Due fatti sono venuti alla ribalta nella vicenda, che vede Israele impegnato nella lotta contro la popolazione palestinese di Gaza; si tratta di due fatti rilevanti sui quali l’opinione pubblica mondiale dovrebbe fare le dovute considerazione e trovare adeguate risposte verso Tel Aviv. La prima è la dichiarazione ufficiale delle Nazioni Unite, che ha dichiarato la presenza della carestia nella Striscia di Gaza, carestia che è la prima in un medio oriente, pur gravemente martoriato da catastrofi militari. Secondo le Nazioni Unite ben 514.000 persone, pari ad un quarto della popolazione, sta affrontando la mancanza alimentare, con un dato proiettato alla fine del mese di settembre che potrà arrivare a riguardare ben 641.000 persone. La particolarità della carestia di Gaza è che non è dovuta a cause metereologiche o sanitarie, ma interamente provocata dall’Uomo, cioè dall’azione compiuta e che sta compiendo l’esercito di Israele. Questo disastro umanitario era evitabile se Tel Aviv non avesse praticato l’ostruzionismo sistematico nei confronti degli aiuti inviati ai confini di Gaza. L’intenzionalità dell’azione israeliana è ancora più grave perché rientra in un piano preciso di indebolire i civili in quanto popolazione palestinese da estirpare con qualunque mezzo dal territorio della Striscia. La volontà del governo ebreo ultra ortodosso è quella di annettersi il territorio di Gaza, ed è, purtroppo, condivisa da gran parte dell’opinione pubblica di Israele. Nonostante la presenza di massicci carichi di cibo al confine il comportamento di Israele non cambia. L’Altro Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, ritiene direttamente responsabile il governo di Israele, tanto da configurare le morti causate dalla fame, come crimini di guerra per omicidio volontario. Questa considerazione introduce il secondo fatto rilevante, che riguarda la questione. Secondo un rapporto segreto delle forze armate israeliane il numero delle vittime civili della guerra di Gaza è apri all’83% delle vittime totali: come si evince da questo dato il basso numero di vittime combattenti, autorizza ad interpretare una pianificazione studiata del genocidio dei palestinesi, tanto da poter essere paragonata ai massacri del Ruanda ed all’eccidio di Mariupol. La combinazione tra fame imposta e morti per attività militare qualifica in maniera netta quale siano state le intenzioni di Netanyahu e del suo governo nei riguardi dei palestinesi: annientarne il più possibile in modo da creare le condizioni di una deportazione dalla Striscia; del resto una recente statistica ha reso pubblico il dato che ben il 79% della popolazione israeliana è d’accordo circa la repressione indiscriminata della popolazione palestinese, che è considerata come occupante abusivo e neppure degno della dignità umana. Naturalmente Netanyahu smentisce questi dati o tutt’al più li giustifica con l’azione di Hamas contro i suoi stessi cittadini, tuttavia lo schema mentale del capo del governo israeliano è sempre lo stesso; mentire spudoratamente e guadagnare tempo per raggiungere i suoi scopi, ricorrendo costantemente ad accusare di anti semitismo chi lo contraddice e rifiutando ogni lettura diversa dalla sua e da quella del proprio governo. Ora aldilà della rispettiva visione politica ed al di fuori delle ovvie ragioni israeliane, l’assenza di reazione a questi crimini perpetrati a civili innocenti e di tutte le età resterà una macchia indelebile su tutti i paesi mondiali, ma ancora di più sulle democrazie occidentali, che si sono rivelate come entità vuote ed assenti quando è necessario difendere il diritto internazionale e popolazioni inermi dalla violenza più bieca, da qualunque parte essa provenga. Solo ultimamente sono arrivate condanne fine a se stesse ed anche il riconoscimento dello stato palestinese che si annuncia numeroso alla prossima assemblea delle Nazioni Unite è un esercizio privo di conseguenze pratiche. Israele va isolato sempre più, la sua violenza deve essere contenuta con ogni mezzo e l’inizio sono sanzioni pesanti che devono condizionare una economia che non dispone di risorse proprie, l’Europa deve fare almeno questo, cercando di innescare una reazione anche in altri paesi, soprattutto quelli arabi; certo questo implicherà una reazione di Trump, ma un blocco consistente capace di isolare Tel Aviv potrà essere un deterrente tardivo ma efficace.
Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 22 agosto 2025
Cina e India si riavvicinano, grazie alle politiche di Trump
Uno degli effetti collaterali, in politica estera, dei dazi di Trump è quello di avere provocato l’avvicinamento di nazioni tradizionalmente lontane. Il caso più eclatante è quello dei nuovi rapporti che si stanno instaurando tra India e Cina, finora paesi tradizionalmente avversari. Le due grandi nazioni asiatiche condividono migliaia chilometri di frontiera, lungo la quale le tensioni sono state ripetute nel tempo; anche la questione tibetana ha contribuito a questi attriti e la vicinanza tra India ed USA ha contribuito alla diffidenza della Cina verso il paese indiano. In realtà la questione di contrasto maggiore è stata la lotta per il predominio del continente asiatico tra i due paesi, che il grande progresso cinese ha determinato a proprio favore. Questo finché la variabile Trump non è comparsa sulla scena. Anche se nel primo mandato dell’inquilino della Casa Bianca i rapporti con Nuova Delhi erano del tutto diversi, con il secondo mandato l’India ha rivendicato una maggiore neutralità sulle questioni internazionali, rispetto alla posizione USA, non ha gradito, che in occasione del conflitto tra India e Pakistan Trump si assegnasse il merito della fine dei contrasti ed infine il governo indiano non ha gradito che cittadini del proprio paese siano stati esposti in manette, come veri e propri trofei nella lotta contro gli immigrati irregolari, caposaldo del presidente americano. Se questi argomenti avevano già incrinato i rapporti tra i due paesi, la decisione di applicare dazi del 50% sui prodotti indiani verso gli USA, a causa dell’acquisto del petrolio russo da parte dell’India, ha congelato del tutto le relazioni. Ciò ha provocato un effetto certamente non desiderato, ma fortemente prevedibile, dalla politica estera americana: il riavvicinamento, impensabile fino a poco tempo fa, tra Nuova Delhi e Pechino. Ora fare tornare indietro questo processo risulterà oltremodo difficile per gli strateghi della Casa Bianca. Le relazioni riprese tra i rispettivi ministri degli esteri dei due paesi, si preannunciano soltanto come un punto di partenza dei nuovi rapporti. Il primo passo sarà quello di riaprire gli scambi commerciali su tre valichi himalayani e la ripresa dei voli diretti trai due paesi, non più praticati dal 2020 e, inoltre, il rilascio dei visti per turismo, affari ed informazione. Questi primi sviluppi sono soltanto una piccola parte del potenziale commerciale che i due paesi possono intraprendere, andando almeno in parte, a colmare gli effetti dei dazi americani. Anche all’interno dell’organizzazione dei BRICS, Pechino si è già sbilanciata per il sostegno dell’India ad ospitare il vertice del prossimo anno tra Brasile, Cina, India e Sud Africa, per aumentare le relazioni commerciali tra questi paesi. Una forma di collaborazione più stretta tra questi paesi, in materia di scambi commerciali e finanziari, fono ad arrivare ad una intesa su di una valuta comune alternativa al dollaro, può mettere in seria difficoltà l’economia americana, che sta alienandosi la collaborazione di paesi prima amici, soltanto per ragioni ideologiche o di opportunità relativa, con il risultato di rafforzare la Cina, come prima forza industriale del mondo. Occorre tenere conto che la vicinanza alla Russia, per l’India è quasi una consuetudine, ma l’azione americana la sta rafforzando, diverso è l’avvicinamento alla Cina, che rappresenta una vera e propria novità sullo scacchiere mondiale e che anche dal punto di vista strategico rischia di creare un blocco asiatico molto avverso agli USA. Washington fino dalla presidenza Obama ha messo al centro dei propri interessi politici ed economici il versante asiatico a discapito dell’Europa: lo scopo era quello di isolare la Cina, dottrina in cui si è riconosciuto anche Trump, tuttavia la sua azione sta favorendo un esito ben differente dalle intenzioni originarie. A questo punto la Cina ha dalla propria parte la Russia e l’avvicinamento dell’India, significa togliere un alleato, anche se non così stretto, agli Stati Uniti, che possono contare soltanto su Giappone e Corea del Sud in quell’area del mondo. L’imperizia di Trump e di chi si è circondato sta producendo danni notevoli alla politica estera americana, che non sono ancora del tutto compresi dentro ai centri di potere americani, ormai saldamente in mano ai Repubblicani amici del presidente. Con l’isolamento il programma di rifare grande l’America non può riuscire e si produrranno macerie che sarà difficile ricomporre, non solo sul piano politico ma anche su quello economico.
