Politica Internazionale

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venerdì 29 aprile 2011

Se il conflitto libico si allarga in Tunisia

La pacifica transizione tunisina è messa a dura prova da una pericolosa evoluzione presa dal conflitto libico. Un confronto armato tra l'esercito di Tunisi e le truppe leali a Gheddafi, è avvenuto presso la frontiera di Dehiba. L'antefatto è stata la perdita del controllo del posto di frontiera da parte delle truppe del rais, a favore delle milizie ribelli, circa due settimane prima. Questo episodio ha causatolo sconfinamento delle truppe lealiste in territorio tunisino, con l'intento di sfuggire ai ribelli. Successivamente le truppe di Gheddafi hanno lanciato il contrattacco, ed è stata la volta dei ribelli cercare rifugio in Tunisia, dove sono stati inseguiti per circa un chilometro. Il governo tunisino ha mostrato preoccupazione per le continue violazioni territoriali, cui il proprio stato è sottoposto e che hanno dato origine allo scontro a fuoco tra le forze armate dei due paesi. L'analisi che deriva da questi fatti non può non tenere conto di una possibile manovra concertata dallo stato maggiore di Gheddafi, per creare un diversivo nello scenario di guerra, fino a coinvolgere lo stato tunisino, oggetto di una transizione verso la democrazia, ma con un governo provvisorio alle prese con la difficile gestione di questo passaggio. Tunisi, dal punto di vista delle istituzioni appare ora indebolita, e potrebbe facilmente essere preda di un allargamento del conflitto che rischierebbe di compromettere tutto ciò fino ad ora conquistato. Sul piano internazionale una tale ipotesi sarebbe oltremodo problematica per le ripercussioni sulle relazioni internazionali e sulla questione energetica.

L'azione dei Fratelli Musulmani in Siria

In Siria i Fratelli Musulmani si appellano alla popolazione per manifestare contro il regime di Assad. Il presidente siriano è apertamente accusato di perpetrare un genocidio a danno di chi rivendica l'applicazione dei diritti civili anche trai i confini del paese. Il movimento dei Fratelli Musulmani, uno dei protagonisti della rivolta egiziana, è fuori legge in Siria, ed il fatto che chiami pubblicamente alla protesta, è un segnale eloquente di come si stiano aprendo delle brecce nelle strette maglie della censura. I Fratelli Musulmani possono mettere in campo l'esperienza già maturata durante la rivolta di piazza Tarir a Il Cairo, dove hanno assicurato ai dimostranti l'appoggio logistico e medico. Pur essendo un movimento ritenuto composto anche da fazioni estremiste, il comportamento all'interno del variegato insieme, sceso in campo per la rivoluzione egiziana, è stato improntato alla totale democraticità, senza alcuna ricerca di imporre la visuale tutt'altro che laica, che li contraddistingue. Anche nell'appello di condanna ad Assad, più che a valori religiosi, viene fatto riferimento a temi civili, quali la libertà politica e la lotta alla corruzione. Si assiste, dunque, alla ricerca di uno schema analogo a quello verificatosi in Egitto, dove attorno alla mancanza dei diritti civili e politici, si sono potuti aggregare parti diverse e talora contrastanti, della società. Va detto che il controllo in Siria appare ancora più pregnante di quello esercitato in Egitto, a causa dei molti anni di vigore della legge speciale, che limitava fortemente ogni opposizione, tuttavia sia la pressione internazionale, che le rivolte interne, hanno causato ampie spaccature nel regime, che potrebbero determinare, anche se con tempi che non paiono brevi, la caduta di Assad.

Egitto: aperto il valico di Gaza, Il Cairo protagonista sulla Palestina

Uno degli effetti tanto temuti da Israele per la destituzione di Mubarak, si concretizzerà a breve: l'Egitto, infatti, riaprirà in modo permanente la frontiera di Gaza. La misura fa parte del quadro complessivo della nuova dirigenza egiziana di allentare la pressione sulla striscia di Gaza, dove la condizione dei palestinesi resta molto difficile. Rimane chiusa la frontiera di Rafah, che potrà essere aperta solo per ragioni di carattere umanitario. L'importanza strategica della frontiera di Gaza è data dal fatto che è l'unico varco, per entrare nella striscia non controllato da Israele. La chiusura della frontiera di Gaza è, da molti osservatori, ritenuta la causa dell'incremento della popolarità di Hamas nella striscia, quale reazione estrema alle condizioni imposte da Tel Aviv. La misura egiziana, oltre ad avere uno scopo pratico di tipo umanitario, ha una sicura valenza politica sia per quello che riguarda l'universo palestinese che per ciò che concerne i rapporti con Israele. Dal punto di vista palestinese pare evidente che questa apertura punta ad indebolire Hamas, che detiene la maggioranza dei consensi nella striscia, a favore di una visione più moderata, come può essere quella di Al Fatah. Con l'apertura della frontiera, infatti, dovrebbero migliorare sensibilmente le condizioni di vita dei palestinesi della striscia, grazie all'arrivo costante e continuativo di medicinali, generi alimentari e forniture di materiale vario, favorendo la diminuzione del tasso di adesione alle posizioni estremiste. Sempre che Israele non decida una strategia repressiva che riporti in auge le ragioni di Hamas, il cui gradimento nella striscia è funzionale alla politica del governo in carica a Tel Aviv; governo che si trova ora a fronteggiare questo nuovo problema, dopo la pacificazione tra Hamas ed Al Fatah. Sicuramente l'apertura della frontiera rappresenta un fattore negativo per il paese della stella di David, perchè oggettive ragioni logistiche permettono al popolo della striscia di alleviare le proprie condizioni, ma anche di rifornirsi di armamenti, potenzialmente utilizzabili contro Israele. Tuttavia questa prospettiva, è sicuramente meno importante del cambiamento di atteggiamento egiziano, che si pone ora in maniera differente, di fronte al problema palestinese, rispetto alla gestione Mubarak. Quella che emerge è una volontà di protagonismo di fronte al problema: in pochi giorni tramite l'azione egiziana si è concretizzata la riunione delle due anime palestinesi e l'apertura del varco di Gaza. Due episodi cruciali nell'ottica delle future relazioni con Israele.
Difficile però pensare che dietro questi due fatti non ci sia stato il placet americano, se così fosse Tel Aviv dovrebbe iniziare a ripensare le proprie posizioni sulla creazione dello stato palestinese.

giovedì 28 aprile 2011

Siria, ONU e aspetti conseguenti

Il regime siriano accusa i primi scricchiolii dopo le dimissioni di membri del partito di governo appartenenti alla regione di Deraa, teatro delle violente repressioni. Si parla anche di scontri armati avvenuti tra diversi reparti dell'esercito, dovuti ad opinioni contrastanti sulla feroce modalità dei metodi usati per sedare la rivolta. Per la prima volta il regime siriano accusa, quindi dei dissidi, che provengono dal suo interno, è questo l'elemento nuovo che compare sulla scena di Damasco; ciò può volere dire che anche per il più granitico dei regimi si stanno creando delle crepe che ne possono inficiare il futuro. Intanto, sul piano internazionale, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, boccia la richiesta proveniente da Gran Bretagna, Francia, Germania e Portogallo, per una risoluzione che impedisca alle forze armate siriane di usare violenza sulla popolazione civile. Si sarebbe trattato di una risoluzione analoga alla numero 1973, che riguarda la Libia. Sono, tuttavia, presenti delle differenze con il paese affacciato sulla sponda sud del Mediterraneo, in quanto in Siria, per il momento, non esistono due forze contrapposte, che combattono per il potere; non esiste, cioè, una guerra civile, ma soltanto rivolte tutto sommato circoscritte. Questo non allevia la gravità della repressione, ma permette di essere un argomento usato da alcuni paesi componenti del Consiglio di Sicurezza per bocciare la richiesta di una risoluzione riguardante la Siria. Infatti la ragione con cui Cina, Russia e Libano hanno respinto la risoluzione si basa proprio sul fatto di evitare una possibile guerra civile nel paese siriano. Se pare scontato il giudizio di Cina e Russia, rimaste scottate dalla loro stessa astensione, che ha permesso di approvare la risoluzione 1973 e quindi la guerra in Libia, che viola la propria concezione di politica estera, dove si rifiuta la pratica dell'ingerenza negli affari interni degli altri paesi, meno comprensibile appare la scelta libanese, unico paese arabo nel consiglio, che non è in rapporti propriamente definibili come amichevoli con la Siria. In realtà esiste una ragione politica dietro la scelta del Libano, che risulta essere condivisa anche da altre nazioni, tra cui, per un caso curioso delle relazioni internazionali, anche da Israele: il mondo può permettersi una guerra in Libia, le rivolte nei paesi arabi, ma non può non sapere in quali mani potrebbe finire la SIria, che rappresenta la chiave della pace nella regione. Se per alcuni siriani, il regime di Assad è deplorevole per molti motivi, per l'estero, pur con tutte le riserve a riguardo, la continuità di Damasco, offre una elevata percentuale di mantenimento dello status quo regionale e quindi scongiura la possibilità del deterioramento della situazione. In un momento di rivolgimenti epocale, come quello attuale, nessun schieramento di qualsivoglia indirizzo, può permettersi che cada un tassello nel complicato incastro del panorama internazionale. Il conto di tutto questo equilibrio per i dimostranti di Daraa.

Israele e l'unione di Al Fatah con Hamas

Al Fatah ed Hamas uniti potrebbero non piacere ad Israele. Impossibile non pensare che Tel Aviv non veda di buon occhio la pacificazione tra le due anime palestinesi. La prima conseguenza potrà essere la rottura delle relazioni con la riunita compagine palestinese; non si vede infatti come sia possibile che Israele possa sedere ad un eventuale tavolo delle trattative con esponenti di Hamas. Ma se le relazioni saranno rotte, le conseguenze potranno essere nefaste sul piano delle azioni militari, con effetti devastanti per ambo le parti. Tuttavia per i governanti in carica israeliani, che stanno perseguendo l'avanzata dei coloni nei territori palestinesi, una eventuale rottura delle trattative potrebbe essere parte di una strategia volta a guadagnare tempo, bene, insieme all terra, di cui a Tel Aviv hanno sempre più bisogno. Se, da un lato la pacificazione dei due movimenti palestinesi, può essere letta come un elemento positivo nel quadro palestinese, potrebbe essere anche visto come un autogol nell'ambito delle relazioni con il paese della stella di David. Israele, con un governo di destra, ha l'obiettivo di aumentare il suo territorio, ed attua questa mira con la politica dei coloni e dei loro insediamenti nelle zone palestinesi. L'ANP per arrivare alla pace, come ribadito nei recenti colloqui francesi con Sarkozy, vuole riaffermare il trattato del 1967, quindi le linee ideali dei confini si sovrappongono a sfavore dei palestinesi. E' qui che entra in campo il fattore tempo, Israele pensa che una volta costruiti gli edifici dei coloni, questi non potranno più essere sfrattati; la tattica è oltremodo cinica: espone i coloni a ritorsioni molto probabili e, di fatto, dimostra la totale assenza di volontà a perseguire il processo di pace. Dire che Tel Aviv sta giocando con il fuoco è una metafora neanche troppo azzeccata, quello che si rischia è più di un conflitto locale. Inoltre Tel Aviv sta forzando la mano a Washington, che pur restando il più grande alleato, ha in questo momento talmente tanti fronti su cui è occupato, che una crisi ulteriore nei territori sicuramente non sarebbe ben vista.

mercoledì 27 aprile 2011

Palestina: Al Fatah ed Hamas riuniti

I principali movimenti palestinesi Al Fatah e Hamas sono venuti ad un accordo per rimuovere gli ostacoli all'interno dell'Autorità Nazionale Palestinese. Al Fatah, del presidente Habbas, controlla la Cisgiordania e Hamas ha invece il predominio sulla striscia di Gaza, la divisione è stato uno dei principali ostacoli alla nascita dello stato palestinese, a causa delle profonde divisioni sulle rispettive visioni. Uno dei principali motivi di discordia è stato quello di attribuire ad Hamas di subire le influenze iraniane. Al Fatah ha individuato nella repubblica teocratica il responsabile dietro le azioni più violente di Hamas contro Israele, ritenendole profondamente deleterie nel quadro del processo di pace. Il solco tra i due movimenti ha costituito spesso fonte di aspri confronti, spesso sfociati nella violenza. La divisione è stata anche uno strumento con cui Israele ha esercitato la propria supremazia nella lotta contro i palestinesi. Ora, tramite la mediazione egiziana, a cui conviene avere al confine uno stato legittimo e sotto il controllo delle proprie legittime autorità, le due parti si incontrano cercando di arrivare ad un accordo che permetta di raggiungere la riconciliazione bloccata da più di due anni. La comprensione che soltanto superando le divisioni è possibile arrivare ad uno stato palestinese, sta dietro la volontà dei due schieramenti di arrivare ad un accordo, con la prospettiva di presentarsi uniti alle trattative per la nascita dello stato, davanti ad Israele. Il primo passo sarà quello di costituire un governo unitario che porti la Palestina a nuove elezioni, da cui dovrà nascere l'esecutivo che, verosimilmente, dovrà condurre le trattative per la nascita della tanto agognata nazione palestinese. Si suppone che Israele non accoglierà favorevolmente la richiesta al suo interno, malgrado dovrà fare buon viso a cattivo gioco, quello che viene a mancare è uno strumento importante, basato sulla divisione dei palestinesi, che permetteva un ampio spazio di manovra di fronte al problema palestinese.

