La ritorsione di Mosca, all’invasione ucraina all’invasione del territorio russo, si è concretizzata con attacchi aerei su ben quindici provincie di Kiev. Sono stati almeno 17 i bombardieri strategici russi impegnati nell’offensiva aerea, che ha avuto come obiettivo principale quello di colpire l’infrastruttura energetica ucraina. La stima dei missili russi utilizzati oltrepassa due centinaia, che hanno avuto come bersagli le città ed i territori circostanti di Leopoli, Dnipro, Cherkassy e Kiev. I nuovi danni provocati alle infrastrutture energetiche si devono sommare ad una situazione già difficile in questo settore, preso di mira come bersaglio strategico in vista della stagione invernale. Secondo alcuni analisti, l’incremento su larga scala dei bombardamenti, sarebbe una risposta all’invasione del territorio russo, ed in parte l’azione di Mosca può essere letta anche in questo modo, ma risulta indubbio che la strategia rientri nella volontà di colpire il sistema energetico ucraino, per rendere più difficile la situazione della popolazione; in ogni caso, come rilevato dal presidente ucraino, la necessità di eliminare le restrizioni alle armi occidentali risulta ormai improcrastinabile. Non si può organizzare una difesa adeguata senza colpire i depositi di approvvigionamento che l’armata russa utilizza sul proprio territorio, interrompere le linee di rifornimento appare come la migliore difesa preventiva. La richiesta ucraina, rivolta soprattutto a Francia, Regno Unito e Stati Uniti, appare giustificata dalla preponderanza della forza aerea russa, che, al momento, è l’unico fattore capace di fare la differenza. Fermare le incursioni di Mosca sui cieli ucraini e la protezione fornita dall’alto alle forze russe che occupano i territori ucraini, rappresenterebbe la soluzione capace di rovesciare le forze del conflitto ed arrivare ad eventuali trattative in maniera molto diversa per Kiev. Se si analizza quella che è stata definita la risposta russa all’invasione del suo territorio, la prima domanda legittima da farsi è come mai Mosca non abbia scelto di operare una azione equivalente nella provincia di Kursk contro le forze occupanti ucraine e riprendere il proprio territorio. Sul terreno l’avanzata di soldati ucraini più esperti, contro le truppe di leva russe, è stata abbastanza agevole ed a portato alla conquista di circa mille chilometri quadrati, con ventotto centri abitati, che ha costretto le autorità russe ha sfollare circa 121.000 civili. Una situazione che non si verificava dalla seconda guerra mondiale, tuttavia, la scelta del Cremlino è stata quella di mantenere le posizioni nel Donbass, senza spostare militari più qualificati per la riconquista del terreno perduto, ed anche la scelta di impiegare i bombardamenti direttamente in Ucraina solleva qualche dubbio. Gli interrogativi riguardano la capacità di mobilitazione delle truppe russe, intendendo militari scelti ed addestrati, che sembra essere arrivata alla fine delle proprie disponibilità, così come gli arsenali di missile ed ordigni per i bombardamenti, sui quali si è dovuto operare una scelta che ha tralasciato i territori occupati della provincia di Kursk. L’occasione per l’occidente, se si vuole avere qualche probabilità che si arrivi a delle trattative, sembra che debba essere sfruttata e ciò si può fare soltanto con un incremento delle forniture militari, soprattutto nel settore antiaereo, e nella fine della restrizione dell’uso delle armi occidentali contro il territorio di Mosca. Quello che deve passare, sia tra i governi, che tra i parlamenti occidentali, è l’idea che l’utilizzo delle armi occidentali usate solo sul territorio ucraino ne dimezza l’efficacia, diventando anche un inutile dispendio economico. Il concetto di guerra di difesa non implica l’utilizzo di armamenti soltanto sul territorio da difendere, ma anche sui territori da cui provengono gli attacchi, anche se questi sono sotto altra sovranità. Al momento le regole occidentali favoriscono Mosca, che, occorre, ricordarlo è quel soggetto che ha infranto ogni regola del diritto internazionale, e proprio per questo va fermata il prima possibile rendendola la più inoffensiva possibile. Le forze del Cremlino appaiono stanche e vulnerabili, come ha dimostrato la manovra ucraina nella provincia di Kursk e si basano principalmente sul predominio aereo; infrangendo questo predominio la Russia dovrà arretrare e sedersi al tavolo della trattativa non certo da un punto di forza. L’occidente ha il dovere di aiutare l’Ucraina perché quello è il migliore aiuto verso se stesso.
Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 28 agosto 2024
Il bombardamento russo svela la debolezza di Mosca
mercoledì 7 agosto 2024
La nomina del nuovo capo di Hamas preclude la pace
La decisione, probabilmente israeliana, di eliminare il capo politico e negoziatore di Hamas, Ismail Haniye, ha provocato la sua sostituzione con Yahya Sinuar, capo militare dell’organizzazione e considerato come colui che ideato l’attacco del 7 ottobre e, per questo, maggiore ricercato dalle forze di difesa di Israele. Questo avvicendamento forzato al vertice di Hamas rappresenta una risposta verso Israele, che appare una sorta di ritorsione contro Tel Aviv e che vuole significare un netto allontanamento dalle trattative di pace ed una virata verso un atteggiamento ancora più violento nella guerra di Gaza in particolare, e comunque contro ogni possibile intesa con gli israeliani. Si allontana anche la soluzione dei due stati, perché entrambi i capi delle due parti, Sinuar e Netanyahu, ora sono concordi proprio sulla contrarietà a questa soluzione. La scelta di Hamas, può essere compresa ma non condivisa, perché significherà una pressione ancora maggiore sulla popolazione civile di Gaza, con maggiori vittime e situazioni igienico sanitarie, se possibile, ancora peggiori di quelle attuali. L’impressione è che Hamas sia caduta nella trappola israeliana, il cui intento dell’eliminazione di Haniye era proprio quello di sostituirlo con Sinuar. La svolta, con la nomina del capo militare di Hamas incrementerà ancora di più l’attività repressiva di Israele, sia a Gaza, che in Cisgiordania, dando una sorta di giustificazione ad azioni preventive militari, che potrebbero permettere la conquista si altre zone; appare chiaro, infatti, come la strage del 7 ottobre, sia ormai un pretesto per cancellare la popolazione palestinese dai territori ancora abitati dall’etnia araba, che il governo israeliano, composto in maniera consistente dai nazionalisti religiosi, considera di propria pertinenza. Netanyahu, del resto, ha sempre condotto una tattica attendista, fin dal suo insediamento del primo governo, avvenuto nel 1996. Il premier israeliano ha più volte illuso la politica internazionale, circa la possibilità della creazione di uno stato palestinese; in realtà non ha mai previsto realmente una tale soluzione ed ora approfitta di una errata, dal punto di vista politico, e soprattutto scellerata azione da parte di Hamas, per mettere la parola fine al progetto dei due stati, malgrado sia la soluzione più caldeggiata dalla maggior parte dei paesi del mondo. Questo può succedere perché gli USA continuano ad appoggiare Tel Aviv, anche malgrado i massacri insensati di civili a Gaza e l’attività portata avanti sul territorio di altri stati in dispregio di ogni norma del diritto internazionale e l’Europa, aldilà delle dichiarazioni di facciata, non ha mai intrapreso una politica concreta di sanzioni, per fermare la violenza. I palestinesi non possono certo contare sull’appoggio, portato in maniera inutile di Iran, Hezbollah ed Houti, che, anzi, rischiano con il loro atteggiamento, di provocare vittime collaterali delle loro iniziative. Gli stati arabi sunniti mantengono un atteggiamento distaccato, a causa del loro interesse di nuove relazioni con Tel Aviv e non si spingono aldilà di mere dichiarazioni di prammatica. La vicenda della nomina del capo militare di Hamas a capo politico della stessa organizzazione, peraltro, non è il risultato di una consultazione elettorale, ma di una manovra autoreferenziale della quale i palestinesi sono vittime e che, per loro e forse per il mondo, non appare una scelta conveniente. Deve essere anche valutata la possibilità di una influenza, su questa decisione, da parte degli attori più avversi ad Israele e ritenuti da Hamas, ormai gli unici alleati affidabili: Iran ed Hezbollah; nel quadro di una ritorsione, orami ritenuta sempre più probabile per l’assassinio del capo politico di Hamas, avvenuta a Teheran, la nomina del capo militare a capo politico di Hamas, potrebbe significare un maggiore impegno per Israele a Gaza, coincidente proprio con l’avvio della ritorsione iraniana. Gli israeliani potrebbero essere impegnati in modo più consistente a Gaza, attaccati a Nord da Hezbollah e colpiti dagli iraniani e dall’azioni dei droni degli Houti. Il risultato sarebbe una pressione militare, forse mai vista, a cui Israele sarebbe sottoposto. Nel mentre i mezzi navali americani sono già schierati ed il pericolo di un allargamento del conflitto è sempre più probabile e la nomina di Hamas non fa che aumentare ancora di più questa possibilità.
mercoledì 31 luglio 2024
L'uccisione del leader si Hamas rischia di vanificare il processo di pace
All’eliminazione fisica del numero due di Hezbollah, avvenuta in Libano, è seguita quella del leader di Hamas, Hanieyh, a Teheran. La caratteristica comune è che questi omicidi siano avvenuti in territorio straniero, appartenente alla sovranità dei rispettivi stati; il rilievo è importante perché la responsabilità degli assassini, nel primo caso è stata rivendicata dagli israeliani, mentre nel secondo caso Tel Aviv per ora tace; tuttavia, diversi attori internazionali sono concordi nell’attribuirne la responsabilità alle forze armate di Israele. Rivendicare un attentato in terra iraniana significa ammettere una pericolosa violazione della sovranità di Teheran, che giustificherebbe una risposta del paese sciita. In realtà sul mandante, del razzo che ha colpito la casa della vittima, restano, oggettivamente pochi dubbi. Il razzo non proveniva dall’interno del paese iraniano, ma è giunto su di esso dall’estero, un indizio che non depone a favore di Tel Aviv. Se così fosse le conseguenze della strategia israeliana, rischierebbero concretamente di allargare paurosamente un conflitto, che ha già rischiato troppe volte di diventare letale per il mondo intero. Tel Aviv si pone davanti al mondo con una condotta sprezzante del diritto internazionale e senza alcuna volontà di ricercare una pace vera e non funzionale ai propri scopi di espansione, sia a Gaza, che in Cisgiordania. Un aspetto che gioca in maniera determinante nella condotta di Israele sono le inutili minacce dell’Europa, che non fa nulla per mettere fine ai massacri israeliani, ed all’appoggio sostanziale, seppure con critiche, degli Stati Uniti. Se la condanna e le conseguenti minacce, da parte iraniana appaiono come scontate (tra l’altro l’uccisione dell’esponente di Hamas è avvenuta in occasione dell’investitura del nuovo presidente dell’Iran), anche le reazioni di altre nazioni ed organizzazioni sono state particolarmente violente. La Turchia ha definito come ignobile l’assassinio, Erdogan aveva già condannato in maniera pesante Tel Aviv per l’uccisione del leader di Hezbollah ed in questo frangente ha rincarato la dose, l’atteggiamento del presidente turco è funzionale a riguadagnare consensi in vista delle elezioni presidenziali, ergendosi a difensore del popolo palestinese. La questione turca è particolarmente importante, perché Ankara fa parte dell’Alleanza Atlantica e la sua linea politica si discosta in maniera netta, soprattutto da quella di Washington. Naturalmente Hamas ha minacciato Israele, ma le attuali condizioni militari destano per Israele minori preoccupazioni rispetto ad attacchi kamikaze di membri isolati, così come rischia di aggravarsi pericolosamente la situazione in Cisgiordania, dove la agitazioni popolari partiranno con scioperi e manifestazioni contro il governo israeliano; più problematiche, dal punto di vista militare, le azioni di ritorsione promesse dagli Houti, che hanno già dimostrato di potere colpire Israele con i suoi droni. Anche l’Iraq ha condannato Israele, mentre gli USA hanno assicurato a Tel Aviv protezione in caso di attacco, parole che non contribuiscono a raffreddare la situazione. Teheran, da parte sua, ha affermato, che il fatto avvicinerà ulteriormente il paese sciita ai palestinesi, come sarà questo avvicinamento è questione centrale, perché se si concretizzerà con aiuti militari o interventi in appoggio ai belligeranti di Gaza, la tensione tra i due stati salirà a livelli probabilmente mai visti. In ogni caso è impensabile che Teheran non risponda con una azione almeno pari a quella israeliana, se ciò riuscirà si riaprirà la corsa alle ritorsioni, con ricadute evidenti sui colloqui e sul processo di pace per la situazione di Gaza. Nel contesto generale particolarmente efficace è la reazione del Qatar, impegnato in prima persona nei colloqui di pace, che ha sottolineato che in un negoziato dove una parte uccide un rappresentante dell’altra non ha alcuna possibilità di arrivare al successo; probabilmente è proprio quello che vuole Israele ed il suo governo composto da irresponsabili.