venerdì 8 agosto 2025
Il multilateralismo tra Brasile e India come modello per opporsi a Trump
Nel quadro delle reazioni seguite alle sciagurate politiche dei dazi imposti da Trump, c’è da registrare l’avvicinamento tra India e Brasile per incrementare lo scambio commerciale tra i due paesi, con l’intento di arrivare, entro il 2030, ad una espansione fino a superare i 17 miliardi di euro. Questi sviluppi sarebbero il risultato dei contatti telefonici tra il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente brasiliano Lula, quindi contatti avvenuti tra le maggiori cariche dei due paesi. Occorre ricordare che gli USA hanno intenzione di tassare le merci indiane in entrata del 50% a causa degli acquisti di petrolio russo, mentre il 30% che la Casa Bianca vuole imporre al Brasile è dovuto all’incriminazione dell’ex presidente Bolsonaro. Il mezzo concreto per raggiungere la somma di 17 miliardi di euro di scambi, consiste nell’avere concordato un ampliamento dei sistemi dell’intesa tra Mercosur ed India, dopo l’accordo tra i due paesi avvenuto alla fine del recente vertice tra i BRICS, conclusosi a Rio de Janeiro. La sfida di Brasile ed India è di superare l’attuale e le prossime fasi economiche, che si preannunciano difficili per tutte le economie mondiali, attraverso il rilancio del multilateralismo ed una maggiore integrazione, non solo tra i due paesi, ma proprio come modello da estendere il più possibile in contrapposizione all’isolazionismo di Trump. Questo tipo di approccio deve rappresentare l’alternativa da percorrere come esempio mondiale a chi si vuole opporre a quanto Trump vuole imporre: una egemonia populista, che governa su dati volutamente distorti e spesso falsi, per indottrinare una opinione pubblica sprovvista degli strumenti per il giusto discernimento delle notizie contraffatte. Per colpire il modello di Trump l’azione deve essere perseguita in due modi contemporaneamente: dalla base sociale, rendendo più consapevoli i cittadini, attraverso l’azione di corpi sociali e dall’alto con azioni concrete delle istituzioni dei governi e delle istituzioni. In questo contesto il rafforzamento della democrazia è fondamentale, perché casi di accentramento del potere non favoriscono il ruolo delle opposizioni e del rispetto delle minoranze, purtroppo sta passando sempre più spesso il concetto che una maggioranza legittimata dal voto popolare possa imporre la propria visione in maniera assoluta, senza tenere conto di chi ha votato in modo diverso. Il passo successivo è la ricerca della riduzione della diseguaglianza, come mezzo per combattere l’ignoranza che favorisce la manovrabilità delle persone. Naturalmente senza una regolamentazione dei mezzi tecnologici e delle nuove tecnologie, raggiungere questi obiettivi appare molto difficile, perché la concentrazione di questi mezzi sono sempre più concentrati nelle mani di poche persone, spesso troppo vicine ai potenti di turno. La volontà distorta di Trump ha imposto i dazi in oltre novanta paesi, alterando il libero scambio e compromettendo lo sviluppo delle economie del mondo; creare una coalizione di tutti i paesi colpiti da Trump appare impossibile, perché esistono contrapposizioni profonde tra molti di loro, per altri il problema è il servilismo verso gli Stati Uniti, scambiato per occasione di rapporti privilegiati, tuttavia accordi ampi come quello tra Brasile ed India, capaci di creare mercati alternativi al dominio statunitense sembra possibile. Occorre anche considerare, che per adesso, gli effetti di questi dazi, negli USA, non si sono ancora sentiti, ma stime autorevoli prevedono un rincaro, a causa dei dazi, a carico dei cittadini USA, di una media di oltre il 18%, creando una situazione che non si verificava dal 1934. Questo aspetto minaccia di sorprese negative per il presidente americano, giacché ad essere colpita sarà proprio una parte del proprio elettorato, dove una parte sarà impossibile da ingannare con la falsa propaganda. Si tratterà di una prova che minaccia di essere molto severa in termini di gradimento e di apprezzamento delle politiche attuali della Casa Bianca e che potrà rappresentare un fattore di destabilizzazione da non sottovalutare. Ciò sarà un elemento di facilitazione per il successo di eventuali politiche di unione tra più paesi contro i dazi e tutto il modo di concepire il mondo da parte di Trump, viceversa senza unione di intenti a livello statale il percorso trumpiano sarà più difficile da affrontare.
mercoledì 6 agosto 2025
Su Gaza L'Unione Europea conferma la propria irrilevanza
Dopo una pessima figura per la trattiva con Trump sul tema dei dazi, peraltro non ancora formalmente chiusa ed anzi con nuove minacce da parte del presidente americano, l’Unione Europea colleziona una nuova performance negativa di fronte all’opinione pubblica internazionale. Nemmeno la più sfrenata arroganza da parte di Netanyahu, che ha affermato di volere occupare e quindi annettersi la striscia di Gaza, ha saputo produrre una reaziona, anche piccola, da parte di Bruxelles. Si è assistito alla debolezza contrapposte alla forza, la scelta di non reagire a tanta sfrontatezza. Eppure la pressione internazionale, con la volontà di riconoscere la Palestina come stato, poteva rappresentare una occasione per dimostrare una qualche vitalità, soprattutto perché, a questo livello, il riconoscimento palestinese è poco più di una manifestazione di volontà di fare pressione ad Israele, senza effetti pratici immediati, se non quelli mediatici; tuttavia nelle istituzioni comunitarie vige il silenzio ed anche l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Kaja Kallas, non ha espresso alcun commento e l’ultimo messaggio apparso sul social network X è quello di condanna ad Hamas con la richiesta del rilascio degli ostaggi. Nel silenzio generale degli organi di governo dell’Unione Europea, quello che traspare è la volontà di non interferire con un governo israeliano, che rappresenta ciò che c’è di più lontano dai valori europei. La carneficina ed il genocidio perpetrato da Tel Aviv, attraverso le armi e la fame usata come arma, dovrebbero scandalizzare in automatico ogni democrazia e fare scattare isolamento e sanzioni economiche e politiche per Israele, almeno al pari di quanto, giustamente, applicato alla Russia: quale sono le differenze delle sofferenze imposte alla popolazione civile? Non basta che uno sia uno stato riconosciuto ed un altro un territorio sprovvisto di riconoscimento unanime; la sofferenza delle persone imposta da regimi invasori dovrebbe suscitare gli stessi sentimenti. Al contrario mentre in fasce sempre più numerose di popolazione questo accade, lo stesso non vale per i governi e le istituzioni, soprattutto quelle dell’Unione Europea, che con questo atteggiamento possono solo riscuotere una delegittimazione delle loro figure ed una percezione di inutilità delle figure collegiali e, in ultima analisi, della stessa Unione. Occorre capire quali sono i motivi che tengono in ostaggio Bruxelles anche di fronte all’evidenza di una mostruosità di tale genere. Se per stati come la Germania, che, peraltro, ha mostrato aperture al riconoscimento della Palestina ed ha condannato Israele (e per questo è stata accusata di nazismo), si può comprendere la naturale ritrosia a criticare lo stato ebraico, meno comprensibile è l’atteggiamento di una organizzazione sovranazionale come l’Unione; tanto più che la condanna all’attuale governo israeliano non avrebbe certo critiche antisemite, ma si richiamerebbe al diritto internazionale, che dovrebbe essere universalmente riconosciuto. Una motivazione potrebbe risiedere nell’atteggiamento di Bruxelles completamente subalterno a Washington, una sorta di preoccupazione a non contrastare Trump, che appoggia in pieno l’operato di Tel Aviv, per non suscitare contrasti con gli USA per preservare una sorta di canale preferenziale nelle relazioni con la Casa Bianca; tuttavia questa pare, come ormai appurato, soltanto una illusione, in cui crede solo l’Europa. Esiste il timore di compromettere le relazioni economiche, quelle che hanno imposto i dazi, o forse quelle militari, dove l’Alleanza Atlantica è sempre più contestata dal presidente USA. Queste ragioni appaiono già poco solide, se queste relazioni fossero effettivamente forti, ma nell’attuale stato di cose si rivelano soltanto scuse non credibili. Il problema è che dentro l’Unione non esistono regole certe di natura politica e neppure indirizzi univoci capaci di derivare dalle ragioni fondative dell’Europa unita, che, infatti, unita non è. La sovranità troppo limitata di Bruxelles, l’assenza di una politica estera unitaria, la mancanza di una forza armata comune, rappresentano ostacoli insormontabili per diventare un attore mondiale rilevante ed anche la mancata cancellazione del voto a maggioranza assoluta, anziché la presenza del principio di maggioranza relativa, consente a stati parassiti di condizionare troppo la vita dell’Unione, che si conferma soltanto una unione basata sull’economia ma incapace di produrre progressi al proprio interno nel campo della politica e per questo condannata ad essere irrilevante.