Cina ed USA si incontrano sul tema dei diritti

Partono oggi gli incontri bilaterali tra Cina ed USA sul tema dei diritti umani. L'incontro è stato sollecitato dagli USA, che vedono una pericolosa recrudescenza della repressione verso gli oppositori nello stato cinese. Gli USA arrivano a questo summit in una posizione di debolezza, le rivelazioni di wikileaks, sul trattamento e sui modi di reclusione dei detenuti di Guantanamo, hanno aperto uno squarcio sconcertante per la nazione che si è più volte posta come esportatrice di democrazia nel mondo. L'intento americano è quello di fare scendere la violenza e l'intensità della repressione di Pechino, che avviene, sostanzialmente per un motivo preventivo; infatti la paura dell'estendersi fino all'estremo levante del continente asiatico del vento della primavera araba si coniuga alla difficile situazione cinese dovuta, nel momento attuale, all'aumento inflattivo dei prezzi, che sta generando, nella terra del comunismo egualitario, un profondo divario tra ceti ricchi e poveri. Questa situazione viene vissuta con viva apprensione dalle dirigenza cinese, che ha basato la propria politica statale sul principio dell'armonia totale, ormai oggettivamente molto difficile da mantenere. Sul tutto aleggia poi il problema dei diritti civili, con il quale il Partito Comunista Cinese ha da sempre un rapporto molto difficoltoso. La Cina ha sempre affermato di non tollerare ingerenze sulla propria politica interna, atteggiamento che bilancia affermando di non volere ingerire in campo internazionale (assunto opinabile giacchè la Cina, attraverso la propria ingente liquidità interviene molto sulla politica interna di diversi stati, ad esempio di molte nazioni africane), ma il fatto che abbia accettato di partecipare a questo vertice su di questo esplicito argomento rappresenta quindi una novità. Quello che appare, con l'accettazione dell'incontro, sembra essere un riconoscimento implicito del problema; la Cina è conscia di essere al centro dell'attenzione internazionale per le repressioni che infligge al suo popolo e ciò risulta essere controproducente anche dal lato economico. Ma l'ulteriore novità è che gli USA non partono da una posizione tale da potere effettuare i rilievi che intende fare alla Cina. La situazione rischia di creare un'impasse, uno stallo dove entrambi i soggetti possono rinfacciare all'altro la scarsa autorità in tema di diritti umani. La questione non è irrilevante, ormai le superpotenze sono solo due, la Russia è retrocessa e la UE non ha mai assunto quel ruolo da protagonista sulla scena internazionale tale da permettergli di relazionarsi alla pari con i due colossi.
Se la credibilità americana subisce una defaillance come quella creata da wikileaks, non vi è un interlocutore accreditato per addebitare alla Cina i propri metodi repressivi. Tra l'altro non è da escludere che Pechino abbia accettato il confronto proprio in questo momento di difficoltà per Washington. Tuttavia per la Cina appare impossibile procrastinare un cambio di direzione al proprio interno, la forte sperequazione dei redditi è già fonte di profondi dissidi sociali e la questione dei diritti civili deve essere affrontata in una qualche maniera positiva, concedendo almeno alcune prerogative fondamentali legate alla cittadinanza. In questa ottica, se ci sarà una revisione della politica interna, la Cina potrà rappresentare un interessante laboratorio sociale.

La caduta dello spirito di Schengen

A Francia ed Italia, si affianca anche la Germania per richiedere una riforma del trattato di Schengen. Quello che viene richiesto alla UE è che in particolari casi avvenga la sospensione della libera circolazione entro i confini dell'Unione. Le dichiarazioni ufficiali parlano di volontà di affermare lo spirito del trattato, ma che con questi sviluppi storici, il trattato stesso rischia la morte. Viene quindi individuata la necessità di una riforma per mantenere viva la libera circolazione, ma solo con specificati requisiti. E' la bandiera bianca dell'Europa di fronte allo sviluppo delle migrazioni come effetto più ampio della globalizzazione. Di fronte all'impreparazione ed all'incapacità di gestire il fenomeno le nazioni si limitano a chiudersi in se stesse, aspettando che passi, in qualche modo, il problema. Non pare l'atteggiamento giusto cui orientarsi al problema. Nel fatto contingente, si possono anche capire le ragioni della sospensione della libera circolazione, ma ciò non deve essere una variazione strutturale ma, appunto contingente, un punto da cui ripartire per elaborare un approccio di diversa natura al problema più ampio. Abdicare sul tema della libera circolazione delle persone significa ammettere il fallimento dello spirito di Schengen, che rappresenta, insieme all'euro, la moneta unica comune, l'elemento unificante del continente europeo, attraverso lo strumento politico dell'Unione Europea. Esistono ragioni elettorali che condizionano purtroppo, la visione d'insieme, sia Francia, con Sarkozy, pressato dal Fronte Nazionale di Marine Le Pen, sia l'Italia, con Berlusconi, schiacciato dalla volontà della Lega Nord, non possono avere un indirizzo scevro da ragioni di pura contabilità politica. Sul piano comunitario si paga l'immobilità degli organismi centrali che non hanno preso di petto la questione, determinando soluzioni ricercate al di fuori dell'ambito comunitario, da parte dei singoli soggetti statali. Senza alcun cambiamento l'Unione Europea è destinata al declino delle sue funzioni, regredendo nella sua funzione essenziale, che è quella di coordinare i problemi a livello superiore dei singoli stati, nell'ottica unificatrice del continente in soggetto di diritto internazionale con prerogative ben definite, tali, cioè, da interpretare il ruolo di soggetto primario nell'ambito mondiale.

martedì 26 aprile 2011

Nucleare: discussioni e misure

In occasione dell'anniversario del tragico incidente di Chernobil, la Russia, attraverso il suo presidente Medvedev, intende promuovere un summit dei paesi del G8 per migliorare i livelli di sicurezza delle centrali nucleari. Il tema è più che mai attivo, data la situazione che si sta protraendo a Fukushima, dove continuano le emissioni nucleari, dopo l'incidente dovuto al terremoto nipponico. L'intenzione è di individuare una responsabiltà imputabile allo stato ove accadano i disastri nucleari e nel contempo creare un maggiore controllo e prevenzione sulle problematiche atomiche, che, non possono incidere solo nello stato in cui accadono. Intanto il Giappone richiede una revisione della scala con cui vengono misurati gli incidenti nucleari, giacchè ritengono che Fukushima non sia paragonabile, come pericolosità a Chernobil. La richiesta deriva dal fatto che entrambi gli incidenti sono stati classificati come grado 7, cioè il massimo previsto dalla scala. Ora secondo i giapponesi la differenza sta nel fatto che a Chernobil l'incidente fu causato da un malfunzionamento della centrale stessa, mentre a Fukushima è stato provocato da eventi esterni alla centrale cioè il terremoto e lo tsunami. La differenza rilevata dai giapponesi appare però ininfluente al fine della misurazione delle radiazioni e dei loro effetti, che sono poi quelli che incidono sulla salute delle persone. Probabilmente a Chernobil ci fu una esplosione e l'emissione conseguente fu immediata, a Fukushima, viceversa, si sta assistendo non ad una fusione quasi istantanea del nocciolo come in Ucraina, che ha prodotto da subito l'elevata emissione di radioattività, ma ad una emissione progressiva dovuta al progressivo deterioramento della centrale. I casi sono effettivamente diversi ma entrambi hanno prodotto una quantità elevata di emissioni, inoltre il fatto che il guasto sia stato provocato da elementi naturali non mette in salvo i progettisti ed i costruttori dalle deficenze della centrale nucleare. Per il Giappone avere un guasto paragonabile a Chernobil, significa un colpo clamoroso alla propria immagine di efficenza che rischia di ripercuotersi in tutta la filiera produttiva. Inoltre i lunghi silenzi del governo hanno di molto insospettito sia i cittadini giapponesi che il panorama internazionale circa il fatto che non tutto è stato detto e che elementi fondamentali della vicenda siano stati tenuti nascosti; questa richiesta di cambiamento della scala ha così generato domande sulle reali ragioni che l'hanno provocata. La questione non è da poco, perchè aggiungere un grado alla scala, potrebbe spostare i parametri di pericolosità degli impianti nucleari con ripercussioni sia in fase progettuale che in fase di prevenzione, quello che occorre, invece, è un ripensamento responsabile che permetta l'elaborazione di standard elevati e condivisi, anche mediante ispezioni di tipo internazionale.

Siria: storia e repressioni, il passato che ritorna

Nonostante la faccia rassicurante che guarda serafica dai cartelloni celebrativi, la bella moglie con l'acconciatura occidentale, che viene mandata in giro per il mondo con l'intento di rassicurare le nazioni in cui viene ospitata, Assad, il dittatore siriano, ricalca le orme del padre: brutalità e violenza cieca contro ogni opposizione. Negli anni ottanta le vittime della repressione sono state decine di migliaia, ora il figlio, dopo trenta anni, sta riprendendo le orme del genitore. Il tempo non ha annacquato il sangue della famiglia di dittatori e le variazioni epocali trascorse in questi anni, non hanno intaccato la rigida applicazione dei metodi di governo. La feroce repressione di Daraa rappresenta la continuazione ideale con la violenza paterna: ora, come allora, la giustificazione dei massacri era impedire la creazione di una enclave di musulmani estremisti. Nel paese siriano i mezzi di informazione saldamente in mano al governo presentano costantemente questo pericolo, tanto che una parte consistente della popolazione rimane fedele al governo in carica, tuttavia la portata della repressione è parsa del tutto esagerata agli osservatori internazionali. Un gruppo di paesi UE, presenterà una richiesta di condanna all'ONU, mentre gli USA hanno bloccato i beni siriani presenti sul proprio territorio. Il segnale costituisce una attenzione particolare verso cui si muove il mondo diplomatico, in questi anni la Siria è rimasta ai margini del teatro internazionale, pur conservando la propria importanza strategica, Damasco non ha fatto molto parlare di se, il giovane presidente veniva considerato protagonista di manovre debolmente riformatrici e gli USA hanno recentemente riallacciato i rapporti diplomatici. Le modalità della repressione hanno di nuovo allontanato la Siria dall'occidente, i problemi per Damasco non finiranno con il bagno di sangue, ciò che più viene temuto è di esaltare gli integralisti, finora tenuti al margine della società. Se le ribellioni sono partite per motivi economici ora rischiano di approdare verso lidi religiosi molto pericolosi per la stabilità della regione: se trent'anni prima il processo di è arrestato nel sangue non è detto che la storia si ripeta.