venerdì 26 luglio 2024
Il Partito Democratico USA punta tutto sulla candidatura della Harris
La necessità di recuperare il tempo, già irrimediabilmente, perduto durante la campagna elettorale, impone al Partito Democratico di accelerare i tempi per la candidatura di Kamala Harris e, nello stesso tempo, di rendere inefficace qualsiasi tentativo interno, che possa scalzarla dal ruolo di candidato alla presidenza degli Stati Uniti. In pratica, si tratta di elaborare e stabilire procedure che possano garantire il ruolo della Harris come candidata alla Casa Bianca, in maniera di garantirne l’efficacia in modo sicuro e, soprattutto il prima possibile; questo perché il fattore tempo è ormai diventato determinante. Il comitato che sovrintende alle regole all’interno del Partito Democratico ha stabilito una tempistica per arrivare alla nomina della Harris a candidato alle presidenziali. Insieme alla calendarizzazione sono state stabilite tre regole, che dovranno favorire il processo della candidatura ufficiale. La prima regola rende praticamente impossibile contestare la posizione della Harris, la seconda determina l’anticipazione della nomina, in modo che la Convention diventi una investitura ufficiale, celebrata insieme ad una cerimonia in cui Biden sarà omaggiato da tutto il partito per il lavoro fatto, la terza dovrà consegnare libertà assoluta alla Harris circa la nomina del proprio candidato alla vicepresidenza. Per blindare la candidatura della Harris, sono stati anticipati i tempi per presentare la candidatura alla presidenza di tre giorni, cioè dal 30 al 27 luglio, in modo che alle 18, orario della capitale statunitense, ogni sfidante dovrà avere la propria candidatura formalizzata, a questo deve aggiungersi l’anticipo al 30 luglio per avere la firma di 300 delegati, con adesioni massime per ogni singolo stato di 50 delegati, necessari per la ratifica per proporre la propria candidatura. Dopo queste fasi sarà necessario il voto dei delegati sulla candidatura, che con la sola Harris come candidata sarà previsto per il primo agosto, viceversa in presenza di più candidati, il voto avverrà il 7 Agosto. Un tempo veramente ristretto che rende praticamente impossibile effettuare una campagna elettorale a qualsiasi candidato alternativo alla Harris. Queste modalità di candidatura dimostrano come il Partito Democratico intenda mostrarsi al corpo elettorale come unito e determinato a sostenere la Vicepresidente, ormai individuata come simbolo concreto della forza politica democratica ed alternativa a Trump. Anche la famiglia Obama, che non sembrava convinta di questa ipotesi, ha dimostrato il proprio sostegno alla Harris, arrivando così a suggellare la nomination per la candidatura. Questo risultato sembra più una necessità di cui fare virtù, dettata dai tempi stringenti, che una scelta ponderata e maturata in maniera consapevole dentro tempi giusti ed adeguati. Una impressione è che la Harris, nel caso di vittoria, potrebbe diventare presidente in maniera casuale, grazie ad una serie di circostanze particolarmente favorevoli e fortunate. Esistono dubbi consistenti, che un processo della candidatura fatto nei tempi adeguati e, soprattutto, con un dibattito interno al partito capace di rappresentare i diversi punti di vista, potesse determinare la candidatura della Harris, che non godeva di una popolarità adeguata a questo compito, anche per la scarsa rilevanza di come ha interpretato il ruolo di vicepresidente. In ogni caso per il Partito Democratico, proprio la posizione di vicepresidente in carica ha determinato la successione a Biden, almeno come candidata alla presidenza; questa scelta, che appare forzata, ora deve essere sostenuta in ogni caso, soprattutto come valore simbolico di alternativa alla minacciata autocrazia di Trump. Anche la Harris è meglio del candidato repubblicano, speriamo se ne convincano anche gli elettori.
giovedì 25 luglio 2024
Biden si dimette ma ne esce come un gigante politico
Il discorso di Biden, circa la decisione di non candidarsi è stato contrassegnato dalla rinuncia come atto di generosità e di salvaguardia della democrazia statunitense, in sostanza un sacrificio personale per non lasciare il paese nelle mani di Trump. Biden ha rivendicato, giustamente, i risultati, soprattutto economici della sua presidenza, promettendo di non lasciare anticipatamente la carica più importante degli USA, come più volte hanno richiesto i suoi rivali politici. In realtà le giustificazioni per il suo ritiro, pur comprendendo la giusta difesa della democrazia americana, devono, per forza di cose, vertere sullo scarso apprezzamento da parte della dirigenza dei democratici, sul basso valore dei sondaggi, su di uno stato di salute, che non sembra permettere l’adeguata conduzione di un eventuale nuovo mandato e sulla fuga degli investitori. La verità è che Biden, senza impedimenti fisici, è che avrebbe meritato una ricandidatura proprio per i risultati del suo mandato, soprattutto ottenuti nel campo interno, sempre più difficile da gestire rispetto alla politica estera; il presidente uscente, invece, è apparso più debole in politica estera, con la contestata decisione di abbandonare l’Afghanistan, non avere ottenuto sostanziali progressi sul fianco del Pacifico, non avere contrastato in maniera sufficiente la Cina dal punto di vista commerciale e non avere ottenuto una soluzione della questione ucraina ed avere mantenuto un atteggiamento insicuro nei confronti di Israele. Questi temi, sfavorevoli a Biden, hanno ottenuto per Trump, ragioni per colpire il suo ex avversario, oscurandone i meriti dei risultati ottenuti con la crescita economica e la riduzione della disoccupazione. I repubblicani si sono concentrati contro l’età anagrafica di Biden a cui si sono aggiunte le evidenti difficoltà dopo il confronto elettorale, ma occorre specificare, che, se umanamente era legittimo per Biden avere la ricandidatura, nel partito è mancato un serio esame della situazione del candidato e sulla reale capacità di sostenere lo sforzo della campagna elettorale. I segnali, abbastanza evidenti, erano presenti già da tempo ed è mancata una azione, anche coraggiosa, di mettere in discussione l’opportunità di ripresentare agli elettori il presidente uscente. Ciò anche considerando il fatto di come Trump avrebbe condotto la campagna elettorale, con toni particolarmente violenti e mistificatori. Certo non è facile non rinnovare la candidatura ad un presidente uscente, tuttavia, la pessima gestione della situazione del partito ha generato profonda incertezza in un elettorato comunque incalzato da una azione repubblicana che è stata un crescendo di consensi. Il partito democratico è risultato diviso in clan ed è stato caratterizzato da una immobilità, che se protratta, avrebbe garantito a Trump un vero e proprio plebiscito. Soltanto il timore di una deriva autoritaria, causata dallo strapotere del candidato repubblicano ha smosso i dirigenti del partito, verso una soluzione alternativa. Pur non essendo stata una decisione tempestiva e, soprattutto, irrituale, la scelta della sostituzione del candidato appare l’unica via per contrastare Trump in maniera efficace, tuttavia, non si doveva giungere a questo punto ed agire molto prima per evitare a Biden l’umiliazione del ritiro; insomma se il partito repubblicano ha perso ogni sua caratteristica originale, diventando ostaggio di Trump, anche il partito democratico non sta tanto meglio. Si comprende come la situazione politica americana sia ad una sorta di punto morto, perché in ostaggio di persone incompetenti e vogliose soltanto di assicurarsi più potere possibile per se stessi, ingannando un elettorato sempre più individualista e disinteressato. In questo quadro il passo indietro di Biden deve essere molto apprezzato, il presidente uscente ne esce come una sorta di gigante politico, capace di sacrificare le proprie ambizioni per potere evitare la consegna del paese ad una nuova presidenza Trump. Ora il partito democratico deve sapere darsi una organizzazione capace di portare alla vittoria che sarà il suo candidato o candidata. L’atto di Biden deve fornire l’abbrivio per una ricostruzione della macchina elettorale capace di superare le divisioni interne per provare a vincere e ad evitare agli USA ed al mondo la ripetizione della sciagura di una nuova presidenza Trump.
giovedì 4 aprile 2024
La strategia di Israele: raid in Siria, fame a Gaza.