venerdì 1 agosto 2025
Il Canada deve entrare nell'Unione Europea
Quello che sta accedendo con il ricatto politico di Trump, di applicare i dazi, non solo per ragioni economiche, ma anche per ritorsioni politiche dovrebbe fare riflettere il mondo internazionale e favorire quell’isolamento che gli USA, sembrano orgogliosamente ricercare. Dopo diverse scadenze rimandate, per uso personale e dei suoi familiari, per consentirgli le più spericolate operazioni finanziarie, il disegno di Trump appare sempre più delineato: imporre un nuovo ordine mondiale attraverso la forza finanziaria statunitense; questo progetto vale per gli alleati più tradizionali come per quegli stati ritenuti comunemente avversi a Washington. I recenti casi di minacce di dazi elevati a Brasile, per avere messo in stato di accusa l’ex presidente Bolsonaro, e gli analoghi ricatti al Canada, per avere manifestato la volontà di riconoscere la Palestina, rappresentano esempi abbastanza eloquenti dei fini di Trump, con evidente invasione della sovranità di altri stati. Del resto chi poteva produrre una opposizione forte, come l’Unione Europea, ha assunto fin da subito un atteggiamento troppo accondiscendente, che ha solo favorito la spavalderia del presidente americano. Tutto il contrario della Cina, che ha assunto un atteggiamento più duro verso le minacce americane, anche grazie ad uno stato storico di assenza di subalternità. Va anche detto, che la presidente Von Der Layen si è rivelata un attore poco incisivo e troppo prono alla prepotenza di Trump. La colpa dell’Europa è stata l’incapacità di attrarre nuovi membri forti e di trovare mercati alternativi, cercando di mantenere rendite di posizione nel mercato USA, che si sapeva che erano da tempo già compromesse. La percezione è quella della mancanza di un progetto coraggioso sia economico, che politico. Il primo passo da fare per l’Europa è quello di abbassare le tariffe interne ed uniformare le rispettive tassazioni, per presentarsi sulla scena internazionale come un blocco coeso; poi occorre allargare i mercati dove vendere le proprie merci e le destinazioni più probabili sono quelle a cui gli USA intendono applicare i dazi più alti, infine aumentare i mercati interno con politiche di aumento dei redditi. Se questa sono le condizioni di partenza economiche, ancora più importante è sviluppare un progetto politico capace di permettere all’Europa di valicare i propri confini geografici. Esiste un potenziale alleato naturale, che si identifica benissimo nei valori europei, al contrario di paesi che sono membri soltanto per puro interesse economico, e che è geograficamente collocato al di fuori dei confini europei, che permetterebbe uno spazio comune ineguagliabile. Si tratta del Canada, minacciato più volte da Trump di essere annesso come cinquantunesimo stato degli Stati Uniti. Progettare un ingresso del Canada nell’Unione Europea significherebbe rompere l’egemonia americana sulle due sponde degli Oceani e creare il mercato più ricco del mondo. Certamente sarebbe un atto di guerra nei confronti di Washington, ma che permetterebbe di aggiungere un peso diplomatico enorme ed una maggiore rilevanza internazionale a Bruxelles. Per affinità culturali e condivisione dei valori democratici sui quali si fonda l’Unione Europea, il Canada sarebbe il partner ideale con il quale allacciare una più profonda alleanza. Un blocco configurato in modo tale sarebbe un avversario ideale per ridurre Trump a più miti consigli ed anche per acquisire una autonomia maggiore nel campo della diplomazia e della difesa, restando nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, ma progressivamente più indipendente da Washington. Sicuramente questo sarebbe un processo lungo, che deve prevedere una maggiore indipendenza di giudizio, rispetto agli USA, da parte di alcuni degli stati più importanti dell’Unione, accompagnato da un processo condiviso di rinuncia a parti, anche consistenti di sovranità, ma una Europa capace di attirare e ricomprendere al proprio interno il paese canadese, sarebbe una Unione ancora più moderna ed attrattiva per gli investimenti ed il peso negoziale. L’idea di fare entrare il Canada nella zona di scambio più ricca del mondo, ne accrescerebbe il valore proprio a scapito degli Stati Uniti, accontentandoli nelle loro volontà isolazionista.
giovedì 24 luglio 2025
L'arma della fame usata da Israele
La carestia di Gaza si rivela sempre più quello che è: una variante delle armi di sterminio operate da Israele, con l’appoggio evidente degli USA, ai danni dei palestinesi di Gaza. Non è stato ritenuto sufficiente bombardare dal cielo e dalla terra la popolazione, distruggergli le abitazioni, sottoporli a carenze igieniche notevoli: l’arma della fame serve a completare l’obiettivo del genocidio, che ha come unico obiettivo rubare il territorio dei palestinesi, una variante ancora più violenta di quanto già accade nelle colonie. I palestinesi superstiti sono vittima di una tortura brutale: costretti dalla carenza alimentare sono costretti a recarsi in zone anche lontane, dove la Gaza Humanitarian Foundation, organizzazione statunitense, dovrebbe distribuire gli aiuti. I palestinesi in file obbligate, spesso con percorsi obbligati all’interno di vere e proprie gabbie, devono subire le fucilate dei soldati israeliani. Secondo alcuni degli stessi soldati, il tiro a segno sarebbe conseguenza di ordini diretti degli ufficiali israeliani, mentre altre versioni parlano di plotoni formati da soldati provenienti dalle colonie, o che comunque ne condividono le finalità, che arriverebbero a disobbedire alle direttive ufficiali per colpire i palestinesi. Queste formazioni militari, peraltro, sono ritenute responsabili di atti contro i civili come il recente fatto che ha riguardato il bombardamento della chiesa cattolica di Gaza. In ogni caso proprio per la frequenza di episodi, purtroppo sempre più ricorrente, contro la popolazione in cerca di cibo, si può ragionevolmente ipotizzare, che entrambi le possibilità siano veritiere e che ciò corrisponde ad una strategia del governo israeliano, nemmeno più troppo nascosta, di sfrattare la popolazione palestinese da Gaza per fare rientrare la striscia sotto il diretto controllo amministrativo di Tel Aviv, come già ipotizzato da Trump e da un recente filmato creato con l’intelligenza artificiale da una ministra in carica. A Gaza, quindi, i civili continuano a morire, uccisi sia dall’esercito di Israele, che dalla tattica di affamare le persone. Se sull’aspetto militare le reazioni continuano ad essere troppo tiepide, non si va aldilà di dichiarazioni scontate e senza alcun effetto, la questione della provocata carestia alimentare ha provocato una dura presa di posizione firmata da 109 organizzazioni non governative, che hanno formalmente richiesto l’invio di aiuti umanitari. Quella provocata da Israele è una vera e propria carestia di massa, che ha generato grave denutrizione in tutte le fasce di età, ma con ricadute particolarmente gravi su bambini e vecchi, spesso vittime mortali di questa orribile privazione. La richiesta è quella di aprire tutti i valichi di frontiera per permettere ai rifornimenti di cibo, acqua potabile e medicinali di raggiungere le persone, ma con modalità regolate dalle Nazioni Unite e non dai contractor americani. I rifornimenti sono già presenti al di fuori della Striscia di Gaza, ma Israele continua a bloccarli con le scuse più diverse. La colpa viene addossata ad Hamas, ma non si capisce come l’organizzazione terroristica, fortemente decimata, abbia ancora un potere così vasto e tale da potere influenzare una grande massa di rifornimenti, è chiaro che ci troviamo di fronte ad una scusa per perpetrare la carestia a danno dei civili. La denuncia delle organizzazioni non governative è successiva alla dichiarazione congiunta di 25 paesi, che hanno chiesto la fine della guerra e hanno condannato i metodi della distribuzione alimentare. A queste dichiarazioni, però, non seguono ritorsioni, come le sanzioni, in grado di colpire l’economia israeliana, come avviene per la Russia. Senza prese di posizioni con effetto pratico ogni dichiarazione non ha alcun effetto su Tel Aviv, che può continuare ad aumentare il numero del massacro fin qui portato avanti, che, secondo i numeri forniti dal Ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, ammonta a circa 60.000 morti; mentre per i vivi si calcola che l’87,8% degli abitanti di Gaza sia stata o è sottoposta ad ordini di sgombero sotto il controllo militare israeliano, una situazione che espone una occupazione militare a carico dei civili non giustificata, se non con la ragione di provocare sofferenze in maniera deliberata e con lo scopo di annettere il territorio palestinese della striscia allo stato ebraico.