lunedì 25 aprile 2011

Sciti vs sunniti: le implicazioni di un confronto pericoloso

L'antica divisione in seno all'Islam, tra sciti e sunniti sta tornando ad essere una variabile di peso nell'analisi della politica internazionale. Le sollevazioni presenti nei paesi del golfo persico non sono solo di natura riguardante fattori politici, economici e sociali, ma si stanno sempre più connotando per il duro confronto tra le due principali visioni islamiche. L'inimicizia tra sciti e sunniti resiste anche se i seguaci delle due fazioni convivono nello stesso stato. Anzi questa appartenenza costituisce la fonte di grandi differenze nell'ambito sociale. E' quello che succede in Arabia Saudita, Bahrein, E.A.U. e Kuwait. Sono paesi dove i sunniti sono alla guida delle amministrazioni statali e gli sciti lamentano gravi discriminazioni: da quel punto alle sollevazioni popolari il passo è stato breve. Ma la descrizione non è così semplice, perchè nell'economia dello svolgimento dei fatti entrano altri attori, che tendono ad influenzare pesantemente la situazione. Sono attori esogeni alla realtà dei paesi sopracitati, perchè si tratta di altri soggetti internazionali. Il principale elemento è costituito dalla politica estera iraniana, che attraverso la supposta tutela della popolazione scita, tenta di influenzare, o meglio di ingerire nella politica interna dei paesi del golfo. I metodi messi in campo da Teheran sono l'invio di consulenti e dei Pasdaran, per il diritto internazionale si tratta indubbiamente di azioni vietate, tanto che i paesi del golfo persico hanno più volte chiamato in causa la teoria del complotto iraniano ai loro danni. In tutto questo quadro occorre citare l'annosa rivalità tra Teheran e Riyhad, le capitali riconosciute di sciti e sunniti, per la supemazia nell'Islam. Ragioni pratiche impongono all'Iran di agire in questo modo: sfondare nel mondo sunnita significa affermare la propria influenza e potenza da fare valere come catalizzatore per aggregare sempre più soggetti intorno al proprio progetto. L'Arabia, oltre alla propria potenza può contare sul sincero appoggio americano, che conta sui sauditi come principale strumento di contenimento dell'espansionismo iraniano. Occorre ancora dire che quello che pratica Teheran non può riuscire a Riyhad, perchè i sunniti non hanno la stessa presenza numerica degli sciti sul territorio iraniano. Il sospetto, quindi, che dietro le proteste nei paesi del Golfo Persico vi sia la mano della repubblica teocratica è quasi una certezza, lo sviluppo delle cose potrebbe prendere una piega che nessuno si augura: cioè arrivare fino al punto che i due stati potrebbero avere uno scontro ufficiale e non più nascosto sotto oscure manovre, ciò significherebbe anche un coinvolgimento USA ed Israele subirebbe una pressione cui difficilmente si potrebbe arrivare ad un contenimento militare.

sabato 23 aprile 2011

L'Iran dietro la repressione siriana?

La feroce repressione siriana ha determinato la dura condanna di Obama, che ha colto dietro l'azione di Assad la mano del regime iraniano. Quella siriana è una vicenda che rappresenta un tassello in un puzzle molto più ampio. Dell'importanza della posizione geostrategica della Siria tutti sono consapevoli, mentre quella che sta emergendo è una alleanza, che si sta dimostrando molto stretta e per conseguenza molto temuta tra Damasco e Teheran. Per quest'ultima il legame con il regime siriano in carica è addirittura vitale, per la strategia diplomatica che è stata elaborata. L'Iran attraverso la Siria, punta al Libano, dove deve mantenere vivo il proprio rapporto con Hezbollah, che ha sua volta rappresenta uno dei principali strumenti di pressione regionali che Teheran usa per cercare di affermare la propria leadership sia nella parte di mondo islamico dove esercita la propria influenza, sia come capofila contro Israele. Per l'Iran il regime siriano, deve essere ben saldo, come per gli USA deve essere saldo quello dell'Arabia Saudita, sullo scacchiere regionale nessuno è disposto a sacrificare la propria regina. Assad appare in grossa difficoltà, anche per lui vale la regola che dice che più aumentano le repressioni, più un regime è in difficoltà. Il livello attuale della violenza esercitata è un indicatore che non mente, Damasco pare controllare in modo difficoltoso la protesta, per questo si pensa a consulenze iraniane sui modi di reprimerle. Del resto il silenzio della stampa governativa della repubblica teocratica sui fatti siriani appare molto eloquente, sopratutto in rapporto all'enfasi che gli stessi organi dedicavano alle rivolte del Mediterraneo del Sud, dove speravano, pare senza successo, di inserirsi. E' evidente che dietro si muove un duello tra USA ed Iran, chi si ggiudica la Siria altera i precari equilibri regionali, con, sullo sfondo, la questione israelo-palestinese.

venerdì 22 aprile 2011

Voto finlandese e deficenze UE

La Finlandia ha appena il tre per cento di immigrati eppure l'ultradestra ha ottenuto alle elezioni un successo politico rilevante; la ragione è che, per chi ha votato questo schieramento, la minaccia non proviene da un altro continente ma proprio dall'Europa. La situazione debitoria di Grecia, Irlanda e Portogallo peserà inevitabilmente sulla totalità dell'Unione Europea, il salvataggio doveroso da parte di Bruxelles prima o poi andrà ad impattare sui bilanci dei singoli stati. E' questa la leva principale che ha permesso di rovesciare i pronostici elettorali in uno dei paesi famosi per il proprio welfare. Appare chiaro il timore di una fetta consistente del popolo finlandese di perdere i propri diritti, guadagnati con una regolare tassazione ed una condotta lineare di bilancio, a favore di nazioni contraddistinte da allegre amministrazioni dei propri conti. Questa è una stortura evidente dei sistemi dell'Unione Europea, che non ha saputo esercitare un efficace controllo preventivo sull'andamento dei suoi soci; ma oltre alle mancanze di Bruxelles occorre rilevare le furbizie degli stati, che hanno sempre contrastato l'azione regolatrice degli organismi centrali. Questo risultato elettorale finlandese appare come una legge del contrappasso, dato che va in direzione completamente contraria delle intenzioni dei fondatori dell'Europa unita. Il problema non deve essere sottovalutato perchè presenta due aspetti strettamente correlati: da un lato l'ingresso in Europa ha favorito comportamenti fuori dalle regole, proprio perchè la UE garantisce una copertura piuttosto solida tramite gli ammortizzatori che il proprio ombrello garantisce; ma la presenza di stati che hanno esagerato favorisce la crescita degli euroscettici, non senza alcune ragioni. Il dato è importante e può essere gravido di conseguenze, perchè mancando la convinzione nell'istituzione europea il passaggio logico successivo è la mancanza di coesione, che favorisce i fenomeni come quello finlandese.

Rivolte e rivolte, i diversi atteggiamenti occidentali

Quali sono i reali sentimenti dei governi dell'occidente verso la primavera araba e cosa gli è più conveniente? Il discorso è complesso, rotto il sistema di equilibrio dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, che assicurava approvigionamenti energetici e controllo delle frontiere, mediante accordi con i dittatori caduti, i maggiori disagi si sono accusati per le nazioni affacciate sulla sponda nord dello stesso mare, i quali hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Infatti nonostante si sia rotta l'impalcatura su cui si reggevano varie convenienze, hanno dovuto piegare le loro necessità ai discorsi di prammatica sulla democrazia, per salvare la faccia di fronte sopratutto alle proprie opinioni pubbliche. Le reazioni dei paesi occidentali a questi sconvolgimenti sono state differenti, ma tutte improntate ad un sostegno sostanziale, seppure in forme diverse, agli insorti. La questione della rilevanza geopolitica della sponda sud del Mediterraneo ha impegnato gli USA limitato, che hanno cercato di essere comunque ai margini del problema, lasciandone la gestione principalmente all'Europa; questo atteggiamento ha rivelato il valore strategico decisamente meno importante per Washington, che di fatto ha delegato le questioni più spinose ai suoi principali alleati. Non così per la situazione del Golfo Persico, dove gli USA hanno tutto l'interesse che venga mantenuto lo status quo. Il regime presente in Arabia Saudita è ugualmente illiberale e dittatoriale di quelli presenti nella sponda araba del Mediterraneo, ma costituisce una roccaforte essenziale nello scacchiere strategico statunitense per la protezione di Israele e per arginare i continui tentativi espansionistici del regime iraniano. In buona sostanza, contando anche il fatto che Riyad è il maggiore produttore di greggio mondiale, l'Arabia Saudita è uno degli stati più funzionali all'occidente. Di conseguenza anche gli stati della regione collegati con la monarchia saudita non possono aspirare, tramite il dare sfogo alle proteste, di cambiare la situazione. Per l'appoggio dei sauditi, gli USA puntano su diversi fattori, uno dei più significativi è rappresentato dalla contrapposizione religiosa con Teheran, che costituisce uno dei caposaldi dell'inimicizia tra le due nazioni. Per gli americani i Sauditi pur essendo non certo moderati, rappresentano un alleato fedele su cui contare in modo assoluto e continuato a patto di non ingerire nei loro affari interni, infatti, aldilà di dichiarazioni scontate non si è visto attivismo alcuno per le dure repressioni effettuate nei paesi del golfo persico. E' vero che non sono manifestazioni in nome della democrazia come nella sponda sud del Mediterraneo, ma piuttosto sollevazioni di sciti contro il potere esercitato dai sunniti, tuttavia, nelle rivendicazioni ci sono anche elementi di matrice sociale sicuramente condivisibili. Gli USA non hanno un buon rapporto con gli sciti, ma non denunciarne la repressione è una ragione di mancata coerenza con i valori democratici che intendono esportare. In conclusione tutte le repressioni sono uguali, ma purtroppo alcune sono funzionali e necessarie per mantenere certe posizioni.

giovedì 21 aprile 2011

Per i ribelli libici in arrivo istruttori militari

Francia, Italia e Regno Unito invieranno istruttori militari per assistere e formare le truppe dei ribelli libici. La ragione di tale invio consiste, prima di tutto, nell'organizzazione della protezione dei civili e poi nell'assistenza formativa e logistica. Secondo dichiarazioni ufficiali si tratterebbe di pochi effettivi, tuttavia esiste il dubbio che questa sia la premessa per uno sbarco di forze di terra in Libia. L'ipotesi è tuttora scartata dalla NATO, che in questo senso non ha la copertura della risoluzione 1973 dell'ONU, che non intende aprire un nuovo fronte in terra islamica, dopo Iraq ed Afghanistan. Tuttavia la stagnazione del conflitto potrebbe accelerare la decisione singola di qualche nazione per muoversi al di fuori del quadro dell'Alleanza Atlantica e della risoluzione ONU. Più volte la Francia, ben conscia dell'insufficienza della sola azione aerea, ha sollecitato l'intervento con truppe terrestri al fianco dei ribelli per arrivare ad una soluzione più veloce del conflitto. L'entrata in guerra di truppe terrestri pone dei seri dubbi sulle reazioni dei paesi islamici, specialmente i più integralisti, che potrebbero interpretarla come una invasione del suolo musulmano da parte di eserciti cristiani. Questa evenienza è molto temuta dai governi occidentali perchè in questa fase di rivolte presenti nei paesi arabi, si punta ad evitare nel maggior modo possibile le ingerenze o comunque argomenti che possano dare l'occasione di ulteriori motivi di attrito. Frattanto gli USA stanno per varare un finanziamento di 17 milioni di euro a favore dei ribelli, i quali hanno affermato di avere ricevuto un quantitativo di armi da fornitori non ben precisati.