L’avere colpito la sede consolare iraniana in Siria e l’organizzazione che portava cibo nella striscia di Gaza, sono due episodi, che presentano analogie da non sottovalutare nella strategia israeliana di medio periodo. Nella guerra, così detta per procura, tra Tel Aviv e Teheran, avere colpito una sede iraniana in territorio straniero rappresenta un nuovo livello per Israele; uno degli obiettivi principali può essere cercare un allargamento del conflitto che implichi un maggiore coinvolgimento degli USA a favore degli israeliani, soprattutto dopo che il presidente Biden ha preso le distanze dai metodi praticati a Gaza; sebbene Washington ha affermato di non essere stata avvertita dell’attacco israeliano, il governo di Tel Aviv sembra avere usato questo attacco per indurre gli iraniani a condannare sia Israele, che gli USA, in modo da obbligare gli americani ad un appoggio obbligato contro il regime iraniano. Questa tattica presenta la chiara intenzione di temporeggiare in attesa degli esiti elettorali statunitensi, dove una eventuale affermazione di Trump è vista come maggiormente favorevole alla causa israeliana, tuttavia il rischio di un allargamento del conflitto, è implicito nell’azione di Tel Aviv e questo comporta ulteriori problemi commerciali ancora maggiori nel Golfo Persico, di cui Israele dovrà, prima o poi, rendere conto. Non solo, è ipotizzabile un coinvolgimento di altri attori, sia in maniera indiretta, che diretta, in un allargamento della crisi mediorientale, bisogna ricordare che il maggiore alleato della Siria, oltre all’Iran, è la Russia, anche se nella situazione attuale non pare possibile un coinvolgimento diretto di Mosca, appare possibile un legame sempre più stretto tra Teheran e Russia, con collaborazioni sempre maggiori, soprattutto nel settore degli armamenti, con effetti diretti su altri conflitti in corso. Una degli sviluppi più prevedibili è l’incremento delle azioni delle milizie vicine agli iraniani, sia contro Israele, che contro le basi americane presenti in Medioriente. Il raddoppio del fronte, oltre a quello di Gaza, anche quello siriano, sul quale Israele si dovrà misurare è funzionale al governo in carica ed al suo Primo ministro, che non vuole elezioni, che perderebbe sicuramente e darebbero il via a procedimenti giudiziari in cui è implicato. Quello che si sacrifica, non solo agli interessi israeliani, ma a specifici interessi politici di parte è la pace nella regione mediorientale ed anche mondiale, andando a creare i presupposti per una instabilità totale. Se per tenere in apprensione gli USA non si è esitato ad andare contro il diritto internazionale, colpendo in un paese terzo, seppure alleato degli iraniani, sul fronte di Gaza l’errore di avere colpito una Organizzazione non governativa, appare altrettanto funzionale agli interessi di Tel Aviv: infatti altre due organizzazioni hanno annunciato che lasceranno la Striscia di Gaza, per la situazione troppo pericolosa per il loro personale; ciò significa la sottrazione di ingenti forniture di cibo ad una popolazione già duramente provata dalla scarsità dei generi alimentari ed in precarie condizioni igienico sanitarie. La situazione, che viene aggravata dall’assenza delle organizzazioni non governative, colpisce, oltre alla popolazione civile, anche Hamas, che, oltre alla sempre maggiore distanza dagli abitanti di Gaza, non può usufruire degli aiuti internazionali; tuttavia questo elemento è solo un’aggiunta alla normale condotta di Israele, che ha intrapreso da tempo, già ben prima dei fatti del sette ottobre, una politica di gestione delle risorse alimentari da destinare alla Striscia di Gaza, con evidenti intenti regolatori al ribasso. Nel 2012, a seguito di una organizzazione per i diritti umani, Tel Aviv è stata costretta a pubblicare un proprio documento del 2008, dove venivano previste le calorie a persone da concedere agli abitanti della Striscia, alimenti che escludevano quelli ritenuti non essenziali. Malgrado le scuse obbligate delle forze armate israeliane, le modalità con cui sono stati colpiti gli automezzi dell’organizzazione non governativa, lasciano non pochi dubbi sulla volontarietà di bloccare una missione, con le ripercussioni ovvie, che si sono puntualmente verificate. Serve a poco dire che il clamore suscitato è dovuto a vittime occidentali, per modalità analoghe, che hanno provocato più di 30.000 morti civili, non ci sono neanche state le scuse. I paesi civili dovrebbero sanzionare Israele per questa condotta impunita.
mercoledì 7 febbraio 2024
I guai giudiziari di Trump durante le primarie
Il giudizio della Corte d’appello di Washington non considera valida l’immunità per Trump, per avere cercato di cambiare il risultato elettorale, dopo l’esito che ha portato Biden ad essere il nuovo presidente USA. La sentenza della corte, composta da tre giudici, è arrivata all’unanimità, confutando la difesa di Trump, che puntava alla totale immunità dalla legge, anche per gli atti compiuti nei casi il suo potere sia estinto. Questa difesa, ha confutato la corte, presuppone che la carica di presidente statunitense sia equiparato ad un sovrano assoluto, non soggetto, cioè, ad alcuna legge terrena; inoltre la tesi difensiva mette in dubbio il naturale riconoscimento del responso elettorale e della stessa separazione dei poteri, perché porrebbe la carica presidenziale al di sopra delle normative. Un aspetto da sottolineare è che uno dei tre giudici ha una provenienza conservatrice ed è stato nominato dello stesso Trump. Un aspetto fondamentale della sentenza è che il presidente USA può essere accusato per crimini commessi durante il suo periodo in carica: si tratta di una risoluzione molto rilevante al punto di vista giuridico, perché è la prima volta che viene adottata nell’ordinamento statunitense e che stabilisce che l’immunità appartiene alla carica presidenziale e non alla persona, per cui, una volta decaduti, non si gode più di immunità. Esistono due opzioni, per la difesa di Trump per ricorrere contro la sentenza della Corte di appello di Washington: la prima consisterebbe nella presentazione del ricorso presso tutti i giudici del Circuito di Washington, tecnicamente definito “appeal en banc”, tuttavia questa soluzione appare improbabile, perché secondo i giuristi sarebbe poco probabile un cambiamento della sentenza, oppure, ed è la seconda opzione, il ricorso può avvenire presso la Corte suprema, composta da sei membri repubblicani e tre democratici. Questa scelta avrebbe anche una valenza politica tattica, dato che la Corte suprema, per questa sessione, che finirà a luglio, non dovrebbe più accettare casi, lasciando in sospeso la questione, soluzione preferita proprio da Trump; tuttavia potrebbe essere anche probabile, che, data la gravità della questione, il presidente della Corte inserisca il probabile ricorso nell’attuale sessione. In ogni caso, sia la sentenza, che il ricorso, generano dubbi sul futuro legale di Trump, che resta il candidato più probabile per il Partito repubblicano alle elezioni del cinque novembre prossimo, anche perché presso la Corte suprema esistono già due ricorsi dell’ex presidente relativi alle decisioni degli stati del Maine e del Colorado, che hanno vietato la candidatura di Trump, sempre per i fatti seguiti alla sua sconfitta elettorale del 2020. Una possibilità ravvisata da alcuni giuristi è il possibile respingimento delle decisioni di Maine e Colorado, da parte della Corte suprema, ma la conferma della sentenza della Corte d’appello di Washington, che contiene argomenti giuridicamente rilevanti contro Trump e che potrebbe portarlo a giudizio, proprio perché il suo atteggiamento ha interferito nel processo di conteggio e verifica dei voti, una materia completamente al di fuori delle competenza presidenziali: ciò rappresenterebbe un attacco alla struttura dello stato; un capo di imputazione difficilmente confutabile. Nel mentre, però, la campagna presidenziale di Trump procede in maniera trionfale e l’unica candidata ancora presente, Nikky Halley, Ha pochissime possibilità di riportare il partito repubblicano nel suo tradizionale percorso politico e quindi di contendere in maniera seria la candidatura presidenziale a Trump. La questione giuridica si pone in un contesto di profonda divisione e radicalizzazione tra i due elettorati, dove i partiti contendenti si sono ulteriormente distanziati su tutte le materie, sia di politica interna, che economica, che internazionale. In più il precedente dell’insurrezione del Campidoglio identifica i sostenitori di Trump, certo non tutti, come capaci di gesti violenti in aperto contrasto con le leggi federali. D’altro canto rinviare la decisione sulle decisioni degli stati del Maine e del Colorado e sulla sentenza della Corte d’appello di Washington, potrebbe porre seri dubbi sulla reale imparzialità della Corte suprema, generando un corto circuito istituzionale capace di paralizzare il paese, in un momento dove la situazione internazionale impone decisioni veloci. Se il risultato con Trump come candidato è in bilico, forse con un altro candidato repubblicano potrebbe nascere una situazione che imporrebbe un rinnovamento anche tra i democratici, ma il tempo sta scadendo, mettendo a rischio tutto l’equilibrio occidentale.
giovedì 25 gennaio 2024
Se cade l'Ucraina, la Russia potrebbe avanzare verso i paesi dell'Alleanza Atlantica
Il mancato successo della contro avanzata di Kiev ha provocato i giustificati allarmi per un attacco di Mosca verso i paesi europei ed appartenenti all’Alleanza Atlantica; secondo i tedeschi un successo in Ucraina potrebbe portare i russi a decidere una avanzata verso un paese vicino della Russia: i maggiori indiziati sono i paesi baltici, ma anche in Polonia la tensione è in aumento. Queste analisi non rappresentano una novità: il ministero della Difesa tedesco, ha da tempo elaborato una previsione di un possibile attacco al fianco orientale dell’Alleanza Atlantica, che potrebbe avvenire entro il 2025. La condizione necessaria perché questa previsione possa avverarsi è la vittoria russa in Ucraina, nel febbraio 2024 è prevista una forte mobilitazione, capace di portare al fronte 200.000 soldati, per poi lanciare una offensiva primaverile decisiva per le sorti del conflitto a favore di Mosca. Se questo scenario dovesse avverarsi, Putin potrebbe decidere di avanzare verso obiettivi contigui, anche se restano alcuni dubbi sulle reali capacità di reintegrare rapidamente gli arsenali russi. Anche la possibilità di una avanzata soltanto parziale avvantaggerebbe il Cremlino, perché potrebbe convincere Kiev alla decisione di concedere qualcosa alla Russia per evitare la perdita completa dei territori contesi, mentre l’Unione Europea potrebbe ammorbidire il proprio atteggiamento per evitare l’arrivo di un gran numero di rifugiati, in grado di destabilizzare i fragili equilibri interni. L’utilizzo di forme di guerra ibrida come attacchi informatici, verso Bruxelles e la ricerca di pretesti con i paesi baltici, completerebbero l’azione russa; in particolare Mosca, potrebbe ripetere la tattica operata prima della guerra in Ucraina, quando furono sobillate le popolazione russe nelle zone di confine, cosa che potrebbe di nuovo accadere con i russi residenti in Estonia, Lettonia, Lituania ed anche Finlandia e Polonia; ciò rappresenterebbe la scusa per effettuare manovre congiunte, sui confini di questi stati, coinvolgendo anche l’esercito bielorusso. Questi pericoli sono ben presenti nella visione dell’Alleanza Atlantica, un ulteriore fattore di preoccupazione, rispetto all’Ucraina, è che, in un potenziale attacco russo, vi è una variabile geografica importante costituita dalla regione di Kaliningrad, territorio russo compreso tra Polonia e Lituania, senza continuità territoriale con la madrepatria. Per Mosca, dal punto di vista strategico la conquista del così detto corridoio di Suwalki, che collega direttamente i paesi baltici agli alleati della NATO, sarebbe prioritario. Schierare truppe e missili a corto e medio raggio nella regione di Kaliningrad permetterebbe al Cremlino di lanciare un’offensiva, che in grado di vittoria unirebbe la regione isolata all’alleato bielorusso. La coincidenza delle elezioni presidenziali americane è ritenuta un altro fattore a favore di Putin: la Russia, potrebbe attaccare nel momento elettorale o di passaggio dei poteri, compromettendo i tempi di reazione della maggiore forza militare dell’Alleanza Atlantica; anche una possibile elezione di Trump viene vista come una facilitazione per i russi, che potrebbe portare ad un disimpegno americano perfino all’interno della NATO, senza che l’Unione Europea sia ancora in grado di sostenere l’attacco di Mosca. Su questo tema il ritardo di Bruxelles è sconfortante, la mancanza di un esercito comune, unito alla mancanza di una azione comune in politica estera, lascia la UE disorganizzata di fronte alle emergenze mondiali e, in più, la continua divisione tra gli stati membri crea una mancanza di coesione fortemente deleteria ad un progetto di difesa comune non dipendente dalla presenza USA. Parlando di numeri la previsione è di uno schieramento di circa 70.000 militari russi sul territorio bielorusso, al confine con gli stati baltici entro il marzo 2025, a questo contingente l’Alleanza Atlantica ha già previsto una risposta sostanziosa di circa 300.000 uomini a protezione del corridoio lituano, per difendere l’integrità degli paesi baltici, ma si tratta di numeri ingenti, che potrebbero riaprire la strada alla coercizione obbligatoria del servizio militare, che molti stati prevedono di ripristinare, proprio per controbilanciare i numeri russi. Il fenomeno della guerra incentrato sui modelli della prima e seconda guerra mondiale, che sembrava superato dallo schieramento degli armamenti super tecnologici, sembra possa ritornare prepotentemente sovvertendo ogni previsione. Per evitare questo scenario è importante sostenere l’Ucraina in tutto e per tutto per contenere le ambizioni di Putin ed impedire la terza guerra mondiale.