martedì 18 febbraio 2025
Ora più che mai l'Europa deve essere autonoma
Aldilà degli inqualificabili comportamenti del nuovo Presidente degli USA e del suo vice, la sorpresa dell’Europa, per la nuova situazione, non può essere affatto giustificata. La sensazione si spaesamento e di urgenza, per essere esclusa dalle trattative tra Casa Bianca e Cremlino, proprio per il volere di Trump, per la questione ucraina è un colpo notevole all’autorevolezza di Bruxelles ed a poco sembrano valere le ragioni e le richieste di sedere al tavolo delle trattative, nonostante possa esistere la possibilità di alzare le spese per la difesa ed in misura minore l’invio di un contingente di pace formato da militari europei. L’Unione Europea aveva l’esperienza della prima presidenza di Trump, dove era già stata enunciata l’inutilità dell’Alleanza Atlantica e con essa la fine del sistema occidentale, come era da sempre conosciuto, ed del periodo successivo: i quattro anni della presidenza Biden, dove si poteva arrivare ad un punto avanzato, se non definitivo, di una forza militare comune europea, in grado di garantire la difesa autonome dell’Europa; al contrario si è preferito rinviare il problema, sperando nell’elezione di un esponente democratico, che potesse portare avanti la politica occidentale, come è stata fin dopo la seconda guerra mondiale. Una difesa dell’Europa fondamentalmente delegata alla presenza statunitense, capace di supplire alle mancanze europee. Ora non è più così e la politica di difesa militare è soltanto il problema più immediato, che è legato intimamente alla mancanza di una politica estera comune ed a intenti unitari anche in tema di economia, che rende l’Unione debole di fronte alle minacce dei dazi americani. Una serie di problemi capaci di accomunare l’intera Unione Europea alla Gran Bretagna, che si è risvegliata più lontana della tradizionale alleanza con Washington e ben più vicina ai timori di Bruxelles. L’Europa tenta di ripartire con la proposta della Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di non conteggiare nelle restrizioni di bilancio la quota di denaro destinata alle spese militari. Pur trattandosi di materia molto delicata, per le varie sensibilità delle nazioni componenti l’Unione, questa soluzione appare un punto di partenza, ancorché tardiva, per una politica di difesa potenziata, alla quale dovranno seguire politiche di integrazione efficaci delle singole forze armate verso un esercito comune, capace di difendere il territorio dell’Unione anche senza l’appoggio degli USA. Si tratta di un obiettivo ambizioso ma quanto mai necessario: Washington, fin dai tempi di Obama, ha diretto il proprio sguardo verso le sue esigenze di presidio dell’Oceano Pacifico, nell’ottica della competizione con la Cina ed ora Trump ha deciso di accelerare in questa direzione e ciò spiega il suo impegno nell’immediato coinvolgimento della Russia per la definizione della questione ucraina; tuttavia una trattativa dove una parte in guerra è esclusa è una trattativa che parte male e bene ha fatto l’Europa a rivendicare la presenza di Kiev al tavolo di qualunque negoziato ed anche della propria presenza, proprio come garanzia dell’Ucraina e di se stessa. Una Ucraina sconfitta precederebbe soltanto una possibile avanzata russa sicuramente verso i paesi baltici, la Polonia e la Romania, che è poi il vero progetto di Putin per ridare lo status di grande potenza alla Russia. Trump ha una visione contraria alle democrazie occidentali, ritenendo i loro valori superati, ma si tratta di una visione di brevissimo periodo nei confronti di quello che è ancora il mercato più ricco. Bruxelles deve sapersi muovere con questa consapevolezza, arrivando anche a ristabilire legami, che potrebbero andare oltre quelli commerciali, con altri soggetti molto importanti sullo scenario internazionale, certo la Cina, ma anche l’India ed il Brasile fino alle repubbliche centro asiatiche, spesso desiderose di allontanarsi proprio dalla Russia. Il primo passo, però, deve essere un coinvolgimento totale dei membri dell’Unione, senza effettuare riunioni ristrette che lascino fuori paesi direttamente coinvolti nelle situazioni contingenti, come i paesi baltici nella riunione convocata da Macron. Per fare ciò, oltre a quello già detto in precedenza, l’Unione si deve dotare di regolamenti più veloci capaci di superare l’assurdo criterio della totalità dei voti per l’approvazione di leggi e decisioni comunitarie e della capacità di espulsione dei paesi contrari alla direzione unitaria della politica europea, come l’Ungheria. L’adesione dell’Ucraina all’Unione è un fatto dovuto ed una assicurazione contro le politiche di Putin, ma deve essere sostenuta da una forza armata capace di sganciarsi dagli USA, una Alleanza Atlantica meno dipendente da Washington, anche nella capacità di produrre gli armamenti che potrebbe usare.