Il problema della riforma del Consiglio di sicurezza dell'ONU

Il dibattito intorno alla riforma del Consiglio di sicurezza, organo centrale dell'ONU, sta entrando in una fase centrale, per le continue sollecitazioni al cambiamento dei seggi permanenti. Fermo alla situazione determinatasi alla fine della seconda guerra mondiale, la composizione del Consiglio di sicurezza, appare ormai datata, di fronte all'evoluzione del mondo. Il principale alfiere della determinazione del cambiamento è lo stato del Brasile, che rivendica un seggio permanente, che comprende il diritto di veto, nel Consiglio di sicurezza. In realtà non è il solo paese a rivendicare maggiore importanza internazionale attraverso l'ingresso nel Consiglio, infatti anche India e Sud Africa spingono per riuscire ad entrare nell'organismo centrale dell'ONU. Le richieste non sono destinate ad essere soddisfatte, almeno in tempi brevi, perchè da un lato vi è la resistenza di chi già siede nel Consiglio e vede messa in discussione il proprio potere d'influenza, mentre dall'altro ci sono altri paesi che cercano di entrare nel Consiglio come la Germania. Il problema è che la struttura ristretta del Consiglio, cinque membri fissi più dieci a rotazione, non risponde più non solo all'evoluzione politica ed economica del pianeta, ma non è più rispondente neppure all'allargamento della forma democratica in sempre più nazioni del mondo. Se si vuole dare valore all'organizzazione sovranazionale in ambito diplomatico, occorre allargare il più possibile la partecipazione ed i criteri di democraticità. E' pur vero che ciò può creare un rallentamento delle decisioni, finanche a paralizzarle, ma non si può prescindere da questo criterio se si vuole dare valore ed efficacia alle risoluzioni ONU. Piuttosto, pur rimanendo validi i suddetti valori, occorre elaborare metodologie alternative come un Consiglio di sicurezza con membri a rotazione alternata, dove cioè, su di un totale di membri, poniamo quindici, la variazione dei seggi cambia per cinque seggi alla volta, dopo che sono stati in carica per un tempo x. E' chiaro che finchè la turnazione non sarà a regime i primi 5 membri resteranno in carica per x-1/3 di x, i secondi cinque per x-2/3 di x ed i terzi cinque per x. La difficoltà sta nell'individuare un criterio di turnazione e l'istituzione di un organismo di controllo. Gli attuali stati membri del Consiglio, difficilmente potranno cedere così tanto, ma è inevitabile che un tale potere di veto subisca delle limitazioni in un mondo così cambiato.

mercoledì 20 aprile 2011

Le tattiche terroristiche dei talebani in Afghanistan

In Afghanistan la tattica dei talebani muta operatività; le martellanti azioni dell'esercito alleato che hanno colpito le basi logistiche dei terroristi hanno inflitto gravi perdite di uomini e mezzi, costringendo i comandanti a rivedere le proprie tattiche di contrasto. Le tecniche di guerriglia classica, quella che ha sconfitto l'URSS ed ha tenuto in scacco la NATO in questi anni, non garantiscono più gli antichi successi. L'impiego sempre più massiccio di forze speciali da parte della NATO ha permesso di riscuotere successi che hanno costretto i Talebani a rinculare, con la maggior parte degli effettivi, nella zona montuosa a cavallo con il Pakistan, che permette di operare in una zona praticamente inespugnabile ma limita di molto l'azione militare. Per ovviare a questi ostacoli contingenti, i talebani puntano su azioni terroristiche dove vengono impiegati singoli kamikaze, che compiono i loro attentati su bersagli spesso simbolici, che permettono una grande risonanza mediatica. Inoltre gli attentati raggiungono lo scopo di creare terrore e paura nella popolazione afghana, inducendola a non collaborare con la NATO ed il governo legittimo. La diffusione della paura consente ai talebani di tenere sotto pressione la società civile, impedendo quello sviluppo normale che costituisce l'obiettivo del governo. La NATO e gli USA hanno elaborato strategie per contrastare questa escalation del terrore intensificando l'uso dell'intelligence e cercando di prevenire il possibile favore popolare alle formazioni talebane con l'incremento di azioni mirate sulla vita civile della cittadinanza come l'aumento di ospedali e luoghi di cura e scuole per proporre questi presidi civili, anche visti in ottica di luoghi di aggregazione, come alternative ai luoghi tradizionalmente radicati nella società e di matrice islamica estrema. L'uso del mezzo terroristico segna una debacle della potenza talebana nella società afghana perchè segnala il ricorso ad una lotta clandestina e non più in campo aperto come fino a poco tempo prima. Certamente così non è in tutte le zone afghane, ma dove accade, aldilà delle tragedie provocate dagli atti in se stessi, significa che il giovane stato afghano sta lentamente prendendo possesso del proprio territorio.

Considerazioni sugli sviluppi dei problemi energetici

La decisione di Roma di rinunciare al programma nucleare, segue la riduzione giapponese dovuta al disastro di Fukushima. Nel mondo la tragedia nipponica ha innescato una rincorsa a rivedere l'approvigionamento energetico che punta al nucleare. I grandi costi di gestione e sopratutto di smaltimento delle scorie radioattive e l'impatto emotivo, ma anche economico-politico generato dalla gestione della crisi nucleare ha provocato nelle opinioni pubbliche un deciso ripensamento per la generazione di energia elettrica attraverso l'atomo. Il momento per affrontare questo tema è tuttavia uno dei meno adatti dal punto di vista economico, grazie all'innalzamento dei prezzi del greggio dovuti alla congiuntura militare e politica presente nei paesi arabi. Questi due fatti sommati insieme, il disastro nucleare giapponese e l'innalzamento del prezzo del petrolio, impongono alcune riflessioni sul futuro dell'approvigionamento energetico, essenziale per il mantenimento del livello produttivo mondiale. In primo luogo lo sfruttamento delle energie alternative non è proceduto in maniera univoca in tutto il globo, per mancanza di volontà spesso legata a ragioni lobbistiche riguardanti le compagnie petrolifere. Ciò ha creato anche ricadute in senso ambientale. In secondo luogo non vi è stato un avanzamento della ricerca per trovare fonti alternative con cui rimpiazzare sia petrolio ( o comunque gas) che atomo. Il mancato sviluppo della fusione fredda ha costituito un freno ad una speranza che si stava concretizzando. Stante queste condizioni l'unica strada appare la razionalizzazione dei consumi, anche in ottica di possibili esaurimenti dei giacimenti fossili; quello che occorrerebbe creare dovrebbe essere una sorta di agenzia sovranazionale, emanazione dell'ONU, in grado di monitorare a livello mondiale i consumi per diminuire gli sprechi ed ottimizzare le risorse secondo le reali necessità dei singoli paesi. Questa agenzia dovrebbe essere anche in grado di comminare multe ed incentivare piani di sviluppo di sfruttamento delle energie rinovabili ed alternative e di finanziare progetti di ricerca ad hoc. Non è un'eventualità facile da verificarsi, ma è una soluzione concreta da prendere in considerazione da parte di tutte le nazioni.

L'Autorità Palestinese forza i tempi per la costituzione dello stato

L'irrigidimento statunitense sulla questione della Palestina, obbliga i dirigenti arabi a cercare nuove sponde per la costituzione dello stato Palestinese. L'attuale attivismo internazionale francese pone Parigi come uno degli interlocutori più favorevoli ad accogliere le istanze degli organismi che hanno necessità di trovare sempre nuovi partner diplomatici. Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità Palestinese, si è dato l'obiettivo della costituzione dello stato entro l'anno; si tratta di una meta ambiziosa per lo sviluppo della situazione internazionale, ma che costituisce per Sarkozy un buon banco di prova per le sue ambizioni di statista internazionale. Nonostante le buone intenzioni, ma soltanto a parole, di Israele, il processo della creazione dello stato è di fatto fermo. Tel Aviv ha in piedi troppe questioni tutte insieme che non riesce a gestire a dovere: intanto sul fronte interno, tiene banco la questione delle nuove costruzioni dei coloni che sono presenti su porzioni di territorio destinate allo stato palestinese, Israele ha necessità di rallentare le relazioni con la Palestina per rinegoziare i confini e fare rientrare i coloni all'interno del proprio stato. Sul piano internazionale Tel Aviv è concentrata sui sommovimenti alle proprie frontiere dovuti ai moti della primavera araba, rendere centrale la questione palestinese significa spostare risorse su di un tema, sul quale è ben mantenere di secondo piano per valutare lo sviluppo della situazione. Abbas, per sviare questi intralci, intende portare davanti all'assemblea dell'ONU in settembre, la richiesta di riconoscimento dello stato sulla base di quanto concordato nel 1967, compreso cioè tutta Gerusalemme est, la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Riuscire a fare arrivare sul tappeto della discussione internazionale, in modo ufficiale la questione Palestinese potrebbe porre seri problemi agli USA, che rentemente ha posto il veto al Consiglio di sicurezza su di una risoluzione che condannava il colonialismo israeliano sui territori palestinesi. Un rifiuto americano potrebbe essere interpretato dall'opinione pubblica internazionale come un ostacolo alla pacificazione anche in ottica mondiale, giacchè la questione israelo-palestinese è giudicata da molti osservatori una delle maggiori fonti di preoccupazione per la pace mondiale.

martedì 19 aprile 2011

Giappone: governo in difficoltà

Il Giappone comincia a dare segni di essere duramente provato dai recenti gravi fatti accadutigli. Nel mirino della critica c'è il governo al quale si imputa una scarsa leadership e gravi mancanze nella gestione della crisi. Secondo recenti sondaggi la maggioranza dei giapponesi non ritiene adeguato questo governo ed invoca un cambiamento di esecutivo. Molto peso negativo che influenza l'opinione pubblica è dato dal fatto che la TEPCO ha dichiarato che l'emergenza nucleare potrebbe durare fino al 2012, a questo si aggiunga il ritardo del riconoscimento del massimo grado di pericolosità, il settimo, equivalente a Chernobil, giunto solo la scorsa settimana dal governo nipponico. La società giapponese ha vissuto le continue dichiarazioni ufficiali, continuamente contraddittorie, come una lesione del rapporto di fiducia con il governo. La società giapponese non è abituata a vivere momenti così intensi di conflittualità e questo malessere non giova al clima nel quale deve maturare la ricostruzione. Anche dal punto di vista internazionale i rapporti con i paesi vicini, che si affacciano sul mare teatro dell'incidente nucleare, non sono buoni. Sia la Cina che la Corea del Sud hanno duramente criticato la scarsità di notizie relativa alla contaminazione dello specchio acqueo. Nonostante la grande compostezza con cui i giapponesi hanno affrontato le calamità la misura pare ormai colma ed ora la situazione interna si fa di più difficile gestione.

Analisi dell'affermazione dei movimenti localistici e di ultradestra in Europa

L'affermazione dell'ultra destra in Finlandia, costituisce un chairo segnale di partenza per analizzare l'evoluzione delle tendenze politiche che si stanno verificando in Europa. Di fronte all'evoluzione storica della società mondiale, il vecchio continente appare culturalmente impreparato per cogliere ed interpretare la portata dei nuovi cambiamenti giunti con la sempre più estrema globalizzazione. La trasformazione dei partiti di destra in formazioni democratiche non si è pienamente compiuta in tutti gli stati, così si sono determinate situazioni sbilanciate che hanno lasciato spazi aperti da occupare per movimenti radicali di matrice spesso estrema. Vi è una responsabilità sia sociale che culturale degli stati, che non hanno saputo interpretare in chiave futura fatti epocali come la caduta del muro di Berlino. La caduta della cortina di ferro è stato il via alla globalizzazione, anche se solo su scala continentale, ma ciò non è bastato ad interpretare il cambiamento che si stava verificando. Tutto il vecchio continente non è stato preparato allo sconvolgimento in arrivo e ciò ha generato attegiamenti di chiusura, che hanno costituito terreno fertile per sentimenti estremisti. La caratterizzazione di questi movimenti si fonda sulla presunta conservazione di posizioni potenzialmente messe in pericolo dalle novità risultanti dal fenomeno globalizzazione; tali posizioni, di vantaggio, sono basate, secondo questi partiti e correnti di pensiero, su ricchezza che può essere erosa da processi redistributivi innescati da effetti conseguenti, in ultima analisi dalla globalizzazione. La politica proposta, basata sulla chiusura e di ceto e di territorio e di cultura, trova facili consensi in tutti quegli ambienti che temono la perdita di posizione, anche minima, scartando così le possibilità che i nuovi fenomeni possono presentare. Alla fine il risultato più evidente è l'immobilità sia culturale che economica; ma questo non è più possibile in un mondo dove il cambiamento non è solo un fatto assodato ma anche incontrovertibilmente veloce. L'affermazione di tali movimenti determina così una decrescita di quei paesi dove questi partiti riescono a riscuotere un successo elettorale tale da influenzare almeno il governo vigente. L'arroccamento e l'isolamento sono poi il passo seguente, le nazioni condizionate da questi partiti non riescono a sviluppare, fin dal sistema scolastico ed universitario, un ambiente culturale sufficientemente pronto ad accogliere le novità ed il sistema economico si rifugia in produzioni destinate a diventare obsolete. Anche i sistemi politici si involvono e non riescono a rimanere al passo dei tempi con una adeguata produzione di leggi e regolamenti. Infine il dato più preoccupante è che le altre forze politiche inseguono questi movimenti sul loro terreno e piegano la loro ideologie a sentimenti transitori senza elaborare strategie alternative.

lunedì 18 aprile 2011

La situazione libica non si evolve

La situazione libica è sempre più critica: dal punto di vista militare l'azione della NATO registra una impasse, in parte dovuta alla scarsità degli armamenti a guida laser e in parte alle difficoltà diplomatiche, che rendono l'azione politica intermittente e priva di coordinamento. Il problema degli armamenti significa che l'alleanza ha sottostimato la durata della guerra e la modalità di conclusione; il solo uso della forza aerea non basta ad arrivare alla vittoria e per ora l'impiego della forza terrestre non è previsto. Sul campo la situazione militare è di stallo, il che significa continui attacchi, con morti e feriti, da una parte e dall'altra con maggiore preponderanza delle truppe di Gheddafi, che da qualche tempo fanno uso di bombe a grappolo, contravvenendo alle convenzioni internazionali. Particolarmente difficile al situazione di Misurata, colpita più volte specialmente nelle sue unità produttive. In campo diplomatico quello che si persegue maggiormente è la ricerca di un paese, che non abbia firmato il trattato di Roma sulle estradizioni, che possa ospitare il Colonnello in un esilio dorato: Ciad, Uganda e Mali sono le destinazioni più probabili. Per ciò che riguarda la risoluzione ONU, Mosca ha rilevato, non senza fastidio, che l'azione dei paesi volenterosi ha di molto superato i confini della disposizione 1973, interpretata in maniera troppo estensiva. La critica russa arriva nel momento nel quale i grandi paesi in via di sviluppo, tra cui India e Brasile chiedono una riforma del Consiglio permanente dell'ONU, regolato con queste disposizioni dalla fine della seconda guerra mondiale.