mercoledì 24 gennaio 2024
Iraq terreno di scontro tra USA ed Iran
L’Iraq, nonostante la sottovalutazione della stampa, è destinato a diventare un fronte molto importante del conflitto mediorientale e, specificatamente, del confronto tra USA ed Iran. La situazione, che le autorità irakene hanno definito di violazione della propria sovranità, ha visto reciproci attacchi tra Washington e Teheran, condotti proprio sul suolo dell’Iraq. L’Iran non sopporta la presenza militare americana ai suoi confini, sul suolo irakeno il regime degli Ajatollah è presente con milizie filo-iraniane, finanziate da Teheran, la cui presenza è ritenuta strategicamente importante, nel quadro delle azioni contro l’occidente ed Israele. Tra i compiti di queste milizie ci sono atti di disturbo contro le forze americane e quelle della coalizione contro i jihadisti, presenti sul suolo irakeno. Recentemente queste operazioni militari, in realtà già in corso da ottobre, hanno colpito basi americane con droni e razzi, provocando feriti nel personale statunitense e danneggiamenti delle infrastrutture delle basi. Pur senza la firma iraniana gli attacchi sono stati facilmente ricondotti a Teheran e ciò ha aggravato una situazione di contrasto capace di degenerare in maniera pericolosa. Gli USA hanno risposto, colpendo le Brigate Hezbollah, presenti sul territorio irakeno in una regione al confine con la Siria, provocando due vittime tra i miliziani; tuttavia altre vittime si sarebbero registrate in milizie scite, che sono entrate a fare parte dell’esercito regolare irakeno. Queste ritorsioni americane hanno suscitato le proteste del governo di Bagdad, che è stato eletto grazie ai voti degli sciiti irakeni e che teme la reazione dei propri sostenitori. L’accusa di violazione della sovranità nazionale, se appare giustificata contro le azioni di Washington, dovrebbe valere anche contro Teheran, in quanto mandante degli attentati contro le installazioni americane e, allargando il discorso, anche contro i turchi, che hanno condotto più volte azioni contro i curdi, cosa, peraltro imitata dagli iraniani. La realtà è che la situazione attuale in Iraq, ma anche in Siria ed in Libano, da parte degli israeliani, vede una continua violazione delle norme del diritto internazionale in una di serie di guerre non dichiarate ufficialmente, che sfuggono alla prassi prevista dalla legislazione internazionale. Questa situazione presente il rischio maggiore di una estensione del conflitto mediorientale, capace di provocare la deflagrazione di una guerra dichiarata, come fattore successivo a questi episodi, purtroppo sempre più frequenti, di conflitti a bassa intensità. Lasciare l’Iraq fuori da un conflitto appare determinante per evitare un conflitto mondiale, la posizione geografica del paese, tra le due maggiorie contrapposte potenze islamiche, porterebbe ad un confronto diretto, che avrebbe come prima conseguenza il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e la possibilità, per Teheran, di avvicinare le sue basi missilistiche ad Israele. Uno dei maggiori protagonisti, per evitare questa pericolosa deriva è il primo ministro iracheno Mohamed Chia al-Soudani, che pur godendo dell’appoggio dell’elettorato sciita, ha bisogno di preservare i legami tra Bagdad e Washington. In realtà questi legami, nelle intenzioni del premier irakeno dovrebbero essere soltanto di natura diplomatica, giacché circa la presenza della coalizione militare internazionale, il capo dell’esecutivo ne ha più volte sottolineato il ritiro per favorire le condizioni di stabilità e sicurezza dell’Iraq. La questione è però di difficile soluzione: con la presenza di milizie finanziate ed addestrate nel paese, l’Iraq rischia di perdere la propria indipendenza, garantita proprio dalla presenza delle forze occidentali; se il paese irakeno cadesse nelle mani di Teheran sarebbe un grosso problema di natura geopolitica per Washington, che deve per forza mantenere il proprio presidio sul suolo irakeno, fatto rafforzato dalla questione di Gaza, che ha provocato le azioni degli Houti e l’autoproclamazione da parte di Teheran di difensore dei palestinesi, nonostante la differenza religiosa. Bagdad è diventata così una vittima indiretta della situazione che si è creata a Gaza, dopo avere attraversato tutta la fase della presenza dello Stato islamico, peraltro ancora presente in determinate zone. Per disinnescare questo rischio occorrerebbe uno sforzo diplomatico della parte più responsabile di quelle in causa: gli USA; tale sforzo diplomatico dovrebbe essere diretto, non tanto verso l’Iran, ma verso Israele per fermare la carneficina di Gaza, favorire gli aiuti alla popolazione, anche con l’utilizzo di caschi blu dell’ONU ed accelerare, anche in maniera unilaterale la soluzione dei due stati, l’unica capace di fermare l’escalation internazionale ed eliminare ogni scusa per creare i presupposti dell’instabilità regionale.
martedì 23 gennaio 2024
Trump sempre più favorito, anche senza il consenso dei repubblicani moderati
Quello, che era l’antagonista più accreditato di Trump, il repubblicano Ron DeSantis, governatore dello stato della Florida, si è ufficialmente ritirato dalla corsa alla nomination per partecipare all’elezione presidenziale USA. Dopo la consultazione repubblicana nello Iowa, dove ha riscosso scarsi consensi, i sondaggi per il voto in New Hampshire gli accreditavano soltanto una percentuale del 5,2 e ciò ha determinato il suo ritiro; DeSantis ha comunicato che il suo sostegno andrà, quindi, a Trump. DeSantis, che alcuni vedevano in grado di contrastare Trump nella corsa alla nomina a sfidante di Biden, proviene da posizioni politiche simili a Trump e si identifica con il nuovo corso che sta dominando nel Partito Repubblicano, influenzato dalle idee del Tea party e, per questo, assicura il suo appoggio all’ex presidente, in aperto contrasto con la candidatura di Nikky Halley, da lui ritenuta troppo moderata e rappresentante della vecchia impostazione dei Repubblicani. DeSantis si era guadagnato un certo credito, grazie alla sua elezione come governatore della Florida, proprio contro i candidati indicati da Trump, tuttavia la sconfitta, distanziato di circa 30 punti percentuali nello Iowa, ha dimostrato che gli elettori repubblicani lo hanno percepito come una copia di Trump, proprio per posizioni molto simili su temi come immigrazione ed aborto. La perdita di consensi, dopo che i sondaggi lo distanziavano di soli 10 punti da Trump, è iniziata proprio con la difesa dell’ex presidente dalle accuse penali, facendo, quindi, perdere i consensi degli elettori più moderati. Sebbene formalmente DeSantis avesse già rinunciato alle primarie del New Hampshire, per concentrarsi su quelle della Carolina del Sud, la distanza di circa 55 punti percentuali registrata nei sondaggi ha provocato la decisione del ritiro, anche per occuparsi a tempo pieno della sua carica di governatore della Florida. DeSantis è il terzo candidato a ritirarsi dalla contesa repubblicana, determinando così un confronto a due tra Trump, sempre più favorito e Nikky Halley, già governatrice della Carolina del Sud ed ambasciatrice USA alle Nazioni Unite. La strategia elettorale di Nikky Halley è quella di riscuotere i voti dei repubblicani più moderati, che non si riconoscono nella maniera istrionica di governare di Trump e sono contrari alle sue posizioni oltranziste contrassegnate dallo scarso rispetto per le leggi federali. Il caos creato dalle vicende giudiziarie di Trump non incontra il favore degli elettori repubblicani più tradizionalisti, che preferirebbero un personaggio più misurato e più affidabile, tuttavia la platea conquistata da Trump appare più ampia perché trasversale all’elettorato repubblicano classico, capace di riscuotere consensi nei ceti più diversi ed anche dagli elettori più poveri. Nonostante queste analisi Nikky Halley prova a presentarsi come una sorta di cambio generazionale, forte della sua età, 51 anni e di una sostanziosa esperienza politica. Una affermazione netta di Trump nel New Hampshire potrebbe togliere, però, ogni velleità alla sfidante, riducendone notevolmente le possibilità di raggiungere la nomination. Questa vicenda dimostra come quello che era, una volta, il ceto politico dominante del partito repubblicano non abbia ancora recuperato le proprie posizioni ed, anzi, assista quasi in maniera passiva alla trasformazione del partito, iniziata con il Tea party, fino ad arrivare ad una formazione politica personalistica dello stesso Trump e, sostanzialmente, in suo ostaggio. Se questa analisi sociopolitica è valida Nikky Halley ha poche possibilità di vincere, proprio perché troppo vicino alle istanze di una parte del partito che appare come minoritaria. Per gli USA e per il mondo, questa non è una buona notizia perché rileva il proseguimento della tendenza di radicalizzazione del partito repubblicano, nonostante la sconfitta di Trump alle ultime elezioni ed i suoi guai giudiziari. Dopo quattro anni, la mancanza di un ricambio politico e generazionale, esclusa la figura della Halley, dimostra come il partito sia in ostaggio di Trump e ciò provochi preoccupazione a livello internazionale. Dal punto di vista del Partito Democratico, forse una candidatura di Trump può convenire, perché porterà alla mobilitazione l’elettorato non abituato ad andare alle urne, che voterebbe qualsiasi candidato per evitare il bis di Trump alla Casa Bianca; in questa ottica un successo, anche se difficile, della Halley potrebbe favorirla alla corsa per la carica di presidente, proprio perché elemento più moderato. Entrambi soluzioni, Biden o Halley, sarebbero certamente gradite alla maggior parte del panorama internazionale, che teme con Trump, un sovvertimento degli equilibri occidentali.
