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mercoledì 29 luglio 2015

Le provocazioni dei gruppi ebraici ultraortodossi, elemento controverso di politica interna del governo di Tel Aviv

La tensione che sta attraversando la Cisgiordania e Israele, dopo che si sono verificati gli scontri sulla spianata delle moschee, diventa un ulteriore elemento, che contribuisce ad aggravare le relazioni tra israeliani e palestinesi, in un momento in cui era necessaria una maggiore distensione. Infatti l’evoluzione internazionale, con lo scenario sempre più complesso della lotta al califfato, a cui si deve aggiungere la complicata situazione del Sinai, che ha portato fin sotto le frontiere di Tel Aviv, gli integralisti islamici. L’atteggiamento dei coloni, sostenuti dagli ebrei radicali, che hanno occupato edifici e territori palestinesi alza ulteriormente il livello dello scontro. La polizia israeliana è dovuta intervenire, arrestando oltre cinquanta manifestanti ed occupando la zona. Gli stessi coloni hanno denunciato le forze dell’ordine israeliane per l’atteggiamento repressivo. Questo atteggiamento, che questa volta è stato rigettato dalle autorità di pubblica sicurezza, appare una diretta conseguenza della politica del governo israeliano, che ha più volte consentito l’occupazione della Cisgiordania, sottraendo territori alla popolazione palestinese. Le provocazioni degli integralisti ebraici, sembrano in aumento, dopo la vicenda della spianata delle moschee anche questa ultima occupazione in Cisgiordania, rappresenta una sempre maggiore attività da parte degli ambienti ultra conservatori, che sembrano cercare uno scontro diretto con la popolazione araba. L’impressione è che si voglia allontanare l’inizio di nuovi negoziati con i palestinesi, in un momento in cui, al contrario, sarebbero oltremodo necessari. Una eventuale risoluzione della questione palestinese, che, si deve ribadire, appare sempre più lontana, potrebbe favorire una distensione ed un diverso atteggiamento verso Israele. Se è vero che Tel Aviv sembra più concentrata su temi quali il nucleare iraniano, la situazione del Sinai e la questione dell’evoluzione del califfato, con la guerra alla porte anche sul lato settentrionale della propria frontiera, trattare la questione palestinese potrebbe rappresentare una occasione per presentarsi al mondo in maniera differente, soprattutto al mondo arabo. Resta incomprensibile come Israele possa proseguire in un atteggiamento che ha tutte le caratteristiche dell’autolesionismo diplomatico, soprattutto in un momento così delicato. Non che tutta la società israeliana sia allineata alle posizioni del governo, esiste un segmento sociale che vede nella soluzione dei due stati la prospettiva concreta della risoluzione dello stato di guerra permanente, che lo stato patisce da anni. Ma questa parte sociale ha, indubbiamente, un peso minore di quello, che la classe politica al comando, consente agli ultraortodossi, usati come vero e proprio strumento contro le rivendicazioni palestinesi. Questa strumentalizzazione è però sempre più rischiosa, perché permette di identificare lo stato israeliano con istanze fuori dal tempo e dalla storia, che appartengono, in realtà, ad una parte minoritaria del paese, male sopportata anche dagli stessi conservatori. Tuttavia, nella strategia del governo attuale e di quello precedente, gli ultra ortodossi sono un punto centrale per raggiungere quegli obiettivi che Tel Aviv si è data e che ne hanno provocato l’isolamento internazionale. La vera intenzione è, cioè, quella di estendere nel maggior modo possibile il territorio israeliano nei territori della Cisgiordania a spese dei palestinesi. Per questo è funzionale tenere alta la tensione con gli arabi e rimandare più possibile nel tempo qualsiasi ripresa dei negoziati. Del resto non è nulla di nuovo per la politica di Netanyahu, che ha sempre usato questi metodi proprio per non arrivare ad alcuna conclusione. La perplessità più diffusa nel mondo diplomatico è, però, se questa tattica in questo scenario non rischi di diventare troppo controproducente ed esporre il paese ad una attenzione deleteria da parte di forze o paesi, che potrebbero scorgere nel prolungato atteggiamento israeliano una provocazione che potrebbe essere conveniente punire, per la forza mediatica che ciò potrebbe rappresentare.

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