L'azione iraniana nel Golfo Persico

Mahmoud Ahmadinejad accusa pubblicamente gli USA ed Israele di provocare tensione nei paesi arabi, dopo che le monarchie del Golfo Arabo hanno chiesto all'Iran di cessare l'ingerenza nei loro affari interni.
Il motivo dell'ingerenza di Teheran, paese a maggioranza scita, che è un problema esistente e concreto, riguarda la notevole presenza scita, che in molti casi denuncia pesanti discriminazioni nei paesi del Golfo, in nazioni governati da famiglie sunnite. Il tentativo di sfondamento politico da parte iraniana è la conseguenza di un piano elaborato per aggiudicarsi la supremazia morale, come nazione, nell'ambito dell'Islam. L'antagonismo con l'Arabia Saudita è cosa nota e che si trascina da molto tempo tra i due paesi, ed è data dal fatto che entrambi rivendicano di essere la guida degli islamici. Teheran ha approfittato ed approfitta del vento di rivolta che soffia sui paesi del Golfo per spingere gli sciti contro i propri governi. L'operazione nasce, però in un contesto molto rigido, in paesi con diritti limitati e la situazione che si presenta risulta essere una novità. Questo determina uno spaesamento dei regimi del Golfo che si trovano spiazzati di fronte alle crescenti proteste. Quello che viene accusato all'Iran è di fornire agli sciti in rivolta, sostegno sia metodologico, che finanziario per organizzare le proteste. La reazione del presidente iraniano è curiosa, perchè accomuna perfino Israele alle dinastie del golfo, ma non è del tutto sbagliata perchè a Tel Aviv non conviene un sovvertimento nei paesi arabi sunniti. Intanto il ministro degli esteri iraniano si muove presso l'ONU per una richiesta d'intervento che ponga fine alle repressioni nei paesi sunniti.

Lo stato di salute dell'Unione Europea

Uno spettro si aggira per l'Europa e pare andare ben oltre il tradizionale euroscettiscismo. Non si sta parlando di impressioni e sentimenti ma di fatti ed accadimenti che mettono in serio pericolo l'esistenza stessa dell'Unione Europea. Le divisioni in seno alla UE sul tema della guerra libica e per i problemi sull'immigrazione mettono alle corde i rapporti tra gli stati principali. Questo stato di cose è la conseguenza diretta di una politica miope e limitata al solo interesse del singolo stato, fuori dal contesto più ampio di portata continentale. L'esempio del rapporto tra Roma e Parigi sulla questione emigrazione è esplicativa del deterioramento della situazione. Sullo sfondo di una gestione imprevidente ed inadeguata dei due paesi, vi è anche l'atteggiamento UE che ha mancato di regolare dall'alto la situazione con decisioni pilatesche. Il dato rilevante è che la spinta dei movimenti localistici e populistici tiene in scacco la politica degli stati e di conseguenza, a cascata, quella della UE. Sul fatto degli immigrati, Francia ed Italia sono ricorse, l'una nei confronti dell'altra, a mezzucci patetici di reciproca scorrettezza, scendendo ad un livello bassissimo; questo perchè entrambi i governi sono sotto ricatto da parte di partiti che possono rubargli la scena da destra e ciò ha provocato la rincorsa spasmodica a scavalcarli su temi che, alla fine, pur essendo reali, sono sentiti in maniera particolare, da una parte minoritaria della popolazione. Tuttavia l'aumento del gradimento di questi movimenti, come si registra anche dal risultato del recente voto elettorale in Finlandia, costituisce più che una spia di un malessere che attraversa l'Unione Europea. La mancanza di una gestione decisa ed orientata, che parta da Bruxelles, alle problematiche più vicine alle persone, permette, specialmente in tempi di crisi economica, di sfondare facendo leva su sentimenti protezionistici, a quei movimenti che puntano su soluzioni generiche e populiste. E' questa ragione, cioè il successo dei movimenti localistici, a ben vedere, ad aprire delle crepe nel processo di europeizzazione, che pareva avviato. La UE non si è resa conto di essere sull'orlo di un abisso ed ha continuato a governare con il proprio tran tran, senza accorgersi delle avvisaglie della crisi, prima di tutto sociale. La cultura del ripiegarsi su se stessi da parte di stati proverbialmente aperti al mondo costituisce un ben misero rifugio, che non può che dare risultati scarsi di fronte ai cambiamenti epocali che si susseguono a ritmo frenetico. A ciò si devono sommare le esigenze della classe politica, che risulta incapace di elaborare progetti di grande respiro, perchè pressata dall'urgenza dei risultati sul breve periodo; la miscela costituisce un cocktail esplosivo per lo stato dell'Unione: a cui mettere al più presto riparo se non si vuole ripiombare nei tempi bui delle divisioni.

sabato 16 aprile 2011

Le possibili conseguenze del taglio francese dei permessi di lavoro

La Francia annuncia che ridurrà di 20.000 unità i permessi di soggiorno per lavoro; la decisione è frutto di un'analisi sulla necessità stimata di lavoratori stranieri per la saturazione del mercato del lavoro francese. I paesi che saranno più colpiti saranno le aree del nordafrica che hanno maggiori legami con l'ex paese coloniale. Guarda caso sono gli stessi paesi che stanno alimentando fortemente l'attuale traffico di migranti e sui quali verte il dibattito che riguarda Parigi e l'Europa. Che il fattore economico incida fortemente sulla riduzione dei permessi di soggiorno è certamente un fatto assodato, tuttavia in questa fase ciò pare più un pretesto per giustificare una soluzione politica. Il problema migratorio sta affliggendo i rapporti tra gli stati europei e la mancanza di una soluzione condivisa determina singole determinazioni statali. La decisione francese rischia di creare un effetto domino nell'ambito dell'Unione Europea, con ogni stato costretto a deliberare risoluzioni slegate dalla totalità. La mancanza di capacità di fare sistema creerà una serie di problematiche relative ad ogni singolo stato, che l'Europa non sarà più capace di coordinare. E' chiaro che gli stati che ne faranno principalmente le spese saranno quelli di frontiera, chiamati a gestire anche per gli altri, il problema migratorio in ambito continentale. La situazione di contrasto, se il problema non sarà trattato a livello centrale, è destinata ad acuirsi, anche in relazione agli immediati sviluppi delle varie situazioni dei paesi arabi e dei paesi africani, battuti dal flagello della fame. L'assunzione di singole politiche, in ordine al problema dei migranti, creerà certamente delle norme contrastanti tra le disposizioni di legge degli stati, specialmente quelli confinanti, generando situazioni di potenziale contrasto di ordine diplomatico. La soluzione francese non è il metodo più corretto, ma soltanto una misura contingente di un problema politico sia esterno che interno (le imminenti elezioni presidenziali), che rischia di arrecare un danno anche in misura di economia di scala politica. L'Europa deve intervenire al più presto per ristabilire le proprie prerogative in ambito di struttura sovranazionale.

Al Qaeda incita alla sollevazione gli arabi

Il numero due di Al Qaeda Al Zawahri ha incitato tutti i musulmani del nord africa a sollevarsi contro la NATO, che ha invaso il paese islamico della Libia, ma si è anche rivolto contro il rais di Tripoli Gheddafi. L'andamento della situazione della sponda sud del Mediterraneo ha di fatto relegato Al Qaida in una posizione di secondo piano, perchè le masse nordafricane richiedono democrazia e non valori oscurantisti. Tuttavia l'organizzazione terroristica non rinuncia alla propaganda antioccidentale e tramite questa cerca di influenzare le parti più estreme presenti sulla scena. La chiamata alle armi contro la NATO, rea di invasione di suolo islamico, è un argomento che fa sempre presa su alcune parti della società araba, ma in questo momento sembra più un atto di presenza che un reale pericolo. Attualmente la rilevanza di Al Qaeda nella regione pare limitarsi ad alcuni infiltrati presenti tra gli insorti libici, dei quali i servizi segreti occidentalin paiono al corrente. A questo proposito lo stesso colonnello Gheddafi ha recentemente sostenuto di essere in combattimento contro Al Qaeda, identificando, cioè la totalità dei ribelli, come componenti del gruppo terroristico. La dichiarazione è ad uso totalmente propagandistico e non costituisce una novità nel lento trascinarsi del conflitto.

L'attività della Banca Mondiale

Abbandonato l'obiettivo della crescita economica, perchè sostanzialmente senza presupposti di base riscontrabili per l'intero pianeta, l'attività della Banca Mondiale si è concentrata sulla lotta alla povertà focalizzando i suoi obiettivi sulle questioni dell'acqua potabile, dello sviluppo sostenibile in relazione al rispetto ambientale e sociale, sostenendo progetti in tal senso a prescindere dal regime politico della nazione beneficiaria. Questa politica è stata dettata dalla consapevolezza che il traguardo della crescita non può essere neppure contemplato se non vengono raggiunti obiettivi minimi di base comuni a tutte le nazioni. In questo quadro risulta essenziale il monitoraggio dei prezzi dei generi alimentari, che costituiscono il primo gradino per elevare gli standard dei paesi poveri. Quello che si sta registrando è un dato preoccupante dato che l'aumento dei prezzi degli alimentari è balzato in avanti del 36%, andando pericolosamente vicino ai massimi rilevati nel 2008. Il numero dei poveri nel mondo, coloro che vivono con una somma inferiore a 1,25 dollari al giorno, cresce di 68 persone al minuto, e si aggira intorno al miliardo di persone. Le varie crisi che attraversano il mondo, in special modo quelle che riguardano la produzione di greggio, stanno già incidendo in maniera rilevante sul prezzo dei generi alimentari e la loro fine che non si intravede fa pronosticare ulteriori innalzamenti dei livelli dei prezzi; se, poniamo il caso, gli aumenti raggiungessero la quota del 30% a ciò corrisponderebbe un numero di nuovi poveri di 34 miliioni di persone. Lo scenario che potrebbe prefigurarsi apre situazioni con implicazioni differenti ma con ripercussioni sull'intero mondo e di conseguenza sull'economia e sui rapporti diplomatici. Un esempio per tutti il sicuro incremento delle migrazioni, se non viene messo un freno all'aumento dei generi alimentari. Dal canto suo la Banca Mondiale propone, attraverso il suo presidente, di investire il G20 nella risoluzione dei problemi della carenza di cibo un diverso approccio nelle fasi produttive e di una nuova condotta per ciò che concerne le esportazioni di derrate alimentari.

venerdì 15 aprile 2011

L'escalation turca nel mondo islamico

L'azione diplomatica turca cerca di essere al centro della scena islamica. La strategia di Istanbul per accrescere il suo peso e la sua influenza tra i paesi musulmani continua senza sosta e si arrichisce di due nuovi episodi molto significativi. Il primo, che la pone di fronte ad Israele, riguarda la costruzione di una seconda flotta di aiuti da portare a Gaza, dopo che il primo tentativo, di qualche mese addietro, ha causato la rottura diplomatica tra i due paesi. Israele teme molto questo secondo episodio, perchè già nel primo ha avuto un grande ritorno negativo, sul piano internazionale e la Turchia gioca proprio su questo timore per portare avanti la sua politica: essere l'alfiere degli aiuti alla popolazione di Gaza, la mette sotto una luce particolarmente favorevole con l'opinione pubblica islamica. Il secondo fatto che rema nella direzione per guadagnare influenza è la concessione di un ufficio diplomatico per i Talebani ad Istanbul, in modo da favorire il dialogo verso la pacificazione sia in Afhganistan che in Pakistan. La mossa mette al centro della delicata questione Istanbul, che si pone come autorevole mediatore tra le parti, offrendo qualcosa di più che una semplice consulenza. Questi fatti, giunti ad altri esercitati nelle zone a levante e a meridione dei propri confini, pongono la Turchia sempre più fuori dall'orbita europea. Il rifuto della UE ad ammetterla nella propria organizzazione, ha obbligato la Turchia a volgere il proprio sguardo verso paesi più ben disposti, valorizzando nei loro confronti le affinità e le similitudini presenti. La capacità economica, politica ed anche militare, fa di Istanbul la più grande potenza dell'area, capace di ritagliarsi un prestigio da giocare anche su tavoli che vanno ben oltre l'importanza regionale. La crescita diplomatica turca permette di inquadrare l'errore europeo a rifiutarla come socio permanente effettivo dell'Unione Europea: un guasto da riparare al più presto.