venerdì 19 gennaio 2024
La pericolosa strategia di Netanyahu
L’affermazione del premier israeliano Netanyahu, che si è detto contrario alla formazione di uno stato palestinese, dopo la fine della guerra, espressa in modo così esplicito, chiarisce ulteriormente la strategia del governo israeliano sulla reale intenzione dell’espansione sui territori rimasti ai palestinesi. Evidentemente le rassicurazioni sulla permanenza a Gaza dei suoi abitanti, anche se decimati, sono solo state solo formali; il rischio concreto è che, poi, queste intenzioni riguardino anche la Cisgiordania. Netanyahu continua da affermare che la guerra sarà ancora molto lunga, ma si tratta di una tattica evidentemente attendista, che aspetta l’esito delle prossime consultazioni americane: infatti una vittoria di Trump, favorirebbe l’esecutivo al potere a Tel Aviv ed allontanerebbe i guai giudiziari del premier israeliano. La prospettiva, però, include uno stato di guerra permanente, con il rischio di allargarsi in maniera più grave su più fronti e coinvolgere più attori, come già avviene, ma in maniera più massiccia. Questo atteggiamento ha suscitato profonde critiche dagli USA, secondo Biden la situazione israeliana può essere normalizzata soltanto con la creazione di uno stato palestinese, argomento sostenuto anche dagli stati arabi, con l’Arabia Saudita che ha posto questa condizione per il riconoscimento dello stato di Israele; ma anche soltanto la proposta di un cessate il fuoco è stata respinta dall’esecutivo di Tel Aviv, con la motivazione che rappresenterebbe una dimostrazione di debolezza nei confronti dei terroristi. All’interno del rifiuto della creazione di uno stato palestinese, vi è anche il rifiuto di conferire il controllo di Gaza all’Autorità nazionale palestinese. Con queste premesse sono, però, lecite alcune domande. La prima è che le elezioni presidenziali negli USA si terranno il prossimo novembre: fino ad allora con Biden in carica la distanza fra Tel Aviv e Washington rischia di accentuarsi sempre di più ed il rischi per Netanyahu è quello di vedere l’appoggio americano ridursi, una eventualità mai accaduta nella storia dei rapporti tra i due paesi, che potrebbe indebolire la leadership nel paese ed anche la capacità militare; certamente Biden deve calcolare bene fino a che punto può spingersi, per non prendere decisioni con ricadute sul suo consenso elettorale, ma la prospettiva di un indebolimento di Israel sul piano internazionale appare molto concreta. La guerra di Gaza ha provocato un allargamento del conflitto concreto, che ha saputo coinvolgere altri attori, tanto che la situazione di conflitto regionale è ormai un fatto acclarato. Il quesito riguarda la responsabilità di Israele per la reazione ai fatti del 7 ottobre, nei riguardi della sfera internazionale. La situazione che si è venuta a creare con gli attacchi degli Houti nel Mar Rosso, che ha provocato gravi danni economici al commercio internazionale, l’intervento palese dell’Iran, con reciproche minacce con Israele e la questione degli Hezbollah, che hanno provocato il coinvolgimento del Libano e della Siria, ha delineato in modo netto una situazione che era, grave, ma ancora a livello contenuto. Il peggioramento ha portato e porterà al coinvolgimento anche di attori non ancora direttamente presenti sullo scenario medio orientale, con un incremento della presenza degli armamenti e delle azioni militari, tale da rendere fortemente instabile la situazione. Un incidente oltre che possibile è altamente probabile e ciò potrebbe scatenare un conflitto, non più per interposta persona, ma con il coinvolgimento diretto, ad esempio di Israele contro l’Iran; questa eventualità appare più vicina di sempre e le esplicite minacce non aiutano a favorire una soluzione diplomatica. La questione centrale è se l’occidente ed anche il mondo intero può permettersi che esista una nazione con una persona del tipo di Netanyahu al potere, certamente Israele è sovrano al suo interno, ma non ha saputo dirimere la situazione giudiziaria di un uomo che resta al potere con tattiche spregiudicate, che usano indifferentemente l’estrema destra ultranazionalista, le tattiche attendiste, le false promesse e la condotta violenta, più vicina all’associazione terroristica che vuole combattere, piuttosto che ha quella di uno stato democratico. L’opinione pubblica israeliana sembra succube di questo personaggio e le poche voci di dissenso non bastano a fermare questa deriva. Pur essendo legittimo combattere Hamas i modi non sono quelli giusti, oltre ventimila vittime sono un bilancio troppo elevato, che nasconde l’intenzione di una annessione di Gaza, come nuova terra per i coloni; questo scenario avrebbe effetti catastrofici, che soltanto la pressione internazionale, anche con l’uso di sanzioni, e l’attività diplomatica può evitare. Anche perché una volta presa Gaza il passaggio alla Cisgiordania sarebbe soltanto una conseguenza, come una conseguenza logica sarebbe la guerra totale.
venerdì 15 dicembre 2023
L'Unione Europea apre a Ucraina e Moldova
Con un negoziato, che si potrebbe definire alternativo, l’Ungheria di Orban, optando per l’astensione costruttiva, come è stata fantasiosamente definita, ha permesso al Consiglio europeo di procedere con l’apertura dei negoziati per l’adesione all’Unione di Moldavia ed Ucraina. Dopo le ripetute minacce il presidente ungherese si è assentato dalla votazione, con una novità procedurale senza precedenti, che ha permesso di raggiungere il risultato approvato da ventisei paesi europei, che comprende anche l’avvio della candidatura della Georgia ed il rinvio a marzo della valutazione dell’iter di adesione della Bosnia-Erzegovina. Orban, unico leader europeo ad incontrare Putin dall’inizio del conflitto ucraino, si è sempre detto contrario all’inizio del processo di adesione di Kiev, sostenendo che non soddisfa le condizioni per entrare nella UE, tuttavia, a parte le affinità con il regime di russo e quindi politiche, Budapest potrebbe temere di condividere le risorse europee, che, di fatto, mantengono finanziariamente il paese magiaro, con i nuovi membri, con un conseguente decremento delle entrate provenienti da Bruxelles. Naturalmente l’astensione di Orban non è stata gratis: aldilà della minaccia di una richiesta di finanziamento di 50 miliardi per il funzionamento dell’amministrazione ungherese per il 2024, il presidente Orban si è “accontentato” dello sblocco di 10 miliardi di finanziamento, che erano stati bloccati per la violazione di diritti fondamentali da parte del governo di Budapest; diritti che non saranno certo ripristinati ed anche questo fatto costituirà un ulteriore pericoloso precedente per il funzionamento della politica europea, superabile, come sempre con la fine del voto all’unanimità, meccanismo da correggere sempre più urgentemente. L’impostazione del vertice è stata tutta rivolta al risultato, dove, appunto, si è preferito creare pericolosi precedenti per raggiungere lo scopo prefissato, con una visione politica, che ha dovuto necessariamente sacrificare qualcosa, ma che ha portato un risultato giustamente festeggiato. Se il processo andrà a buon fine la valenza politica sarà di sicuro successo, oltre che per l’allargamento della casa comune europea, anche per il contenimento geostrategico delle ambizioni russe. Non è altresì da sottovalutare il fatto di avere accolto le ambizioni della Georgia, che potrebbe diventare membro europeo senza continuità geografica con gli altri paesi membri e che potrà costituire un avamposto dell’Unione capace di attrarre altri paesi della regione. La decisione rafforza la credibilità ed il prestigio europeo, permettendo di interrompere l’offuscamento diplomatico, che Bruxelles ha dimostrato con decisioni non sempre troppo congruenti con i propri principi. Il presidente Zelensky, ha scongiurato una vittoria indiretta per Putin, che avrebbe alzato il morale di Mosca in caso di rifiuto verso l’Ucraina. L’apertura a Kiev significa un risultato politico inequivocabile a livello globale, che compensa, almeno in parte, il rifiuto del Congresso americano a sbloccare i 60 miliardi di dollari per gli aiuti militari; del resto la situazione ucraina nel conflitto con la Russia è di stallo, il fronte è immobile e non si sono registrati i progressi che il governo di Kiev aveva promesso all’occidente, mentre le armate russe sembrano resistere nelle loro posizioni. La decisione europea, unita alla promessa consistente da parte di alcuni singoli stati europei della fornitura di aiuti militari, può risollevare il morale ucraino; l’impegno di Kiev e di Mosca nei prossimi mesi invernali, dovrebbe essere quello di mantenere le posizioni e prepararsi per operazioni decisive quando le condizioni metereologiche potranno migliorare. In questo periodo l’impegno europeo può essere più incisivo anche in campo diplomatico, nonostante Putin abbia dichiarato che l’isolamento occidentale non ha prodotto grandi ripercussioni sull'economia russa e non abbia ulteriore necessità di mobilitare nuovo personale militare; queste dichiarazioni vanno interpretate in parte come giustificate dalle imminenti elezioni russe e d in parte dalla capacità di Mosca di essere stata capace di ritagliarsi un dialogo con potenze sia avverse agli USA, come l’Iran, che vicine a Washington, come l’Arabia. L’Europa, quindi deve sapere interpretare un ruolo sempre più autonomo dagli USA, anche in preparazione di una malaugurata rielezione di Trump, di cui l’ammissione di Ucraina, Moldova ed anche Georgia, deve essere letto come un processo facente parte di un piano superiore capace di addensare i paesi europei in senso sempre più federale e politico con autonomia in politica estera e dotato di un esercito proprio, capace, cioè, di superare la logica finanziaria per potere interpretare realmente il ruolo di un soggetto internazionale di primaria importanza.
giovedì 14 dicembre 2023
Cosa conviene a Netanyahu?
I tragici fatti del 7 ottobre, avvenuti in territorio israeliano al confine con la striscia di Gaza, sono stati un piano preordinato di Hamas e su questo non ci sono dubbi. Quello su cui ci si deve interrogare è l’atteggiamento delle forze di confine israeliane, allertate da suoi stessi membri e da probabili notizie di intelligence, evidentemente sottovalutate, con i confini sguarniti grazie alla diminuzione degli effettivi presenti. Queste avvisaglie sono state veramente sottovalutate o fanno parte di un piano del governo in carica, per favorire la creazione di un motivo legittimo per scatenare la repressione su Gaza ed una eventuale sua conquista e l’ulteriore facilitazione dell’espansione delle colonie in Cisgiordania? Occorre tornare indietro nel tempo e ricordare che la gestione del problema palestinese da parte di Benjamin Netanyahu si è sempre contraddistinta per un atteggiamento ambiguo, fatto di promesse non mantenute ed un comportamento che ha favorito la crescita dei movimenti più radicali, quelli che hanno sempre negato la legittimità dell’esistenza di Israele e dell’ipotesi dei due stati, a discapito di quelli moderati, che potevano favorire il dialogo, ma a discapito della politica della espansione delle colonie; infatti la ricerca effettiva di un accordo che poteva favorire il raggiungimento dello scopo dei due stati, avrebbe penalizzato la politica dell’estrema destra che fa della illegittima espansione coloniale, illegittima perché al di fuori del diritto internazionale e del buon senso, il proprio programma politico. La posizione politica e la sensibilità di Netanyahu si è sempre più spostata a destra, raccogliendo nei vari esecutivi che si sono susseguiti movimenti e partiti sempre più radicali, che con la loro azione hanno favorito la crescita di simili sentimenti degli ambiti palestinesi, con una crescita dei movimenti radicali, tra i quali è emersa la leadership di Hamas. Di pari passo, però, la situazione personale di Netanyahu è peggiorata a causa di diversi problemi con la giustizia del suo paese e lo spostamento sempre più a destra delle sue posizioni politiche, che ha messo al centro l’azione antipalestinese ha costituito, sia in ambito interno che internazionale, un motivo di distrazione molto forte dalle sue incriminazioni giudiziarie. Attualmente, nella fase della guerra di Gaza, la sensibilità del paese verso Netanyahu è fortemente negativa, per l’attacco ai kibbutz l’opinione pubblica vede proprio in Netanyahu il maggiore responsabile, ma la situazione di emergenza ne impedisce la sostituzione, anche se è stato più volte sottolineato che dopo la fine della guerra di Gaza per l’attuale premier non ci dovrà essere più alcun futuro politico. Intanto, però viene permesso un atteggiamento sempre più aggressivo dei coloni in Cisgiordania e sul futuro di Gaza sono lecite diverse domande. All’inizio dell’invasione delle truppe israeliane, la volontà dichiarata era quella di annientare Hamas e lasciare la situazione della Striscia invariata, ma col procedere del conflitto sembra emergere una volontà non esplicitamente dichiarata di volere esercitare un controllo effettivo sul territorio. Ciò implicherebbe la negazione dell’autonomia politica ed amministrativa dei palestinesi che avranno la fortuna di restare in vita di fronte alla repressione brutale che Israele sta compiendo sulla popolazione civile. Una soluzione estrema potrebbe essere lo spostamento degli abitanti di Gaza verso il Sinai, soluzione a cui l’Egitto si è sempre detto contrario, liberando così una porzione consistente di territorio da destinare a nuovi coloni. Non si tratta di una eventualità impossibile, proprio perché i sopravvissuti di Gaza sono alla completa mercè delle forze armate israeliane, non difese da alcuno stato o organizzazione internazionale, in grado di contrapporsi, anche politicamente, a Tel Aviv. Il fatto che si tratti di popolazione civile, che ha già pagato con un tributo di oltre 18.000 morti, l’intera distruzione dei loro averi, la fame e le malattie, non produce altro che una solidarietà a parole, dove primeggiano proprio i paesi arabi interessati ad avere relazioni internazionali con Israele. Alla fine il dubbio legittimo è questo: se Netanyahu dovesse allargare il dominio israeliano su Gaza ed aumentare lo spazio territoriale delle colonie, cosa portata avanti impunemente, avrebbe decretato definitivamente la prospettiva dei due stati, un argomento particolarmente gradito a parte dell’opinione pubblica israeliana, e si sarebbe quindi creato una assicurazione in grado di preservargli un futuro politico tale anche da fargli superare i suoi guai giudiziari, insomma avrebbe una struttura da leader praticamente inattaccabile anche da quei partiti e movimenti, che ne auspicano la fine politica. Tutto questo sarà possibile? La soluzione passerà anche da come i principali attori internazionali vorranno comportarsi, adottando forme nuove di approccio alla questione palestinese.