martedì 11 febbraio 2025
I dazi di Trump come minaccia politica ed economica
La politica protezionista di Trump, cardine del suo programma elettorale, sta prendendo forma, per ora soltanto con annunci e proclami. Dopo i dazi contro la Cina della scorsa settimana, la nuova minaccia, peraltro annunciata, è quella di imporre tariffe di 25% alle merci in entrata costituite da acciaio ed alluminio, senza alcuna eccezione o esenzione. Per l’Europa si tratta di vedere se i dazi già presenti, proprio del 25%, saranno soltanto confermati o arriveranno, addirittura, al 50%. Lo scopo dichiarato è quello di aumentare la ricchezza americana. Oltre all’Europa, gli obiettivi principali sono Canada e Messico: i dazi verso questi due paesi sono in palese violazione dell’accordo di libero scambio tra i tre stati. Questa violazione rappresenta un pessimo segnale della direzione della politica della nuova amministrazione statunitense, in relazione all’approccio con i trattati internazionali esistenti. Per il Canada i dazi peseranno molto su di un comparto che ricava dalla fornitura dell’acciaio verso gli USA ben 11,2 miliardi di dollari; tuttavia la previsione è che questa misura si ritorcerà contro i produttori USA, dall’industria automobilistica fino ai produttori di contenitori per bevande gassate. Al contrario la Casa Bianca, prevede un saldo favorevole alla bilancia commerciale, grazie ai maggiori benefici che i dazi porteranno alle industrie locali di acciaio ed alluminio, rispetto alle perdite di altri settori industriali. Nella visione di Washington l’industria pesante è ritenuta strategica per stimolare anche altri settori, fungendo da volano per l’economia statunitense. Trump ha dichiarato che i dazi riguarderanno una gamma piuttosto vasta di prodotti, un fattore tale da scatenare una guerra commerciale, con conseguenza imprevedibili a livello planetario. Nei confronti del Messico, però la misura tariffaria è stata sospesa di un mese, in cambio di maggiori controlli alla frontiera per impedire l’accesso ai migranti verso gli USA. Questa sospensione potrebbe significare che le misure dei dazi, potrebbero essere una minaccia per ottenere altro, per esempio per l’Europa una maggiore spesa militare ed un maggiore impegno e coinvolgimento in operazioni, tale da permettere una diversa dislocazione delle truppe USA sullo scacchiere mondiale. Anche per il Canada la minaccia è stata sospesa con l’impegno di trattenere il traffico dei migranti e l’esportazione della droga a base di fentanyl verso gli USA. L’impegno richiesta al Canada appare blando, forse perché Ottawa aveva elaborato una lista di prodotti da colpire con dazi doganali, provenienti soprattutto dagli stati repubblicani, che più hanno sostenuto Trump. In ogni caso colpire in maniera pesante il Messico, che ha sostituito la Cina, come principale fornite degli USA, con merci per 505,851 miliardi di dollari e con uno squilibrio commerciale, in favore di Città del Messico, di 171,189 miliardi di dollari, rappresenterà un problema intrinseco per l’industria manifatturiera americana, verosimilmente alle prese con gli aumenti dei costi delle forniture. Con Pechino la guerra commerciale è già partita ed entrambi i paesi si sono già applicati dazi rispettivamente. Ancora più interessante sarà l’evoluzione dei rapporti con l’Europa, pubblicamente richiamata del vicepresidente per i troppi vincoli commerciali presenti sul suo territorio, che non facilitano rapporti reciproci facili. Effettuare una politica commerciale troppo rigida sull’area più ricca del mondo può avere effetti pesantemente deleteri per l’industria statunitense, tanto più che a Bruxelles si stanno cercando concreti sbocchi alternativi per i propri prodotti, pensando a nuovi accordi commerciali con la Cina; se si andasse in questa direzione, dopo che la politica di Biden era riuscita ad invertire la tendenza, gli effetti dei dazi avrebbero la doppia conseguenza negativa di perdere quote di mercato dei prodotti americani in Europa e che queste quote potrebbero essere rimpiazzate da prodotti cinesi; e le dichiarazioni estemporanee del nuovo presidente americano, circa la creazione di una riviera a Gaza, ma senza palestinesi, ed di una Ucraina in futuro di nuovo russa, non aiutano il dialogo con gli europei, allergici a certi atteggiamenti, nonostante la crescente presenza di fiancheggiatori di Trump, anche al governo di alcuni paesi. Se la questione militare può essere una leva che Trump non esiterà ad usare, la Casa Bianca deve tenere conto che queste provocazioni potrebbero spingere Bruxelles a staccarsi in maniera lenta ma progressiva dall’alleato americano.
martedì 14 gennaio 2025
L'Alleanza Atlantica ha necessità di maggiori investimenti
Quello che il Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica, ha fatto, durante il suo discorso al Parlamento europeo, è sembrato un vero proprio appello alla collaborazione dei paesi dell’Unione. Quasi una richiesta di aiuto, che più esplicita non poteva essere. L’imminente avvento di Trump, rappresenta una aggravante decisiva di uno stato delle cose già difficile e complicato. La situazione attuale non è quella di una pace vera e propria, anche se non è neppure presente uno stato di guerra; tuttavia il conflitto ucraino è alle porte dell’Europa e la situazione dell’impegno economico dei membri UE è ancora lontano da quel due per cento del prodotto interno lordo, che ormai è ritenuto insufficiente per mantenere l’Alleanza Atlantica ad un livello adeguato per rispondere alle criticità potenziali presenti sulla scena internazionale. Se la richiesta di Trump, di portare al 5% del prodotto interno lordo di ogni singolo membro dell’Alleanza, appare come un dato arrotondato molto per eccesso, una valore ragionevole potrebbe essere quello del tre per cento, cioè un punto percentuale in più rispetto all’attuale, peraltro raggiunto soltanto da pochi membri. Se oggi la situazione è ritenuta più o meno sicura, dopo la presidenza Trump, potrebbe non essere più tale. Anche se la minaccia del presidente eletto è stata quella di abbandonare l’Alleanza Atlantica, questa evenienza, soprattutto per ragioni economiche, è ritenuta remota, ma più probabile è ritenuto possibile che gli USA possano attuare un disimpegno, in modo da concentrarsi sui temi del presidio dell’area pacifica, zona essenziale per combattere la Cina. L’Europa, pur in un quadro generale di presenza dell’Alleanza Atlantica, deve portare un maggiore contributo e rispondere agli accordi sottoscritti per portare al 2% del PIL la spesa militare; ma troppi stati sono ancora lontani da questo obiettivo. Oltre alla necessità di raggiungere la quota stabilita, occorre una maggiore razionalizzazione nel modo di spendere per gli acquisti militari, facendo acquisiti congiunti, in grado di garantire maggiori economie di scala e una integrazione sempre più efficiente tra le varie forze armate, in assenza di una componente militare sovranazionale, che appare sempre più necessaria, per avere un maggiore raggio di manovra e di autonomia, seppure sempre all’interno dell’Alleanza Atlantica. Parallelamente è necessario sviluppare quegli strumenti atti a contrastare la guerra ibrida necessari per contrastare l’azioni di soggetti quali Russia, ma anche Cina, che tendono a condizionare la vita politica e sociale degli stati europei. La disinformazione costituisce una debolezza dell’Europa, così come l’arma dell’immigrazione irregolare funziona come fattore di destabilizzazione interna ed esterna, arrivando a mettere in difficoltà le istituzioni europee nei loro centri di comando. Le vicende ucraine hanno interrotto una situazione di stallo, dove la ragione dell’esistenza delle forze armate, nei paesi europei, era cambiata verso un utilizzo di forze di pace e di interposizione in zone critiche, ma comunque lontane dal territorio europeo. Con l’invasione russa in Ucraina, i ministeri della difesa si sono resi conto dell’inadeguatezza dell’impostazione delle loro forze armate, che avevano superato i concetti di guerra sul campo, con la conseguenza del cambiamento anche dei rispettivi arsenali. I cicli dell’economia che si sono ripetuti negli ultimi periodi non sono stati mai positivi e contraddistinti da assi livelli di crescita, una situazione che ha favorito la contrazione delle spese militari, lasciando potenziali di difesa molto bassi. Se, da un lato si possono comprendere le remore a spendere nel settore militare, anche considerando le tesi dei pacifisti ad oltranza, resta un fatto che la minaccia russa rappresenta un dato concreto, con il quale è impossibile non tenere conto, anche per le pericolose alleanze di Mosca con la Corea del Nord e l’Iran e quindi con aree contigue al terrore internazionale. Quello che si deve affrontare non è soltanto una minaccia chiara, ma un universo opaco di nemici indistinti, contro i quali devono essere elaborate strategie efficaci. La proposta francese, di effettuare le spese militari verso aziende europee, ha una valenza diretta a privilegiare una maggiore coesione dei paesi europei, ma potrebbe incontrare le resistenze di Trump, quindi occorrerà trovare un equilibrio in grado di soddisfare le richieste politiche, ma anche le legittime aspirazioni europee, perché sul lungo periodo, anche per gli USA un’Europa militarmente più autonoma, sarà un vantaggio anche per Washington e non solo per Bruxelles.