Cosa può esserci dietro l'omicidio di Arrigoni

Il tragico omicidio del cooperante italiano Vittorio Arrigoni, chiarisce, purtroppo, la dura crisi presente tra le varie facce dei movimenti che lottano per la Palestina libera. Appare evidente che Hamas è stato scavalcato nella pratica della lotta armata da fazioni inquinate dall'ingresso di Al Qaeda nella contesa. E' chiaro che lo scopo di queste parti estreme è estremizzare al massimo la lotta, senza contemplare il dialogo con Israele. Si tratta di una tattica totalmente distruttiva, che mira a fare terra bruciata attorno al problema palestinese per esasperare al massimo gli animi; quello che emerge è l'individuazione del nemico, non solo all'esterno, Israele, ma anche all'interno, dove perfino Hamas fa la figura di movimento moderato. Chi ha l'interesse che accada una rottura senza l'opzione di ritornare indietro, quando perfino le due parti si sono dette d'accordo su di un cessate il fuoco? Non certo i palestinesi, provati da anni di guerra e privazioni continue; ma neppure gli israeliani, che ora paiono alle prese con problemi di politica internazionale ai loro confini. Non pare improbabile la presenza di una nazione straniera che trama alle spalle delle trattative, per cercare di imporre un fallimento che avrebbe ripercussioni nefaste, prima sulla regione e poi sul mondo intero. Il fallimento di Al Qaida di riuscire ad entrare dalla porta di servizio delle rivolte arabe, dove è stata di fatto emarginata, apre nuovi scenari estremi per il movimento terroristico, che non può permettersi di perdere le luci della ribalta. Ma occorre chiedersi quale è il principale alleato del massimo movimento terroristico islamico; quale è la nazione che ha più da perdere, con la probabile instaurazione delle democrazie nei paesi arabi ed infine qual'è il principale nemico dichiarato di Israele. L'evoluzione della politica nei paesi arabi, con la probabile, anche se faticosa, affermazione di sistemi democratici, pone nell'angolo la dittatura teocratica iraniana, che non vede di buon occhio, per diverse ed ovvie ragioni, essere uno degli ultimi baluardi dell'estremismo islamico. Lo stato di isolamento può essere deleterio per il regime di Teheran, già oggetto di rivolte interne, finite solo perchè soffocate nel sangue. La piega presa dagli eventi costringe a stringere in maniera sempre più serrata l'alleanza con Al Qaida, e ciò costituisce un ben triste destino, perchè mette l'Iran ai margini del panorama internazionale. Forzare la mano potrebbe essere l'estremo tentativo di catalizzare ancora i pochi consensi in grado di essere addensati attorno ad un ideale di violenza. La distruzione di Israele, ancorchè impossibile, risulta, in certi ambienti, un obiettivo ancora capace di mobilitare favori.

giovedì 14 aprile 2011

L'ivoiritè valore civico determinante in Costa d'Avorio

Con l'arresto di Ggagbo la questione ivoriana è tutt'altro che conclusa. Il lavoro di pacificazione nazionale che toccherà al presidente legittimamente eletto Ouattara, sarà ancora più difficile proprio per la difficile e cruenta conclusione del confronto tra i due candidati. La questione ivoriana è rappresentativa ed è un caso scuola per tutto il continente africano. La costruzione dello stato della Costa d'Avorio è dovuta in gran parte al presidente Boigny, in carica dal 1960 al 1993, inventore dell'ivoiritè, un concetto rivoluzionario e fondamentale su cui fondare la coesione sociale dello stato. La costruzione degli stati africani, in epoca post coloniale, è stata spesso un affare raffazzonato, portato avanti con strumenti confusi e contraddittori. Passato infatti il primo periodo di euforia, conseguente alla nascita della nuova nazione, i governanti dei nuovi paesi africani si trovarono a dirimere questioni, spesso violente, basate sull'appartenenza tribale ed etnica. Le profonde divisioni hanno sovente portato a guerre interminabili e facili strumentalizzazioni da parte degli stati ex colonialisti, che sfruttavano questa instabilità per carpire le ingenti risorse presenti sui territori, che di fatto non venivano gestite. In questo panorama la Costa d'Avorio ha sempre rappresentato un caso a se stante, nonchè un esempio da seguire. Fondamentale è stato, per lo sviluppo pacifico dello stato, il superamento del valore etnico a favore di quello di cittadinanza, applicabile sia dal punto di vista politico che culturale. La rivoluzionarietà di questo concetto ha permesso alla Costa d'Avorio di essere un paese in pace con se stesso e di prosperare grazie alla sua principale fonte di ricchezza: il cacao. Successivamente il concetto di ivoirité è stato stravolto, prendendo a pretesto il grande flusso migratorio, causato proprio dalla stabilità del paese, perchè non lo si è voluto estendere ai nuovi cittadini di provenienza di altra nazione. Questo stravolgimento si è traslato anche in politica, oltre che nel sociale, diventando la principale fonte di contrasto tra i due candidati presidenziali. L'estremizzazione dell'ivoiritè ha permesso ha Ggagbo di dirigere la rabbia politica contro il suo avversario, fatto passare come mandatario di potenze straniere. Tuttavia la propaganda del presidente uscente non ha pagato, il senso di ivoiritè, così radicato nella popolazione ha determinato il voto a favore di Outtara.

Unione Europea: pericolo di disgregazione

Il malessere che corre in Europa produce sintomi preoccupanti per il futuro dell'unione. Gli euroscettici, pur essendo una minoranza, prendono campo grazie alle divisioni in seno all'istituzione ed anche per le mancanze oggettive di Bruxelles. La crisi economica ha aperto le prime ferite, l'incapacità di governare le difficoltà e di proporre alternative in grado di turare le falle giunta alla mancanza di fare sistema, ha risvegliato dissidi che parevano sopiti. I rigidi paletti imposti, con l'intento di fermare l'inflazione e costruire bilanci in linea ai parametri europei, hanno cozzato contro gli intenti dei politici che hanno bisogno di risultati immediati con cui placare gli elettori. La necessità di risultati subitanei è in contrasto con la velocità delle trasformazioni economiche nell'ambito del mondo globalizzato; in questa ottica non c'è tempo per programmi di lungo periodo, su cui, invece si fonda, giustamente, la costruzione dei piani economici europei. In questi spazi di euroscetticismo c'è posto per gli speculatori, cioè coloro che puntano ad un uso flessibile della svalutazione della moneta per giocare sui guagni delle esportazioni; questa era una politica comune prima dell'euro, la svalutazione selvaggia consentiva risultati immediati per la politica, per i quali la nostalgia non è mai scemata. Ma la situazione è precipitata con il problema libico, a quel punto sono venuti fuori tutti i nervi scoperti dell'Europa. La voglia di protagonismo diplomatico e militare di alcuni stati membri, che hanno travalicato gli organismi centrali europei, peraltro molto lenti a reagire, ha messo letteralmente il dito nella piaga sulle divisioni delle vedute circa la politica estera. Questo è dovuto anche allo scarso controllo delle istituzioni centrali ed al loro scarso potere di indirizzo; questa lacuna, mai colmata, ha permesso, alla prima occasione, l'emersione dei forti contrasti sulla azione diplomatica. L'euroscetticismo pare una caratteristica comune più accomunabile agli schieramenti partitici di destra o di centrodestra di tutto il panorama politico europeo; queste forme partitiche, spesso alleate con formazioni localistiche mal sopportano il ferreo e rigido controllo proveniente da Bruxelles, che vivono come una vera e propria limitazione alla loro azione di governo o di indirizzo; questa scarsa considerazione per l'unione europea deriva dal poco convincimento europeistico e dalla atavica diffidenza verso le istituzioni centralizzate. I momenti di crisi, sia economica che politica, giocano a favore di questi euroscettici, che hanno buon gioco a rimarcare le deficenze dell'azione europea. Tuttavia immaginare una europa disunita ed addirittura senza più la moneta comune, pare molto difficile; il processo di integrazione europea è andato troppo avanti per essere troncato; ma la diffidenza prende campo e questo può causare malanni notevoli. Bruxelles deve imprimere una accelerata alla propria azione, senza una maggiore visibilità ed una azione più incisiva, il processo di disgregazione avrà sempre più presa.

La dottrina Le Pen su UE, NATO ed euro

Marine Le Pen ha esposto la propria dottrina e le sue intenzioni in caso di elezione a Presidente francese. Molto ruota intorno alle problematiche internazionali, le questioni NATO, UE ed euro. In questi giorni sale il borsino degli euroscettici nel vecchio continente, sopratutto da destra pare scemare il convincimento dell'utilità della organizzazione europea, sono bastate le prime crepe venute alla luce per mettere in crisi un lavoro di decenni. Se così stanno le cose l'andamento è nettamente in controtendenza, in un ambiente globalizzato, dove gli stati tentano nuove forme di unione, pare francamente strano che l'unione più anziana mostri segni di stanchezza. La Le Pen, parte dall'euro per aprire la sua strategia di smarcaggio dalla UE, propone una politica con tempi lunghi, ma che alla fine porti alla fuoriuscita dalla moneta unica per riproporre il franco. Niente di nuovo è un vecchi tarlo di certa destra, sfuggire ai rigidi parametri della UE, per giocare sulla flessibilità della propria moneta, per adeguare il valore all'andamento economico, in un quadro fortemente instabile ma di completa autogestione. La mossa, a breve termine, darebbe certamente risultati, ma metterebbe in pericolo l'intera stabilità continentale. Uscire dall'euro sarebbe solo un primo segnale per la UE, è vero che c'è già il Regno Unito che ha mantenuto la propria moneta, ma il segnale politico sarebbe devastante. Ma la Francia ha già dimostrato di soffrire poco anche i lacci politici di Bruxelles, l'atteggiamento di Sarkozy nella guerra libica, la dice lunga sul sentimento generale che alberga a Parigi; Le Pen interpreta bene questi sentimenti e li estremizza, cercando di andare a colpire il cuore dell'elettorato. Per completare il quadro la candidata dell'estrema destra, etichetta peraltro rifiutata, annuncia anche l'uscita dalla NATO; è un chiaro tentativo di cavalcare la strada aperta già dall'attuale presidente francese e di scavalcarlo a destra, la grandeur francese fa sempre presa sul popolo d'oltralpe. Le Pen sta intrepretando le pulsioni di quella parte della società francese insofferente ai paletti delle organizzazioni internazionali a cui aderisce la Francia, perchè convinta che Parigi con le mani più libere potrebbe avere maggiori opportunità di gestire le situazioni e trarne maggiori vantaggi. C'è una parte di colpa in Bruxelles, se questi sentimenti prendono campo, l'assenza di interventi veloci e di una politica certa nella propria direzione ha spesso determinato situazioni ingessate e non all'altezza dell'importanza dei casi su cui decidere: se si vuole evitare che il sentimento antieuropeista si allarghi è necessario correre da subito ai ripari.

lunedì 11 aprile 2011

La Cina accusa gli USA del mancato rispetto dei diritti umani

La Cina, messa sotto pressione per le ripetute violazioni dei diritti umani, gioca la carta dell'antiamericanismo per distogliere da se stessa le attenzioni mondiali, dopo il recente incremento della repressione interna, nel timore di manifestazioni anti governative, come successo nel mondo arabo. La strategia cinese punta il dito sugli USA, che si ergono a giudice supremo delle violazioni dei diritti umani in casa d'altri, senza ammettere le loro violazioni. Quello che la Cina accusa è di utilizzare l'argomento dei diritti umani col fine di ingerire negli affari interni degli altri stati. L'argomentazione, pur avendo il sapore di vecchio strumento anti imperialista, ha un fondo di verità: il comportamento degli USA nelle guerre afghana ed iraqena non è stato adamantino e probabilmente gli episodi e l'esistenza stessa di Guantanamo, non depongono a favore degli Stati Uniti. Quello che è singolare che la critica venga mossa soltanto agli USA, quando si potevano accusare anche altri paesi, che condannano la Cina, ma non sono altrettanto trasparenti. La verità più probabile è che dietro questa presa di posizione, si celi l'inizio di una battaglia tra quelle che sono ormai le due più grandi potenze della terra. Citare il mancato rispetto dei diritti umani da parte degli statunitensi permette inoltre di aggregare una vasta platea internazionale, che in nome dell'antiamericanismo, si può trovare sotto lo stesso ombrello nonostante differenze rilevanti. Resta il fatto che la Cina ha la coda di paglia sull'argomento e non è certo il soggetto che può permettersi critiche verso qualsivoglia stato. Il livello di repressione di questi giorni dimostra come il gigante asiatico sia in difficoltà al suo interno ed ha bisogno che i riflettori internazionali si spengano al più presto per meglio tacitare il dissenso.