giovedì 9 novembre 2023
La scena politica internazionale dopo l'invasione di Gaza e la responsabilità israeliana
Una delle conseguenze della guerra di Gaza è la sospensione degli accordi di Abramo, tuttavia, l’Arabia Saudita ha solo sospeso l’avvicinamento ad Israele restando in attesa di un momento più propizio. Degli altri stati arabi che hanno già firmato rapporti con Israele, non ve ne è stato alcuno che ha solo minacciato di interrompergli, sono solo arrivate delle critiche a Tel Aviv per la risposta esagerata all’azione di Hamas del sette ottobre scorso, assieme alla richiesta di un cessate il fuoco, soprattutto per ragioni umanitarie. Si tratta di una situazione nettamente favorevole a Tel Aviv, che non può che rilevare il sostanziale silenzio del mondo sunnita. Questo scenario, in verità già in corso da tempo, può essere favorevole ad Israele solo nel corto periodo, ma nel medio e nel lungo favorisce la radicalizzazione dei palestinesi ed il protagonismo degli sciti, con l’Iran come capofila, seguito da Yemen ed Hezbollah. In special modo Teheran assurge, come unico rappresentante dei musulmani, a difensore dei palestinesi. Netanyahu ha di fatto ottenuto quanto voleva: una radicalizzazione, con la marginalizzazione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, organizzazione laica e più moderata, dei palestinesi può evitare la discussione sui due stati ed il protagonismo di Teheran obbliga gli statunitensi ad una nuova collaborazione con il governo nazionalista israeliano; infatti il ritiro americano dalla regione medio orientale è stato ripensato obbligando Washington a schierare una grande quantità di mezzi armati, soprattutto in mare, per proteggere l’avanzata dell’esercito israeliano ed anche per proteggere le basi americane del Golfo Persico da possibili attacchi iraniani. L’evidente volontà di dissuasione da parte di potenziali pericoli di Teheran, ma non solo, ha determinato lo schieramento di diversi missili capaci di raggiungere il territorio iraniano; questo implica che nelle trattative con il regime degli Ayatollah non potranno registrarsi progressi, sul tema del nucleare e neppure sull’allentamento delle sanzioni. L’Iran, pur avendo affermato pubblicamente di non avere alcun interesse ad ingaggiare un conflitto con USA ed Israele, non potrà che continuare a percorrere la propria strategia di destabilizzazione dell’area, per affermare i suoi obiettivi di controllo sulla Siria, insieme alla Russia ed a parte del Libano, territori essenziali per continuare a mettere sotto pressione Tel Aviv. Washington dovrà però considerare le responsabilità israeliane per avere dovuto rinunciare ad una progressiva riduzione della sua attività diplomatica nella regione medio orientale a favore di una maggiore concentrazione nella questione ucraina. Occorre specificare che diverse amministrazioni della Casa Bianca sono, per lo meno, in concorso di colpa con Tel Aviv, per non essersi impegnate sulla definizione del progetto dei due stati e non avere combattuto l’azione dei governi della destra nazionalista israeliana, che ha operato nei confronti dei Palestinesi una politica di occupazione e prevaricazione in spregio di ogni diritto civile ed internazionale. Soltanto Washington poteva fare la pressione adeguata su Israele, ma così non è stato e la soluzione dei due stati, che poteva scongiurare la situazione attuale, non è stata realizzata, anche grazie alla falsa disponibilità di Netanyahu e della sua politica spregiudicata. Ma ancora una volta la strategia si è rivelata miope ed a livello internazionale ha provocato una ondata antisionista ed anche antisemita, che ha messo in difficoltà gli ebrei in diversi paesi del mondo. In questo momento la questione dei due stati non appare percorribile per l’ostilità israeliana, eppure sarebbe ancora l’antidoto più valido al costante pericolo la questione israelopalestinese provoca negli equilibri mondiali. Prevedere una possibilità di controllo della striscia di Gaza da parte dell’esercito di Tel Aviv implica sviluppi altamente pericolosi, che, una volta avviati, potrebbero diventare inarrestabili e trascinare il mondo in un conflitto totale. Si è già visto che attori come la Russia stanno approfittando del cambio di rilevanza internazionale per distogliere l’attenzione dalla questione ucraina ed, allo stesso modo, la Cina potrebbe decidere di cambiare atteggiamento con Taiwan e passare all’azione, così come i gruppi terroristi che stanno operando in Africa potrebbero alzare il livello dello scontro. Senza la questione di Gaza questi fenomeni sarebbero maggiormente gestibili e perfino il rapporto con Teheran sarebbe migliore. Ecco perché la necessità di arrivare alla pace nel minor tempo possibile implica una responsabilità che Tel Aviv non può rifiutare, pena un brutto destino, soprattutto nel medio periodo.
venerdì 27 ottobre 2023
La Russia di fronte alla questione tra Israele e Palestina
La posizione del Cremlino, fin dai tempi dell’URSS, è stata filopalestinese ed in questo contesto si deve collocare la visita di esponenti di Hamas a Mosca, non ricevuti da Putin, ma dal ministro degli esteri russo e, comunque, accolti, in maniera simbolica inequivocabile, nella sede del Cremlino, conferendo così il massimo grado di ufficialità e rilevanza dell’incontro. Si tratta di un chiaro segnale politico rivolto sia ad USA ed occidente, che allo stesso Israele. Mosca è coinvolta direttamente nella vicenda degli ostaggi, perché sono sei le persone sequestrate di nazionalità russa, di cui tre con doppia nazionalità; mentre il dato dei cittadini russi deceduti nei bombardamenti della striscia di Gaza arriva a 23 persone. Oltre ad Hamas, il ministro degli esteri russo ha confermato anche un prossimo incontro con il leader dell’Autorità palestinese. Malgrado la differenza di vedute con Hamas, contrario alla soluzione dei due stati, la Russia deve sfruttare il momento per riposizionarsi come attore rilevante nell’area mediorientale ed ha tutto l’interesse a mantenere le relazioni con tutti i soggetti coinvolti nella questione attuale. Se si vuole avere una visione più ampia circa gli interessi di Mosca nel vicino oriente, occorre considerare i rapporti particolari intrattenuti con Iran, Siria e lo stesso Israele. La volontà di Putin sarebbe quella di svolgere un ruolo di mediatore del conflitto, che potrebbe consentire alla Russia di uscire dall’attuale isolamento diplomatico, provocato dall’aggressione all’Ucraina. L’azione di Mosca prevede di evitare il monopolio americano della gestione della crisi, anche attraverso le accuse a Washington di non avvallare le aspirazioni palestinesi ad un proprio stato e neppure le diverse risoluzioni dell’ONU, che hanno più volte condannato Israele. La proposta russa in sede di Consiglio di sicurezza non è stata accolta, perché non prevedeva la condanna di Hamas, ma la violenza contro tutti i civili di entrambe le parti, sottintendendo la violenza di Tel Aviv nei confronti di Gaza; questo ha provocato un deterioramento dei rapporti tra Russia ed Israele, che, tuttavia, non possono essere compromessi per ragioni comuni. Occorre ricordare che Israele non ha condannato la Russia per l’invasione ucraina e non ha neppure aderito alle sanzioni internazionali. Inoltre non ha fornito a Kiev, il cui presidente Zelensky è ebreo, il sistema antimissile normalmente usato per proteggersi dai razzi lanciati da Hamas. Nello stesso tempo la Russia non ostacola Israele nelle sue azioni di difesa contro Hezbollah, provenienti dalla Siria, nonostante la protezione che Mosca continua a fornire al regime di Damasco. Tel Aviv ha bisogno anche dell’aiuto di Mosca per contenere la politica iraniana nella regione, che è interesse comune in quanto Teheran proclama da tempo l’esigenza di eliminare lo stato ebraico ed attua questa strategia attraverso la sempre maggiore influenza su milizie integraliste sciite, Hezbollah e la stessa Hamas, perché, per certi versi, l’unico alleato possibile è proprio l’Iran, rimasto a sostenere materialmente la lotta di liberazione della Palestina, rispetto al ritiro sempre più evidente degli stati arabi sunniti nel supporto ai palestinesi. Teheran attua una politica di aiuti materiali nei paesi di Libano e Siria, che, specialmente per quanto riguarda Damasco può compromettere gli interessi russi, oltre la delicata stabilità regionale. Nei confronti del conflitto con Kiev, Mosca ha tutto l’interesse che l’attenzione internazionale si sposti sul medio oriente e per questo motivo il presidente ucraino è arrivato ad affermare che dietro gli attacchi di Hamas ci fosse proprio il paese russo. Avvallare questa ipotesi è molto difficile, l’azione di Hamas è stata preparata con tempi lunghi e forniture consistenti, che sembrano provenire da altri paesi. Resta però un fatto tangibile che questa crisi tra israeliani e palestinesi gioca a favore di Mosca, anche se l’attenzione dell’Alleanza Atlantica non è certo venuta meno, ma il maggiore impegno dei militari USA, soprattutto con mezzi navali, per proteggere Israele dall’Iran implica un impegno più diversificato ed anche l’azione diplomatica non è più concentrata solo sull’obiettivo europeo.