mercoledì 28 agosto 2024
Il bombardamento russo svela la debolezza di Mosca
La ritorsione di Mosca, all’invasione ucraina all’invasione del territorio russo, si è concretizzata con attacchi aerei su ben quindici provincie di Kiev. Sono stati almeno 17 i bombardieri strategici russi impegnati nell’offensiva aerea, che ha avuto come obiettivo principale quello di colpire l’infrastruttura energetica ucraina. La stima dei missili russi utilizzati oltrepassa due centinaia, che hanno avuto come bersagli le città ed i territori circostanti di Leopoli, Dnipro, Cherkassy e Kiev. I nuovi danni provocati alle infrastrutture energetiche si devono sommare ad una situazione già difficile in questo settore, preso di mira come bersaglio strategico in vista della stagione invernale. Secondo alcuni analisti, l’incremento su larga scala dei bombardamenti, sarebbe una risposta all’invasione del territorio russo, ed in parte l’azione di Mosca può essere letta anche in questo modo, ma risulta indubbio che la strategia rientri nella volontà di colpire il sistema energetico ucraino, per rendere più difficile la situazione della popolazione; in ogni caso, come rilevato dal presidente ucraino, la necessità di eliminare le restrizioni alle armi occidentali risulta ormai improcrastinabile. Non si può organizzare una difesa adeguata senza colpire i depositi di approvvigionamento che l’armata russa utilizza sul proprio territorio, interrompere le linee di rifornimento appare come la migliore difesa preventiva. La richiesta ucraina, rivolta soprattutto a Francia, Regno Unito e Stati Uniti, appare giustificata dalla preponderanza della forza aerea russa, che, al momento, è l’unico fattore capace di fare la differenza. Fermare le incursioni di Mosca sui cieli ucraini e la protezione fornita dall’alto alle forze russe che occupano i territori ucraini, rappresenterebbe la soluzione capace di rovesciare le forze del conflitto ed arrivare ad eventuali trattative in maniera molto diversa per Kiev. Se si analizza quella che è stata definita la risposta russa all’invasione del suo territorio, la prima domanda legittima da farsi è come mai Mosca non abbia scelto di operare una azione equivalente nella provincia di Kursk contro le forze occupanti ucraine e riprendere il proprio territorio. Sul terreno l’avanzata di soldati ucraini più esperti, contro le truppe di leva russe, è stata abbastanza agevole ed a portato alla conquista di circa mille chilometri quadrati, con ventotto centri abitati, che ha costretto le autorità russe ha sfollare circa 121.000 civili. Una situazione che non si verificava dalla seconda guerra mondiale, tuttavia, la scelta del Cremlino è stata quella di mantenere le posizioni nel Donbass, senza spostare militari più qualificati per la riconquista del terreno perduto, ed anche la scelta di impiegare i bombardamenti direttamente in Ucraina solleva qualche dubbio. Gli interrogativi riguardano la capacità di mobilitazione delle truppe russe, intendendo militari scelti ed addestrati, che sembra essere arrivata alla fine delle proprie disponibilità, così come gli arsenali di missile ed ordigni per i bombardamenti, sui quali si è dovuto operare una scelta che ha tralasciato i territori occupati della provincia di Kursk. L’occasione per l’occidente, se si vuole avere qualche probabilità che si arrivi a delle trattative, sembra che debba essere sfruttata e ciò si può fare soltanto con un incremento delle forniture militari, soprattutto nel settore antiaereo, e nella fine della restrizione dell’uso delle armi occidentali contro il territorio di Mosca. Quello che deve passare, sia tra i governi, che tra i parlamenti occidentali, è l’idea che l’utilizzo delle armi occidentali usate solo sul territorio ucraino ne dimezza l’efficacia, diventando anche un inutile dispendio economico. Il concetto di guerra di difesa non implica l’utilizzo di armamenti soltanto sul territorio da difendere, ma anche sui territori da cui provengono gli attacchi, anche se questi sono sotto altra sovranità. Al momento le regole occidentali favoriscono Mosca, che, occorre, ricordarlo è quel soggetto che ha infranto ogni regola del diritto internazionale, e proprio per questo va fermata il prima possibile rendendola la più inoffensiva possibile. Le forze del Cremlino appaiono stanche e vulnerabili, come ha dimostrato la manovra ucraina nella provincia di Kursk e si basano principalmente sul predominio aereo; infrangendo questo predominio la Russia dovrà arretrare e sedersi al tavolo della trattativa non certo da un punto di forza. L’occidente ha il dovere di aiutare l’Ucraina perché quello è il migliore aiuto verso se stesso.
mercoledì 7 agosto 2024
La nomina del nuovo capo di Hamas preclude la pace
La decisione, probabilmente israeliana, di eliminare il capo politico e negoziatore di Hamas, Ismail Haniye, ha provocato la sua sostituzione con Yahya Sinuar, capo militare dell’organizzazione e considerato come colui che ideato l’attacco del 7 ottobre e, per questo, maggiore ricercato dalle forze di difesa di Israele. Questo avvicendamento forzato al vertice di Hamas rappresenta una risposta verso Israele, che appare una sorta di ritorsione contro Tel Aviv e che vuole significare un netto allontanamento dalle trattative di pace ed una virata verso un atteggiamento ancora più violento nella guerra di Gaza in particolare, e comunque contro ogni possibile intesa con gli israeliani. Si allontana anche la soluzione dei due stati, perché entrambi i capi delle due parti, Sinuar e Netanyahu, ora sono concordi proprio sulla contrarietà a questa soluzione. La scelta di Hamas, può essere compresa ma non condivisa, perché significherà una pressione ancora maggiore sulla popolazione civile di Gaza, con maggiori vittime e situazioni igienico sanitarie, se possibile, ancora peggiori di quelle attuali. L’impressione è che Hamas sia caduta nella trappola israeliana, il cui intento dell’eliminazione di Haniye era proprio quello di sostituirlo con Sinuar. La svolta, con la nomina del capo militare di Hamas incrementerà ancora di più l’attività repressiva di Israele, sia a Gaza, che in Cisgiordania, dando una sorta di giustificazione ad azioni preventive militari, che potrebbero permettere la conquista si altre zone; appare chiaro, infatti, come la strage del 7 ottobre, sia ormai un pretesto per cancellare la popolazione palestinese dai territori ancora abitati dall’etnia araba, che il governo israeliano, composto in maniera consistente dai nazionalisti religiosi, considera di propria pertinenza. Netanyahu, del resto, ha sempre condotto una tattica attendista, fin dal suo insediamento del primo governo, avvenuto nel 1996. Il premier israeliano ha più volte illuso la politica internazionale, circa la possibilità della creazione di uno stato palestinese; in realtà non ha mai previsto realmente una tale soluzione ed ora approfitta di una errata, dal punto di vista politico, e soprattutto scellerata azione da parte di Hamas, per mettere la parola fine al progetto dei due stati, malgrado sia la soluzione più caldeggiata dalla maggior parte dei paesi del mondo. Questo può succedere perché gli USA continuano ad appoggiare Tel Aviv, anche malgrado i massacri insensati di civili a Gaza e l’attività portata avanti sul territorio di altri stati in dispregio di ogni norma del diritto internazionale e l’Europa, aldilà delle dichiarazioni di facciata, non ha mai intrapreso una politica concreta di sanzioni, per fermare la violenza. I palestinesi non possono certo contare sull’appoggio, portato in maniera inutile di Iran, Hezbollah ed Houti, che, anzi, rischiano con il loro atteggiamento, di provocare vittime collaterali delle loro iniziative. Gli stati arabi sunniti mantengono un atteggiamento distaccato, a causa del loro interesse di nuove relazioni con Tel Aviv e non si spingono aldilà di mere dichiarazioni di prammatica. La vicenda della nomina del capo militare di Hamas a capo politico della stessa organizzazione, peraltro, non è il risultato di una consultazione elettorale, ma di una manovra autoreferenziale della quale i palestinesi sono vittime e che, per loro e forse per il mondo, non appare una scelta conveniente. Deve essere anche valutata la possibilità di una influenza, su questa decisione, da parte degli attori più avversi ad Israele e ritenuti da Hamas, ormai gli unici alleati affidabili: Iran ed Hezbollah; nel quadro di una ritorsione, orami ritenuta sempre più probabile per l’assassinio del capo politico di Hamas, avvenuta a Teheran, la nomina del capo militare a capo politico di Hamas, potrebbe significare un maggiore impegno per Israele a Gaza, coincidente proprio con l’avvio della ritorsione iraniana. Gli israeliani potrebbero essere impegnati in modo più consistente a Gaza, attaccati a Nord da Hezbollah e colpiti dagli iraniani e dall’azioni dei droni degli Houti. Il risultato sarebbe una pressione militare, forse mai vista, a cui Israele sarebbe sottoposto. Nel mentre i mezzi navali americani sono già schierati ed il pericolo di un allargamento del conflitto è sempre più probabile e la nomina di Hamas non fa che aumentare ancora di più questa possibilità.