La Lega Araba chiederà la zona di non volo su Gaza

La Lega Araba chiederà al consiglio di sicurezza dell'ONU la creazione di una zona di non volo, analoga a quella istituita sulla Libia, per la striscia di Gaza, con l'intento di proteggere i civili palestinesi dalle ritorsioni dell'aviazione israeliana praticate contro i lanci di razzi effettuati da Hamas. La misura richiesta mira a bilanciare l'azione diplomatica della Lega Araba, che è stata oggetto di critiche da alcune parti dell'opinione pubblica araba, per l'appoggio alla zona di non volo libica che in realtà favorirebbe le potenze occidentali. Per accreditarsi le simpatie dei popoli arabi la Palestina è sempre un punto su cui contare, la richiesta all'ONU, permette alla Lega Araba di fare bella figura a costo zero, dato che difficilmente la richiesta verrà accolta. Se le intenzioni sono serie occorrerà vedere quali azioni la Lega Araba metterà in piedi in caso di rifiuto. Va detto che la richiesta non appare iniqua, se l'istituzione della zona di non volo è stata fatta in Libia, per proteggere la popolazione civile, non si vede perchè, attenendosi alla stretta logica del buon senso e non alla real politik delle nazioni unite, non debba valere anche per i civili della striscia di Gaza. Inoltre il momento per questa richiesta appare molto favorevole, giacchè Israele ed Hamas sembrano intenzionati a frimare un cessate il fuoco. Tuttavia un riconoscimento ufficiale in sede ONU della necessità di una zona di non volo su Gaza sarebbe un brutto colpo per la diplomazia israeliana, perchè sancirebbe l'effetiva sproporzione delle ritorsioni dell'aviazione di Tel Aviv, rispetto all'atto di offesa. Per questo motivo pare oggettivamente difficile che gli USA diano l'assenso alla richiesta della Lega Araba. Ma in caso di rifuto, potrebbe aprirsi un fronte diplomatico di difficiel gestione sia per gli USA che per Israele, che rischierebbe di compattare diverse nazioni che pensano iniquo il trattamento riservato ai palestinesi. In più c'è la questione libica, che non pare essere avviata ad una soluzione rapida, se la Lega Araba facesse mancare il proprio assenso alla zona di non volo sulla Libia, verrebbero meno le condizioni favorevoli per le potenze occidentali impegnate nel conflitto. Questa richiesta, quindi, rischia di aprire ferite di non poco conto nei rapporti internazionali, su cui è molto difficile fareprevisioni.

Perchè l'Italia è sempre più isolata in Europa

Il pasticcio dei permessi di soggiorno pone l'Italia in posizione ancora di maggiore svantaggio di fronte all'Europa. Anche il parere, totalmente negativo, della commissaria UE, che peraltro ha cambiato opinione, aggrava ulteriormente il rapporto con l'istituzione europea e con i membri più importanti. La provocazione di Berlusconi, che ha detto di dividersi dall'Europa costutisce niente di più che una boutade, ma segnala chiaramente gli umori che si respirano nel governo italiano. L'evidenza oggettiva è che il problema della grande ondata migratoria non è stato gestito bene, principalmente per la mancanza di un piano preventivo, che consentisse un intervento immediato ed efficace. Fin qui le mancanze italiane sull'organizzazione della gestione della crisi, ma se ciò è vero, risulta altrettanto vero che l'Europa ha praticamente abbandonato l'Italia al suo destino senza alcun aiuto concreto. Il fulcro del problema è dato dalla gran parte dei migranti, che usano la penisola, come sola porta d'ingresso in Europa per raggiungere altri paesi: Francia in testa, ma anche Germania e Benelux. Ora è chiaro che non si può chiedere all'Italia di gestire i problemi altrui, senza non solo, alcuna forma di collaborazione, ma addirittura trattarla in modo ostile. L'istituzione sovranazionale europea,dopo i primi timidi tentativi di seguire la crisi, ha virato sulle posizioni dei soci più forti, e coesi, della UE, con il risultato che l'Italia appare ormai isolata e sola di fronte al problema migratorio. Questo risultato appare la combinazione di due fattori: la scarsa influenza della politica estera italiana, per una scelta di campo frutto dell'azione governativa, che risulta maggiormente vicina alla Russia rispetto alla politica estera europea; questo ha spesso determinato visioni molto differenti dai paesi più importanti ed influenti della UE, Francia, Regno Unito e Germania, ed anche i tentativi in extremis per riallacciare rapporti più stretti con Berlino sono naufragati miseramente. La seconda ragione dell'isolamento italiano sulproblema migratorio è di ordine interno: le affermazioni elettorali ed il crescente maggior peso specifico nella compagine governativa del partito della Lega Nord, radicato nel settentrione italiano e di chiara impronta localistica, ha relegato il problema migratorio nel meridione italiano con il risultato che la divisione sul problema non è solo tra Italia ed Europa ma anche tra Italia del Nord e del Sud. Ciò ha giocato a favore della coalizzazione contro un paese che risulta disunito al suo interno e non riesce a presentarsi come blocco compatto e titolare di una politica estera di peso mondiale. Anche i tentativi di fermare le carrette del mare alla fonte, con la missione in Tunisia non ha dato i frutti sperati, ma non si capisce come la missione sia stata fatta senza la presenza del ministro degli esteri. Forse l'Italia ha bisogno di una personalità più forte e preparata in quella carica, che sappia riorganizzare la funzione ministeriale per l'importanza che compete ad un paese come l'Italia.

venerdì 8 aprile 2011

La UE prova e regolare la questione delle migrazioni

Finalmente l'Europa si accorge di dover esercitare la sua potestà e chiama i rappresentanti dei ventisette per cercare un accordo per ripartire il gran numero di rifugiati, dovuti alla guerra libica ed alla rivolte nei paesi arabi.
La situazione, fino ad ora, è stata contraddistinta da continue schermaglie tra Italia e Francia, sopratutto sul piano diplomatico e materialmente lungo la frontiera tra Ventimiglia e Mentone. L'Italia si trova nel paradosso di avere la legge anti immigrazione più dura del continente e ed essere nel contempo vittima di una ondata migratoria notevole, proprio perchè non in grado di applicarla. Il governo italiano, che non riesce a trovare un accordo con le regioni per la distribuzione sul proprio territorio dei migranti, ha elaborato un'escamotage tecnico per aggirare la sostanziale chiusura del trattato di Schengen da parte della Francia: vengono infatti rilasciati dei regolari permessi temporanei, che di fatto, permettono ai possessori di passare in modo legale le frontiere. La protesta della Francia, ma anche di Germania e Belgio, ha determinato l'intervento della UE, che dovrebbe emettere una direttiva per sancire la divisione dei profughi tra tutti i paesi componenti l'unione.

Prime concessioni del governo siriano

n Siria il regime, messo all'angolo dalle manifestazioni, inizia a condedere diritti alla minoranza curda, ai conservatori sunniti ed alle famiglie delle vittime della repressione.
Particolarmente significativa la concessione della nazionalità ai curdi, che dal 1962 ne erano privati, essendo, di fatto stranieri in patria. Si tratta di circa 320.000 persone, ritenuti potenzialmente pericolosi per il regime. Con questa misura si cerca di mantenere calma una zona al confine siriano, che potrebbe sollevarsi su istigazione della popolazione curda oltreconfine.
Inoltre sono stati liberati anche 48 curdi, precedentemente incarcerati per le manifestazioni dei giorni scorsi.
Una ulteriore misura è stata quella di riassorbire 1.200 dipendenti statali al loro posto di lavoro, dopo che lo scorso anno furono espulsi dall'amministrazione statale.
L'impressione è che queste misure costituiscano un tentativo di pacificare la situazione, ma non risolvano il problema di fondo che è costituito dalla richiesta di democrazia e maggiori diritti. Quello che si attende è una nuova ondata di proteste per ottenere che vengano riconosciuti maggiormente i diritti fondamentali, affossati dalla legislazione del 1962.

La tattica israeliana per il riconoscimento della Palestina

Israele ottiene dalla Germania che non ci sarà nessun riconoscimento ufficiale, da parte dello stato tedesco, di uno stato palestinese autoproclamato. Netanyahu teme molto che una eventuale proclamazione unilaterale da parte dell'ANP provochi una serie di riconoscimenti statali, che obblighino Israele nell'angolo; per Tel Aviv vorrebbe dire essere scavalcato nel ruolo di protagonista assoluto ed unico gestore della situazione. L'appoggio tedesco garantisce ad Israele un partner di primaria importanza e permette di risolvere un antico contrasto con la Germania. La Merkel ha espressamente dichiarato che il presupposto per il riconoscimento dello stato palestinese deve essere una soluzione condivisa tra ANP ed Israele. Incassato questo successo Israele non ha in realtà, battuto la pista giusta. L'accordo con la Germania assicura una visibilità notevole, tuttavia non è un paese arabo e l'influenza tedesca sulla regione è pressochè nulla. Netanyahu insiste nella sua strategia che non pone al centro delle trattative i paesi confinanti con l'area israelo-palestinese, continuare ad evitare interlocutori arabi o comunque favorevoli alla costruzione di uno stato palestinese non fa partire alcuna trattativa costruttiva sull'annoso problema. Tel Aviv gioca una partita soltanto dove è facile ottenere risultati, ciò fa parte del più complesso programma che intende rimandare sine die la questione palestinese in attesa di eventi più favorevoli. Il punto debole è che questa strategia è stata elaborata prima delle rivolte arabe, quando Israele poteva contare su punti fermi di sicuro affidamento. Il ribaltamento della situazione in Egitto, la rivolta in Siria ed in Giordania, dovrebbero avere cambiato i piani di Israele, che, invece procede imperterrito sulla condotta intrapresa. La mancanza di flessibilità nella diplomazia israeliana potrebbe creare un grave fattore, dannoso per la stabilità regionale e per lo stesso destino della nazione della stella di Davide.

giovedì 7 aprile 2011

La guerra segreta di Israele con l'Iran

Nei giorni scorsi una vettura con due cittadini sudanesi ed in territorio sudanese è stata colpita da un attacco aereo ad opera di un velivolo non identificato. La diplomazia sudanese ha affermato di essere certa che l'aereo era israeliano. Dal canto suo Israele nega ogni addebito
ma diversi elementi confermerebbero questa pista. Il traffico d'armi dall'Iran ad Hamas attraversa il terrritorio sudanese, dopo essere partito dal porto di Bandar Habbas; già nel 2009 un convoglio era stato attaccato dal cielo al confine tra Sudan ed Egitto, con 119 vittime.
La finalità di questi raid è di bloccare il traffico d'armi sofisticate con cui l'Iran rifornisce Hamas; la capacità militare e tecnologica israeliana può arrivare facilmente a colpire obiettivi fuori dal suo territorio grazie alla disponibilità di droni, aerei senza pilota, che vengono guidati dalle basi dell'esercito della stella di David.
La guerra sotterranea con l'Iran, raprresenta uno dei fronti, "caldi", di Tel Aviv, che monitora continuamente le vie battute dai fornitori d'armi; tuttavia la priorità è sabotare il programma nucleare di Teheran con attacchi informatici che bloccano i programmi iraniani e con attentati le cui vittime sono esperti nucleari che collaborano con la repubblica teocratica.