giovedì 26 ottobre 2023
Le colpe del mondo per la situazione israelo-palestinese
Israele si è molto infastidita per le parole del Segretario delle Nazioni Unite, che, condannando esplicitamente più volte il vile attacco di Hamas, lo ha, però, contestualizzato in un quadro di prevaricazione violenta del paese israeliano perpetrato in più di cinquanta anni ai danni dei palestinesi, soprattutto civili. Questa affermazione è vera nel corso della storia, ma ancora più estremizzata dagli anni, che sono tanti, dei vari governi di Netanyahu, che si sono sempre più avvicinati alla destra nazionalista ed ortodossa, parte politica con l’unico obiettivo di sottrarre, attraverso gli insediamenti abusivi, terreno non solo ai palestinesi ma perfino alle tribù beduine. Il presidente israeliano ha operato una politica di divisione dei palestinesi, favorendo gli estremisti di Hamas, che hanno raccolto il consenso dei palestinesi, accreditando la violenza come unica soluzione possibile. Occorre dire che ciò è stato favorito dall’atteggiamento ambiguo di Netanyahu, che ha, dapprima lasciato intravvedere la soluzione dei due stati, per poi andare sempre più verso una decisa negazione di questa soluzione, sfavorendo così le parti moderate della politica palestinese, più volte accusate di incapacità di realizzare l’obiettivo della costituzione dello stato palestinese con mezzi diplomatici. Occorre anche dire che gli interessi americani, rivolti sempre più verso il sudest asiatico, hanno determinato un’assenza, che ha favorito l’azione di Netanyahu, che ci ha condotto fino ad oggi. Ma gli USA non sono i soli responsabili di questa situazione: la lista non è corta, l’Europa ha mantenuto un atteggiamento condiscendente con Tel Aviv, condannando senza efficacia l’azione israeliana e non meno colpevoli sono gli stati arabi che si sono mantenuti su dichiarazioni di convenienza, senza mai agire con una politica compatta per fare pressione sugli USA e sugli stessi israeliani, non sfruttando neppure il recente avvicinamento. Tutto ciò ha contribuito a determinare un aumento della tensione, che è avvenuto senza clamori, con l’Iran sempre più unico difensore ufficiale della causa palestinese con il suo appoggio, sempre più decisivo, alle forze radicali. Teheran è stata abile a riempire il vuoto lasciato da diversi soggetti, che potevano favorire una soluzione pacifica, per sfruttare il caso palestinese alle proprie esigenze geopolitiche e strategiche. L’Iran, attraverso la Palestina, può operare su due fronti: il primo è la lotta contro l’Arabia Saudita, che è politica e religiosa, il secondo, più ampio, è contro gli USA e l’occidente in generale, fattore che gli può permettere un avvicinamento maggiore con Russia e Cina. Come si vede dalle responsabilità israeliane per non avere perseguito la politica dei due stati, ma, anzi, per averla contraddetta, si arriva ad uno stato di pesante destabilizzazione mondiale. Non era difficile prevedere questi sviluppi, ma USA ed Europa si sono affidate letteralmente al caso, lasciando troppa libertà all’azione di Netanyahu. E’ necessario che la situazione israelo-palestinese non sia in uno stato di tensione come quello attuale, per non alterare i già fragili equilibri mondiali, ed è per questo che Israele si deve convincere a non usare una repressione violenta così intensa, che lo squalifica come stato democratico, ponendolo allo stesso livello di una organizzazione terroristica; il numero dei morti, civili, registrato nella striscia di Gaza è già di molto superiore rispetto a quelli provocati da Hamas e la stessa operazione di terra paventata nella striscia di Gaza, rischia di essere una carneficina enorme per le due parti. In più esiste la possibile apertura di un fronte nord, con Hezbollah pronto ad intervenire, una situazione sempre più surriscaldata in Cisgiordania e le esplicite minacce iraniane di colpire Haifa. La presenza delle navi militari nel golfo Persico, rischia di innescare un confronto con Teheran, con la conseguenza di attivare le cellule dormienti e non prevedibili presenti in tutto il mondo. Mai come in questo momento la pace è nelle mani sciagurate di Netanyahu, sul quale, onestamente non sembra si possa fare affidamento. L’azione di Biden, improntata alla moderazione, per tardiva, sembra essere l’unica in grado di potere avere qualche possibilità per scongiurare il principio della degenerazione, che rischia veramente di portare allo scoppio di un conflitto mondiale. Solo facendo tacere il rumore delle armi e dei bombardamenti incondizionati su Gaza, si può sperare di ripartire da una sorta di negoziato, che ridia forza alla soluzione dei due stati e faccia arretrare gli opposti estremismi. Il tempo sta per scadere ma le possibilità ci sono, solo con una adeguata riflessione da parte di tutti, oltre c’è solo il baratro.
mercoledì 6 settembre 2023
Le richieste di asilo aumentano in Europa
Nei primi sei mesi di quest’anno, le richieste di asilo verso i ventisette paesi dell’Unione Europea, sommati a Norvegia e Svizzera, hanno raggiunto la cifra di 519.000 domande, segnando un incremento di più 28%, rispetto al periodo di riferimento dello scorso anno. Di queste richieste il 30% riguardano la Germania, il 17% la Spagna ed il 16% la Francia. Con questi dati si potrebbe raggiungere tendenzialmente, la cifra di oltre un milione di richieste, numero analogo al dato record del 2016. Il 13% delle richieste di asilo proviene dalla Siria, pari a circa 67.000 persone, con un aumento, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, del 47%. Le cause di questa vera e propria migrazione sono da ricercare nell’aggravarsi della guerra civile, che ha causato il peggioramento delle condizioni economiche e l’ostilità dei turchi, che negli anni passati avevano assorbito gran parte dell’emigrazione proveniente da Damasco, contro la popolazione siriana. La rotta migratoria maggiormente seguita dai cittadini siriani è quella balcanica e ciò influisce sulle nazioni che raccolgono le richieste di asilo, come Bulgaria, con il 6%, ed Austria, con il 10%, anche se queste destinazioni rappresentano sempre più soluzioni di transito verso la Germania, che ha una percentuale di richieste del 62%, grazie al radicamento della comunità siriana, favorita, negli anni precedenti dalla cancelliera Merkel. Subito dopo la Siria, il secondo paese per domande di asilo è l’Afghanistan, con 55.000 domande; pur essendo un bacino migratorio che ha sempre assicurato quote sostanziose di migranti, la decisione degli USA di abbandonare il paese ha favorito il ritorno dei talebani, che, una volta al potere, hanno notevolmente compresso i diritti umani e praticato una politica economica disastrosa, che ha aggravato una situazione già difficile, costringendo il paese a reggersi, quasi esclusivamente, sugli aiuti umanitari internazionali. Mentre la provenienza dei migranti da zone africane ed asiatiche, non rappresenta una sorpresa, si registra un aumento delle richieste da zone dell’America latina, come Venezuela e Colombia, che insieme raggiungono il 13% delle domande, nella loro totalità praticamente dirette verso la Spagna, spiegando così la seconda posizione europea di Madrid, nella classifica delle richieste di asilo. Questi dati, molto preoccupanti, vengono registrati a poca distanza dalla chiusura del patto sull’immigrazione e a meno di un anno dall’appuntamento elettorale europeo. Le ormai consuete resistenze di Polonia ed Ungheria alla distribuzione dei migranti, aggravano la situazione interna dell’Unione Europea e mettendo in risalto la poca efficacia e lungimiranza delle politiche per regolare gli afflussi. L’accordo di Giugno tra i ministri degli esteri dell’Unione ha previsto una sorta di tassa, nella misura di 20.000 euro per persona all’anno, per quei paesi che si rifiuteranno di contribuire alla distribuzione dei migranti ed è stato condizionato dal voto contrario di Budapest e Varsavia; proprio in Polonia, ad ottobre, si effettuerà un referendum sul tema dell’accoglienza dei migranti, indetto dal governo di destra in carica. Ancora una volta Bruxelles si presenta con divisioni al proprio interno e senza sanzioni in grado di dividere il carico migratorio, presentandosi all’opinione pubblica mondiale debole e facilmente ricattabile dalle dittature anti occidentali, che usano il tema migratorio come vera e propria arma di pressione dell’Europa. Questo stato di cose determina, in un periodo dove la coesione occidentale è sempre più necessaria, un lato vulnerabile a discapito non solo dell’Unione, ma anche dell’Alleanza Atlantica. Accordi come quello tra Unione Europea e Tunisia, oltre ad essere poco efficaci, vengono firmati con regimi dittatoriali, che approfittano della debolezza singola, in questo caso dell’Italia, e globale di una istituzione che non riesce ad essere unita e che permette il prevalere degli interessi nazionali rispetto a quelli sovranazionali. Il caso italiano, vera e propria frontiera meridionale dell’Europa, chiarisce ancora di più la situazione: 65.000 arrivi pari al 140%, se confrontati con lo stesso periodo del 2022, eppure Roma riceve ben pochi aiuti dai membri dell’Unione, preoccupati a salvaguardare le proprie singole situazioni. Finché non sarà superata questa logica, con una situazione che sarà sempre più grave, per guerre, carestie ed emergenze climatiche, l’Europa e l’occidente saranno sempre sotto ricatto.
martedì 25 luglio 2023
Orban deve uscire dall'Unione Europea
Viktor Orban ha fatto un discorso ideologico, che lo pone più come potenziale alleato di Putin, che effettivo aderente all’Unione Europea, del resto il suo programma elettorale, che gli ha permesso la vittoria, è stato incentrato sulla contrarietà dell’Unione Europea, di cui, però, l’Ungheria gode dei robusti contributi. La mancanza di coerenza del politico magiaro, sembra coincidere con la maggioranza dei suoi concittadini, che sfruttano l’assurdo regolamento dell’Unione dell’approvazione dei provvedimenti sulla base dell’unanimità e non della maggioranza. Orban ha profetizzato prevedendo la dissoluzione dell’Unione Europea e la caduta degli USA; se il secondo sembra un augurio, per il primo la soluzione sarebbe facile: fare come la Gran Bretagna ed uscire da Bruxelles. Questa eventualità non rientra, però, nei piani di Orban, che, forse, si è dato il compito politico di facilitare la dissoluzione dall’interno, con i suoi assurdi comportamenti totalmente contrari ai valori fondativi dell’Unione Europea. Per Orban l’occidente è un insieme di stati ricchi ma deboli, che non hanno intenzione di affrontare la competizione con le potenze mondiali. Se, da un certo punto di vista, questa affermazione ha delle parti di verità, appare altrettanto vero che personaggi come il politico ungherese contribuiscono non poco ad una visione comune, che possa alzare il livello qualitativo di Bruxelles nei confronti delle maggiori potenze mondiali, infatti la visione di Orban definisce l’Europa come una sorta di ghetto economico, politico e culturale con un futuro di decadenza senza alcuna speranza, nonostante i consumi elevati, che la condurranno ad un destino di desolazione. L’accostamento con la previsione del Fondo Monetario Internazionale, che prevede l’uscita dalle prime dieci economie del mondo ed il passaggio della Germania da quarto a decimo entro il 2030, con il supposto degrado dell’Unione, riassunto nei valori: migrazione, LGBT e guerra, appare una infelice retorica, che va contro le tendenze mondiali ed una replica di basso livello di quanto viene detto nei luoghi di potere russi; anche l’atteggiamento persecutorio, messo in atto con la contrarietà all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Svezia e Finlandia, portato avanti solo perché i due paesi hanno contestato la deriva populista del governo di Orban, inquadra bene il basso valore politico del personaggio. L’avversione per gli Stati Uniti, sembra replicare le ragioni di Putin, la presunta perdita della posizione di leader mondiale di Washington nei confronti della Cina, può rischiare di portare il mondo ad un conflitto, senza ricordare che il suo amico di Mosca sta mettendo ben più in pericolo la pace mondiale. La posizione ungherese è la sola in Europa ad essere corretta, perché rifiuta i valori edonistici e non intende procedere sulla sostituzione della popolazione con gli immigrati che rifiutano i valori cristiani; non solo, riserva critiche sempre più insistenti verso la Romania, perché in Transilvania risiedono oltre 600.000 persone di lingua magiara e fedeli alle tradizioni, minacciando velatamente un diritto su questo territorio di un altro paese. Ce n’è abbastanza perché i vertici dell’Unione intervengano, come avrebbero dovuto fare già da molto tempo, in maniera dura contro questo personaggio e la maggioranza del paese, che, malgrado tutto lo sostiene. Non è possibile permettere a politici che non condividono i principi sui quali si basa l’Unione, consentire un comportamento di simile arroganza, che consegue alla negazione delle regole democratiche nel proprio paese, con l’introduzione della censura e della negazione al potere giudiziario di esercitare in autonomia la propria funzione. Appare anche inutile ricordare come Budapest, peraltro insieme ad altri paesi dell’ex blocco sovietico, abbia rifiutato il principio di mutualità e solidarietà nella divisione dei migranti e sia stato in totale disaccordo sulle politiche europee approvate dalla maggioranza degli stati. Una presenza del genere costituisce un freno all’azione politica comune e devono essere previste delle soluzioni automatiche ed immediate, che possano sanzionare dalla penalizzazione pecuniaria dei finanziamenti, fino alla sospensione ed anche all’espulsione dal consesso europeo. Le sfide attuali vanno affrontate sulla base degli ideali fondativi dell’Unione, senza permettere che questi siano alterati da visioni contrarie e retrograde, se non si può tenere insieme tutti i membri è meglio che quelli che non condividono l’azione politica comune vengano allontanati.