mercoledì 31 luglio 2024
L'uccisione del leader si Hamas rischia di vanificare il processo di pace
All’eliminazione fisica del numero due di Hezbollah, avvenuta in Libano, è seguita quella del leader di Hamas, Hanieyh, a Teheran. La caratteristica comune è che questi omicidi siano avvenuti in territorio straniero, appartenente alla sovranità dei rispettivi stati; il rilievo è importante perché la responsabilità degli assassini, nel primo caso è stata rivendicata dagli israeliani, mentre nel secondo caso Tel Aviv per ora tace; tuttavia, diversi attori internazionali sono concordi nell’attribuirne la responsabilità alle forze armate di Israele. Rivendicare un attentato in terra iraniana significa ammettere una pericolosa violazione della sovranità di Teheran, che giustificherebbe una risposta del paese sciita. In realtà sul mandante, del razzo che ha colpito la casa della vittima, restano, oggettivamente pochi dubbi. Il razzo non proveniva dall’interno del paese iraniano, ma è giunto su di esso dall’estero, un indizio che non depone a favore di Tel Aviv. Se così fosse le conseguenze della strategia israeliana, rischierebbero concretamente di allargare paurosamente un conflitto, che ha già rischiato troppe volte di diventare letale per il mondo intero. Tel Aviv si pone davanti al mondo con una condotta sprezzante del diritto internazionale e senza alcuna volontà di ricercare una pace vera e non funzionale ai propri scopi di espansione, sia a Gaza, che in Cisgiordania. Un aspetto che gioca in maniera determinante nella condotta di Israele sono le inutili minacce dell’Europa, che non fa nulla per mettere fine ai massacri israeliani, ed all’appoggio sostanziale, seppure con critiche, degli Stati Uniti. Se la condanna e le conseguenti minacce, da parte iraniana appaiono come scontate (tra l’altro l’uccisione dell’esponente di Hamas è avvenuta in occasione dell’investitura del nuovo presidente dell’Iran), anche le reazioni di altre nazioni ed organizzazioni sono state particolarmente violente. La Turchia ha definito come ignobile l’assassinio, Erdogan aveva già condannato in maniera pesante Tel Aviv per l’uccisione del leader di Hezbollah ed in questo frangente ha rincarato la dose, l’atteggiamento del presidente turco è funzionale a riguadagnare consensi in vista delle elezioni presidenziali, ergendosi a difensore del popolo palestinese. La questione turca è particolarmente importante, perché Ankara fa parte dell’Alleanza Atlantica e la sua linea politica si discosta in maniera netta, soprattutto da quella di Washington. Naturalmente Hamas ha minacciato Israele, ma le attuali condizioni militari destano per Israele minori preoccupazioni rispetto ad attacchi kamikaze di membri isolati, così come rischia di aggravarsi pericolosamente la situazione in Cisgiordania, dove la agitazioni popolari partiranno con scioperi e manifestazioni contro il governo israeliano; più problematiche, dal punto di vista militare, le azioni di ritorsione promesse dagli Houti, che hanno già dimostrato di potere colpire Israele con i suoi droni. Anche l’Iraq ha condannato Israele, mentre gli USA hanno assicurato a Tel Aviv protezione in caso di attacco, parole che non contribuiscono a raffreddare la situazione. Teheran, da parte sua, ha affermato, che il fatto avvicinerà ulteriormente il paese sciita ai palestinesi, come sarà questo avvicinamento è questione centrale, perché se si concretizzerà con aiuti militari o interventi in appoggio ai belligeranti di Gaza, la tensione tra i due stati salirà a livelli probabilmente mai visti. In ogni caso è impensabile che Teheran non risponda con una azione almeno pari a quella israeliana, se ciò riuscirà si riaprirà la corsa alle ritorsioni, con ricadute evidenti sui colloqui e sul processo di pace per la situazione di Gaza. Nel contesto generale particolarmente efficace è la reazione del Qatar, impegnato in prima persona nei colloqui di pace, che ha sottolineato che in un negoziato dove una parte uccide un rappresentante dell’altra non ha alcuna possibilità di arrivare al successo; probabilmente è proprio quello che vuole Israele ed il suo governo composto da irresponsabili.
venerdì 26 luglio 2024
Il Partito Democratico USA punta tutto sulla candidatura della Harris
La necessità di recuperare il tempo, già irrimediabilmente, perduto durante la campagna elettorale, impone al Partito Democratico di accelerare i tempi per la candidatura di Kamala Harris e, nello stesso tempo, di rendere inefficace qualsiasi tentativo interno, che possa scalzarla dal ruolo di candidato alla presidenza degli Stati Uniti. In pratica, si tratta di elaborare e stabilire procedure che possano garantire il ruolo della Harris come candidata alla Casa Bianca, in maniera di garantirne l’efficacia in modo sicuro e, soprattutto il prima possibile; questo perché il fattore tempo è ormai diventato determinante. Il comitato che sovrintende alle regole all’interno del Partito Democratico ha stabilito una tempistica per arrivare alla nomina della Harris a candidato alle presidenziali. Insieme alla calendarizzazione sono state stabilite tre regole, che dovranno favorire il processo della candidatura ufficiale. La prima regola rende praticamente impossibile contestare la posizione della Harris, la seconda determina l’anticipazione della nomina, in modo che la Convention diventi una investitura ufficiale, celebrata insieme ad una cerimonia in cui Biden sarà omaggiato da tutto il partito per il lavoro fatto, la terza dovrà consegnare libertà assoluta alla Harris circa la nomina del proprio candidato alla vicepresidenza. Per blindare la candidatura della Harris, sono stati anticipati i tempi per presentare la candidatura alla presidenza di tre giorni, cioè dal 30 al 27 luglio, in modo che alle 18, orario della capitale statunitense, ogni sfidante dovrà avere la propria candidatura formalizzata, a questo deve aggiungersi l’anticipo al 30 luglio per avere la firma di 300 delegati, con adesioni massime per ogni singolo stato di 50 delegati, necessari per la ratifica per proporre la propria candidatura. Dopo queste fasi sarà necessario il voto dei delegati sulla candidatura, che con la sola Harris come candidata sarà previsto per il primo agosto, viceversa in presenza di più candidati, il voto avverrà il 7 Agosto. Un tempo veramente ristretto che rende praticamente impossibile effettuare una campagna elettorale a qualsiasi candidato alternativo alla Harris. Queste modalità di candidatura dimostrano come il Partito Democratico intenda mostrarsi al corpo elettorale come unito e determinato a sostenere la Vicepresidente, ormai individuata come simbolo concreto della forza politica democratica ed alternativa a Trump. Anche la famiglia Obama, che non sembrava convinta di questa ipotesi, ha dimostrato il proprio sostegno alla Harris, arrivando così a suggellare la nomination per la candidatura. Questo risultato sembra più una necessità di cui fare virtù, dettata dai tempi stringenti, che una scelta ponderata e maturata in maniera consapevole dentro tempi giusti ed adeguati. Una impressione è che la Harris, nel caso di vittoria, potrebbe diventare presidente in maniera casuale, grazie ad una serie di circostanze particolarmente favorevoli e fortunate. Esistono dubbi consistenti, che un processo della candidatura fatto nei tempi adeguati e, soprattutto, con un dibattito interno al partito capace di rappresentare i diversi punti di vista, potesse determinare la candidatura della Harris, che non godeva di una popolarità adeguata a questo compito, anche per la scarsa rilevanza di come ha interpretato il ruolo di vicepresidente. In ogni caso per il Partito Democratico, proprio la posizione di vicepresidente in carica ha determinato la successione a Biden, almeno come candidata alla presidenza; questa scelta, che appare forzata, ora deve essere sostenuta in ogni caso, soprattutto come valore simbolico di alternativa alla minacciata autocrazia di Trump. Anche la Harris è meglio del candidato repubblicano, speriamo se ne convincano anche gli elettori.
