quinte, per l'ammissione del paese turco dentro l'istituzione europea. Al netto di tutte queste considerazioni, la maggioranza degli osservatori considera però, l'interesse mostrato dalla Turchia per l'Organizzazione di Shangai soltanto un metodo per costringere l'Unione Europea ad accelerare il processo di adesione di Ankara. La Turchia, forte del suo sviluppo economico, maturato negli ultimi tempi nonostante la crisi mondiale, ha la necessità di entrare dalla porta principale nel mercato più ricco del mondo per espandere il suo ciclo produttivo, di contro, la UE, sottoposta ad una fase di compressione economica, avrebbe necessità di un nuovo membro capace di aumentare la ricchezza comune e di portare dati confortanti capaci di incrementare il mercato interno. Mai come in questo momento il verificarsi di queste due condizioni, potrebbe favorire le aspirazioni turche e quindi la teoria della minaccia di andare verso un'altra organizzazione sovranazionale risulterebbe esclusivamente funzionale a fare cadere le resistenze per entrare in Europa.