lunedì 24 luglio 2023
Putin minaccia la Polonia
Il dispiegamento militare della Polonia al confine della Bielorussia, ha innervosito Putin, che ha minacciato Varsavia ricorrendo anche a citare Stalin; per il capo del Cremlino la minaccia alla Polonia è dovuta in quanto il paese bielorusso compone con Mosca l’alleanza sovranazionale tra Russia e Bielorussia. Lo schieramento militare polacco è visto come una minaccia tangibile alla esistenza stessa della Bielorussia, perché operato da un paese dell’Alleanza Atlantica. La ragione del timore di Varsavia, risiede nella presenza del territorio di Minsk dei militari della milizia privata Wagner, che dopo il fallito colpo di stato, si sono rifugiati nel paese di Lukashenko con la sua autorizzazione. Una infelice battuta del dittatore bielorusso, sulla possibilità di attraversare il confine con la Polonia, ha innescato uno stato di tensione molto elevato, che avvicina sempre di più la possibilità di uno scontro tra l’Alleanza Atlantica, di cui la Polonia fa parte, e la Russia, di cui, di fatto, la Bielorussia, più che un alleato è uno stato vassallo. Naturalmente Putin ha specificato che un attacco contro Minsk equivarrebbe ad un attacco a Mosca. Il presidente russo ipotizza anche un invio congiunto di militari polacchi e lituani all’interno del territorio ucraino, nella zona di Leopoli, per Putin l’intenzione dei due paesi ex sovietici e divenuti avversari, non sarebbe quella di prestare aiuto agli ucraini, ma di sottrargli del territorio: si tratta, evidentemente, di un tentativo di portare disordine nella coalizione che sostiene Kiev con informazioni atte a destabilizzare i rapporti tra i tre governi. In realtà queste affermazioni non hanno alcun credito internazionale e sono rivolte, piuttosto, all’opinione pubblica russa, nell’estremo tentativo di rivitalizzare il gradimento della popolazione verso l’operazione militare speciale, che sembra riscuotere sempre meno consenso. Individuare sempre nuovi nemici e darne particolare risalto, anche distorcendo la storia, con narrazioni costruite a proprio uso e consumo, rivela che l’isolamento di Mosca è sempre più tangibile anche dentro le mura del Cremlino. L’enfasi che viene data alla prossima visita di Lukashenko, non certo un primo attore internazionale, ma un personaggio succube di Putin, costituisce una informazione in più di come la Russia accusi la propria solitudine internazionale e cerchi di aggirarla, sfruttando ogni minima occasione. Dal punto di vista militare, però, è un fatto che la decisione di Varsavia, peraltro legittima, perché operata entro i propri confini, costituisca un aggravamento della situazione, per la possibilità concreta di un allargamento del conflitto, sia come quantità ed entità degli attori coinvolti, che, anche per l’allargamento del territorio coinvolto. Uno sviluppo della guerra nella parte settentrionale del paese ucraino, quello al confine con la Bielorussia, potrebbe alleggerire la pressione di Kiev sull’esercito russo, che sta faticando a contenere lo sfondamento dell’esercito di Zelensky nelle zone occupate dall’Armata rossa. Ora un allargamento del conflitto in quelle zone potrebbe coinvolgere anche la frontiera con la Polonia, mentre più remote sono le possibilità di un allargamento verso le frontiere di Lituania ed Estonia. Il timore occidentale è che questa sia una strategia che Putin intenda adottare, usando l’alleato bielorusso e la milizia Wagner, per ora impegnata soltanto nell’addestramento dei soldati di Minsk, ma che potrebbe riabilitarsi agli occhi del Cremlino, rendendosi protagonista di azioni contro l’Ucraina condotte dalla Bielorussia. Uno scenario possibile, dal quale difficilmente l’Ucraina potrebbe uscire vincente; tuttavia in questo possibile schema il punto debole è proprio la vicinanza della Polonia, che non potrebbe tollerare nei pressi dei suoi confini la presenza di invasori all’interno delle regione dell’Ucraina vicine ai territori polacchi. Qui sta il dilemma, quale sarà la volontà di Putin di portare avanti un piano così rischioso da obbligare l’Alleanza Atlantica ad essere coinvolta direttamente nel conflitto. Si tratta di un’ipotesi che rischia di essere sempre più vicina e di portare allo scoppio della terza guerra mondiale, con tutte le conseguenze ben immaginabili. Per ora gli USA tacciono, ma per impedire un avanzamento verso ovest del conflitto occorrerà mantenere il maggiore equilibrio possibile in uno scenario non certo facile, dove la guida dovrà essere che una guerra mondiale non può convenire ad alcun attore in gioco.
lunedì 8 maggio 2023
La difficile situazione mondiale e regionale provoca il riavvicinamento tra Corea del Sud e Giappone
Storicamente i rapporti tra Giappone e Corea del Sud sono stati difficili a causa delle questioni che si sono verificate con l’occupazione nipponica della penisola coreana dal 1910 al 1945 e per avere reso in schiavitù più di ottocentomila coreani, come lavoratori forzati nelle aziende di Tokyo ed avere obbligato almeno duecentomila donne a diventare oggetto di abusi sessuali a favore dei soldati di occupazione giapponese; inoltre vi sono state dispute su alcuni isolotti, controllati da Seul dopo la sconfitta dell’impero del Sol levante. La corte suprema coreana ha riportato alla ribalta queste questioni quando nel 2018 ha sancito che le aziende giapponesi coinvolte avrebbero dovuto risarcire le persone coreane vittime della schiavitù, ciò ha provocato delle restrizioni da parte di Tokyo sulle importazioni di prodotti coreani, che hanno pregiudicato i rapporti tra i due stati fino a bloccarne il dialogo. Uno dei punti del programma di Shinzo Abe è stato quello di cambiare la costituzione pacifista, come primo passo verso un approccio che potesse permettere un contenimento della Cina, in questa ottica anche il rapporto con la Corea del Sud doveva diventare collaborativo, sia dal punto di vista diplomatico, che da quello economico, proprio per combattere Pechino anche sul piano della produzione. Quello di Abe è stato un lavoro soltanto avviato, ma che, per i rapporti tra i due paesi è stato fondamentale e che, nello scenario attuale, ha permesso l’avvio di una riconciliazione tra le due nazioni. In questo quadro si svolge la prima visita ufficiale di un capo di governo giapponese, dal 2011, in terra sudcoreana. Certo la minaccia di Pyongyang è la prima urgenza delle discussioni, perché la minaccia atomica non stata disinnescata, ma altri temi saranno sul tavolo della riunione. Per favorire ulteriormente la ripresa dei contatti il governo di Tokyo ha pianificato un progetto per risarcire i lavoratori schiavizzati, come chiesto dalla Corte suprema coreana e ciò ha determinato il nuovo giudizio di Seul, che ha definito lo stato nipponico da aggressore militarista a partner che condivide i valori universali dal paese sudcoreano. Questo clima sempre più disteso aveva già favorito la visita del presidente di Seul in Giappone, avvenuta lo scorso marzo e dopo ben dodici anni di assenza. La normalizzazione dei rapporti diplomatici ha permesso di affrontare temi di sviluppo comune quali la difesa, l’economia e la finanza. In questo momento quello che preoccupa di più i due esecutivi è la reciproca sicurezza, data la minaccia della crescente capacità balistica e nucleare della Corea del Nord, ma anche l’atteggiamento di Mosca e l’espansionismo della Cina, che ha compiuto grandi investimenti nel settore militare per rinforzare il suo apparato bellico. Dietro questo riavvicinamento, oltre che le ragioni già enunciate, vi è l’azione diplomatica di Washington, che ha da tempo messo al centro del suo interesse internazionale il contrasto alla Cina per la supremazia dei mari orientali, sia per Giappone, che per Corea del Sud, gli USA rappresentano il maggiore alleato, ma la distanza tra Seul e Tokyo non ha finora consentito una sinergia per sviluppare un rapporto trilaterale più stretto, soprattutto nei confronti della minaccia più immediata rappresentata da Pyongyang; ma anche gli sviluppi della guerra ucraina, con la Russia dichiaratamente contro il blocco occidentale costituisce un serio motivo di preoccupazione, considerando il progressivo avvicinamento di Mosca a Pechino. Se la Corea del Nord è la minaccia più prossima, il vero spauracchio sono le ambizioni cinesi, che con una potenziale azione contro Taiwan metterebbero a rischio i già fragili equilibri regionali, rischiando di trascinare in un conflitto i due paesi; aldilà di queste minacce concrete l’atteggiamento generale di Pechino, sempre più deciso a stabilire una zona di influenza sotto il proprio controllo, deve essere l’argomento decisivo per mettere da parte le distanze tra i due paesi e convincerli ad allacciare rapporti sempre più stretti per unificare gli sforzi per salvaguardare la loro sicurezza reciproca. Dal punto di vista della Cina la ripresa del dialogo tra i due paesi non sarà vista in maniera positiva, perché favoriva la sua politica nell’area, anche se in maniera indiretta, al contrario ora, Pechino dovrà affrontare anche la sinergia con gli Stati Uniti e non sarà certamente cosa gradita: ciò potrebbe provocare esibizioni di forza nei mari orientali, alzando il livello di guardia in una regione più volte in bilico a causa di possibili incidenti tra forze armate di paesi con interessi contrapposti.