La grana laicità per Sarkozy

All'interno del partito del presidente Sarkozy infuria il dibattito sul laicismo. La politica intrapresa dall'UMP per ricercare una propria via alla laicità dello stato è andata a cozzare contro l'emorragia di voti nella recente tornata amministrativa, a favore dell'estrema destra di Marine Le Pen. In realtà la debacle è stata causata dal grande tasso di astensionismo giunto alla scarsa efficacia del programma di governo sul fronte interno, nei temi economici e sociali. Tuttavia la paura di perdere ulteriori consensi, ha scatenato il dibattito all'interno del partito; quello affrontato è uno scenario con una lama a doppio taglio, perchè, se da un lato, le istanze della società civile francese, anche in ambito conservatore, vanno nella direzione di una domanda di maggiore divisione tra stato e religione, quindi una progressiva laicizzazione, dall'altro lato nelle regioni più interne e maggiormente tradizionaliste, un processo che favorisca un atteggiamento più laico dello stato, appare come una abdicazione di fronte all'avanzata della religione musulmana, che ormai conta cinque milioni di fedeli nel territorio francese. D'altro canto anche l'elettorato musulmano rappresenta una grossa fetta di votanti a cui il processo di laicizzazione potrebbe non essere gradito, proprio per le norme concrete che si intendono proporre (valga per tutti l'esempio di vietare le manifestazioni di culto al di fuori delle aree religiose). L'UMP, appare quindi, in un vero e proprio "cul de sac", in vista delle elezioni presidenziali francesi del prossimo anno. Sarkozy, con questo tema, pensava di sfondare nell'area di centro sinistra, proponendo una immagine nuova del suo partito; l'avanzata di Marine Le Pen lo costringerà a rivedere i propri piani.

La Cina alza ancora i tassi di interesse

Ulteriore innalzamento dei tassi di interesse in Cina nel tentativo di raffreddare ancora il fenomeno inflattivo andato ben oltre le previsioni elaborate dal governo di Pechino. Quello che viene temuto è lo scoppio di una bolla speculativa che trascini l'economia cinese in un vortice pericoloso per tutta l'impalcatura della struttura produttiva. Dove non riescono i governi, pare che sia l'economia stessa a regolare il sistema, la misura appare un apprezzamento della moneta cinese, proprio quello che è stato sempre rifiutato da Pechino ai governo occidentali. L'economia globale ha così la meglio sui programmi degli economisti cinesi, che puntavano a mantenere basso il valore dello yuan, per mantenere alto il livello delle esportazioni; ma il punto a cui è arrivata l'economia cinese non permette il valore artefatto della moneta, pena una inflazione pericolosa. Sul fronte dell'espansionismo cinese continua la strategia che punta ad aumentare la propria influenza mediante prestiti superconvenienti a stati in difficoltà. L'ultima frontiera sono i paesi del pacifico, gli stati arcipelago, che non godono di floridezza economica ed i prestiti cinesi, particolarmente convenienti, sono un vero e proprio toccasana.

Nuovi ingressi nella coalizione dei volenterosi

Il secondo paese arabo, dopo il Qatar, entra a far parte della coalizione dei volenterosi, si tratta della Giordania, che sta partecipando all'azione con un proprio velivolo.
Secondo fonti non ufficiali, anche aerei degli Emirati Arabi Uniti si sarebbero levati in volo sulla Libia. I nuovi membri dell'alleanza sono particolarmente significativi perchè assicurano all'operazione un ulteriore assenso proveniente dai pesi islamici e pongono Gheddafi ancora più nell'angolo dell'isolamento.
Sul fronte puramente militare la difficoltà che patiscono i piloti alleati è quella di distinguere gli appartenenti dei due schieramenti, perchè le truppe lealiste hanno ora montato le mitragliatrici sui pick up, proprio come i ribelli.
Intanto il tiepido atteggiamento USA riguardo all'appoggio armato dipende dalla perplessità per la composizione del governo dei ribelli; gli americani temono che dietro i rivoltosi possano esserci elementi provenienti da flenge estremiste. Perplessità condivisa con la Turchia, a cui Bengasi attribuisce scarso impegno nella battaglia. Se questo è vero, per Ankara è anche una occasione per pesare di più nell'area del Mediterraneo, la Turchia sta, infatti, praticando una tattica avvolgente per ergersi a punto di riferimento dei paesi musulmani dell'area, discorso che porta avanti, in Libia, praticando una sorta di stop and go degli aiuti militari per accrescere la sua capacità
di influenza.

mercoledì 6 aprile 2011

Il segretario della difesa USA in Arabia Saudita

Il viaggio del segretario della difesa USA in Arabia Saudita, nasconde le preoccupazioni della superpotenza americana per i sommovimenti presenti nella regione. La maggiore preoccupazione riguarda i fatti yemeniti, dove dietro le rivolte potrebbe nascondersi una azione di Al Qaeda, che nello stato riscuote diverso successo. Una presa di posizione dei qaeddisti nello Yemen, od anche l'estendersi della propria influenza sul territorio, provocherebbe una pericolosa minaccia per gli alleati USA e per la stessa flotta americana presente nel Bahrein. La particolare vicinanza con l'Arabia Saudita con lo Yemen, mette lo stato di Ryad in posizione particolarmente pericolosa in caso di sollevazione guidata da Al Qaeda, che vede la monarchia regnante con grande avversione. Inoltre dell'aggravarsi della tensione nella regione si potrebbe avvantaggiare l'Iran, tradizionale nemico dei sauditi. Una destabilizzazione della regione creerebbe sicuramente una pericolosa falla nel sistema geodiplomatico statunitense, che ritiene la regione un punto chiave della propria strategia internazionale, oltre che determinante per l'economia mondiale essendo l'Arabia Saudita il più grande esportatore di greggio.

La diseguaglianza pericolo per la stabilità

Nel villaggio globale del mondo, le analisi finanziarie devono vertere su temi generali. Il direttore dell'FMI ha rilevato come la fragilità della ripresa economica mondiale contraddistingua la fase attuale e come questo fatto, da cui conseguono le forti disegualglianze sociali, possa innescare una nuova crisi innescata sulla prima. Il tasso molto elevato della disoccupazione dei paesi sviluppati fa il paio con una eccessiva produttività delle economie in via di sviluppo, che cercano di spingere sull'acceleratore della crescita creando al loro interno fenomeni inflattivi, l'associazione di questi fenomeni può creare un surplus delle merci, generando uno stallo dei consumi che potrebbe costituire un freno alla debole ripresa. Il fattore delle disuguaglianze sociali può essere la leva su cui agire per rialzare il tasso dei consumi, mediante una sua riduzione. Inoltre quello che viene maggiormente temuto è l'innescarsi di un circolo, non certo virtuoso, dove il fenomeno delle diseguaglianze socioeconomiche vada ad incidere sulla stabilità politica dei singoli stati. Anche nazioni di sicura democrazia possono essere protagoniste di fenomeni destabilizzanti legati alla situazione economica.

In Libia continua lo stallo, ma ora i ribelli vendono il petrolio

La NATO afferma di avere distrutto il 30% dell'arsenale di Gheddafi, ciò significa che il 70% è ancora in mano al colonnello; il che significa che una parte consistente è ancora a disposizione delle forze lealiste. I soli raid aerei non bastano a sbloccare la situazione di stallo, i limiti della risoluzione 1973 impongono che l'uso della forza aerea deve garantire l'imparzialità tra i contendenti, quindi l'intervento NATO non può spingersi oltre. La conseguenza diretta è che senza intervento con truppe di terra non può esserci lo sblocco della situazione, almeno in senso militare. L'eventualità è però ritenuta remota, lo sforzo economico e sopratutto politico richiede un investimento troppo elevato per essere portato a termine. Resta la strada diplomatica, ma il percorso è ancora troppo accidentato per prospettare una risoluzione in tempi brevi. Intanto La parte est del paese prova a trovare una via propria allo sviluppo economico: attraverso il Qatar è stata infatti avviata la vendita del petrolio proveniente dai giacimenti che si trovano nei territori occupati dai ribelli. E' una piccola svolta nello sviluppo del conflitto, un tentativo di normalità che significa anche sottrarre una quota sostanziale del potere di Gheddafi.

martedì 5 aprile 2011

Il fallimento della politica estera europea

La politica estera europea è travolta dagli eventi; già senza casi particolari la gestione era piuttosto travagliata, ma con le rivolte arabe e successivamente con la guerra libica: le incogruenze delle visioni dei singoli stati sono emerse in tutta la loro diversità. Ciò ha determinato una serie di riesami su tutta una serie di questioni internazionali che possono mettere a dura prova lo spirito stesso del trattato di Lisbona. L'assenza di una visione comune unitaria, giunta all'incapacità manifesta di produrre una sintesi sufficientemente rappresentativa della visione generale, capace di trovare dei punti d'intesa, provoca una mancanza di direzione che si concretizza in una somma vettoriale di azioni e reazioni che spesso sono uguali e contrarie e che comunicano, in definitiva, l'immobilismo risultante dall'incapacità del burosauro di Bruxelles. La mancanza di un'agilità nella risposta ai fatti diplomatici, a causa delle lunghe trattative, che spesso finiscono in un nulla di fatto, fanno mancare quella velocità di azione che è un requisito sempre più necessario per fare fronte all'esigenze diplomatiche che si succedono nell'attualità. La guerra di Libia ha provocato fratture difficili da sanare tra Francia, Regno Unito e Germania, tuttavia può essere anche un fattore di riflessione per ripensare radicalmente l'impostazione della politica estera europea. Uno delle cause più rilevanti della mancata unitarietà nella politica estera è la questione turca: Ankara stufa di aspettare l'ingresso in Europa ha rimodellato la propria politica estera volgendo ad est le proprie attenzioni; fuori dall'orbita europea, perchè rifutata, la Tuechia è stata capace di creare una fitta rete di rapporti sia politici, che economici con paesi come Iran, Iraq, Siria ed altri. Questa capacità turca poteva essere sfruttata a vantaggio dell'Unione Europea con maggiore lungimiranza. Un'altro aspetto saliente è il rapporto con la Cina: per convenienza economica l'aspetto dei diritti umani e della repressione non viene mai toccato, non si elabora una strategia comune per obbligare il gigante cinese ad un cambio di rotta, che tra l'altro sarebbe anche conveniente dal punto di vista economico, dato che Pechino opera tramite una concorrenza distorta data dai bassi salari. La mancata visione comune diplomatica si riflette anche nella materia economica, dove nel commercio estero, si procede in ordine sparso. Senza una soluzione che contempli maggiore unitarietà nella politica estera, la UE è un organismo zoppo e non in grado di stare sul teatro che conta delle problematiche mondiali.

Il ruolo dell'Unione Africana nella crisi libica

L'Unione Africana è l'ultima frontiera per la salvezza di Gheddafi. Negli scorsi anni la politica del colonnello nel continente africano è stata quella di portare un fiume di denaro che ha permesso diversi investimenti. Si è trattato spesso di interventi populisti capace di colpire al cuore le masse africane. La costruzione della Moschea Nazionale Gheddafi, in Uganda è un esempio magnificamente calzante; l'edificio è capace di ospitare 30.000 fedeli, costruito a Kampala in Uganda, fu inaugurato in pompa magna dal colonello con un suo discorso davati a 10.000 persone. Grazie alla grande liquidità il leader libico ha investito ingenti capitali in circa 21 paesi africani, contribuendo allo sviluppo economico di settori chiave quali le telecomunicazioni e l'agricoltura. Questo ha contribuito a fare di Gheddafi un capo di stato molto amato nel continente africano, grazie anche alla sua figura ed alla sua capacità di comunicatore, per le masse dei cittadini africani è il capo di stato capace di tenere testa all'occidente colonialista e sfruttatore delle materie prime africane. In un certo senso l'Unione Africana è stata costretta a prendere parte favorevolmente alla risoluzione 1973, costretta dagli eventi, in realtà la posizione è sempre stata tiepida e sostanzialmente concretizzata con un appoggio attestato sulle condizioni del minimo sindacale. Questo anche per le divisioni interne della stessa UA, dove non tutti i membri erano favorevoli all'appoggio all'istituzione della zona di non volo. La proposta della UA è quella di un cessate il fuoco a cui far seguire elezioni democratiche; è un obiettivo difficilmente percorribile specialmente nella seconda parte perchè si parla di una nazione che non ha mai conosciuto alcuna organizzazione sociale se non i clan tribali. Un problema da risolvere per la UA è anche uno dei paletti posti dai ribelli: l'uscita di scena della famiglia Gheddafi è ritenuta requisito essenziale per avviare qualsiasi forma di trattativa; peraltro è evidente che solo l'Unione Africana può convincere il colonnello ad accettare una uscita di scena onorevole che contempli l'esilio. L'Uganda si è offerta di ospitare Gheddafi, è una strada da percorrere per fermare il conflitto.