giovedì 25 luglio 2024
Biden si dimette ma ne esce come un gigante politico
Il discorso di Biden, circa la decisione di non candidarsi è stato contrassegnato dalla rinuncia come atto di generosità e di salvaguardia della democrazia statunitense, in sostanza un sacrificio personale per non lasciare il paese nelle mani di Trump. Biden ha rivendicato, giustamente, i risultati, soprattutto economici della sua presidenza, promettendo di non lasciare anticipatamente la carica più importante degli USA, come più volte hanno richiesto i suoi rivali politici. In realtà le giustificazioni per il suo ritiro, pur comprendendo la giusta difesa della democrazia americana, devono, per forza di cose, vertere sullo scarso apprezzamento da parte della dirigenza dei democratici, sul basso valore dei sondaggi, su di uno stato di salute, che non sembra permettere l’adeguata conduzione di un eventuale nuovo mandato e sulla fuga degli investitori. La verità è che Biden, senza impedimenti fisici, è che avrebbe meritato una ricandidatura proprio per i risultati del suo mandato, soprattutto ottenuti nel campo interno, sempre più difficile da gestire rispetto alla politica estera; il presidente uscente, invece, è apparso più debole in politica estera, con la contestata decisione di abbandonare l’Afghanistan, non avere ottenuto sostanziali progressi sul fianco del Pacifico, non avere contrastato in maniera sufficiente la Cina dal punto di vista commerciale e non avere ottenuto una soluzione della questione ucraina ed avere mantenuto un atteggiamento insicuro nei confronti di Israele. Questi temi, sfavorevoli a Biden, hanno ottenuto per Trump, ragioni per colpire il suo ex avversario, oscurandone i meriti dei risultati ottenuti con la crescita economica e la riduzione della disoccupazione. I repubblicani si sono concentrati contro l’età anagrafica di Biden a cui si sono aggiunte le evidenti difficoltà dopo il confronto elettorale, ma occorre specificare, che, se umanamente era legittimo per Biden avere la ricandidatura, nel partito è mancato un serio esame della situazione del candidato e sulla reale capacità di sostenere lo sforzo della campagna elettorale. I segnali, abbastanza evidenti, erano presenti già da tempo ed è mancata una azione, anche coraggiosa, di mettere in discussione l’opportunità di ripresentare agli elettori il presidente uscente. Ciò anche considerando il fatto di come Trump avrebbe condotto la campagna elettorale, con toni particolarmente violenti e mistificatori. Certo non è facile non rinnovare la candidatura ad un presidente uscente, tuttavia, la pessima gestione della situazione del partito ha generato profonda incertezza in un elettorato comunque incalzato da una azione repubblicana che è stata un crescendo di consensi. Il partito democratico è risultato diviso in clan ed è stato caratterizzato da una immobilità, che se protratta, avrebbe garantito a Trump un vero e proprio plebiscito. Soltanto il timore di una deriva autoritaria, causata dallo strapotere del candidato repubblicano ha smosso i dirigenti del partito, verso una soluzione alternativa. Pur non essendo stata una decisione tempestiva e, soprattutto, irrituale, la scelta della sostituzione del candidato appare l’unica via per contrastare Trump in maniera efficace, tuttavia, non si doveva giungere a questo punto ed agire molto prima per evitare a Biden l’umiliazione del ritiro; insomma se il partito repubblicano ha perso ogni sua caratteristica originale, diventando ostaggio di Trump, anche il partito democratico non sta tanto meglio. Si comprende come la situazione politica americana sia ad una sorta di punto morto, perché in ostaggio di persone incompetenti e vogliose soltanto di assicurarsi più potere possibile per se stessi, ingannando un elettorato sempre più individualista e disinteressato. In questo quadro il passo indietro di Biden deve essere molto apprezzato, il presidente uscente ne esce come una sorta di gigante politico, capace di sacrificare le proprie ambizioni per potere evitare la consegna del paese ad una nuova presidenza Trump. Ora il partito democratico deve sapere darsi una organizzazione capace di portare alla vittoria che sarà il suo candidato o candidata. L’atto di Biden deve fornire l’abbrivio per una ricostruzione della macchina elettorale capace di superare le divisioni interne per provare a vincere e ad evitare agli USA ed al mondo la ripetizione della sciagura di una nuova presidenza Trump.
giovedì 4 aprile 2024
La strategia di Israele: raid in Siria, fame a Gaza.
L’avere colpito la sede consolare iraniana in Siria e l’organizzazione che portava cibo nella striscia di Gaza, sono due episodi, che presentano analogie da non sottovalutare nella strategia israeliana di medio periodo. Nella guerra, così detta per procura, tra Tel Aviv e Teheran, avere colpito una sede iraniana in territorio straniero rappresenta un nuovo livello per Israele; uno degli obiettivi principali può essere cercare un allargamento del conflitto che implichi un maggiore coinvolgimento degli USA a favore degli israeliani, soprattutto dopo che il presidente Biden ha preso le distanze dai metodi praticati a Gaza; sebbene Washington ha affermato di non essere stata avvertita dell’attacco israeliano, il governo di Tel Aviv sembra avere usato questo attacco per indurre gli iraniani a condannare sia Israele, che gli USA, in modo da obbligare gli americani ad un appoggio obbligato contro il regime iraniano. Questa tattica presenta la chiara intenzione di temporeggiare in attesa degli esiti elettorali statunitensi, dove una eventuale affermazione di Trump è vista come maggiormente favorevole alla causa israeliana, tuttavia il rischio di un allargamento del conflitto, è implicito nell’azione di Tel Aviv e questo comporta ulteriori problemi commerciali ancora maggiori nel Golfo Persico, di cui Israele dovrà, prima o poi, rendere conto. Non solo, è ipotizzabile un coinvolgimento di altri attori, sia in maniera indiretta, che diretta, in un allargamento della crisi mediorientale, bisogna ricordare che il maggiore alleato della Siria, oltre all’Iran, è la Russia, anche se nella situazione attuale non pare possibile un coinvolgimento diretto di Mosca, appare possibile un legame sempre più stretto tra Teheran e Russia, con collaborazioni sempre maggiori, soprattutto nel settore degli armamenti, con effetti diretti su altri conflitti in corso. Una degli sviluppi più prevedibili è l’incremento delle azioni delle milizie vicine agli iraniani, sia contro Israele, che contro le basi americane presenti in Medioriente. Il raddoppio del fronte, oltre a quello di Gaza, anche quello siriano, sul quale Israele si dovrà misurare è funzionale al governo in carica ed al suo Primo ministro, che non vuole elezioni, che perderebbe sicuramente e darebbero il via a procedimenti giudiziari in cui è implicato. Quello che si sacrifica, non solo agli interessi israeliani, ma a specifici interessi politici di parte è la pace nella regione mediorientale ed anche mondiale, andando a creare i presupposti per una instabilità totale. Se per tenere in apprensione gli USA non si è esitato ad andare contro il diritto internazionale, colpendo in un paese terzo, seppure alleato degli iraniani, sul fronte di Gaza l’errore di avere colpito una Organizzazione non governativa, appare altrettanto funzionale agli interessi di Tel Aviv: infatti altre due organizzazioni hanno annunciato che lasceranno la Striscia di Gaza, per la situazione troppo pericolosa per il loro personale; ciò significa la sottrazione di ingenti forniture di cibo ad una popolazione già duramente provata dalla scarsità dei generi alimentari ed in precarie condizioni igienico sanitarie. La situazione, che viene aggravata dall’assenza delle organizzazioni non governative, colpisce, oltre alla popolazione civile, anche Hamas, che, oltre alla sempre maggiore distanza dagli abitanti di Gaza, non può usufruire degli aiuti internazionali; tuttavia questo elemento è solo un’aggiunta alla normale condotta di Israele, che ha intrapreso da tempo, già ben prima dei fatti del sette ottobre, una politica di gestione delle risorse alimentari da destinare alla Striscia di Gaza, con evidenti intenti regolatori al ribasso. Nel 2012, a seguito di una organizzazione per i diritti umani, Tel Aviv è stata costretta a pubblicare un proprio documento del 2008, dove venivano previste le calorie a persone da concedere agli abitanti della Striscia, alimenti che escludevano quelli ritenuti non essenziali. Malgrado le scuse obbligate delle forze armate israeliane, le modalità con cui sono stati colpiti gli automezzi dell’organizzazione non governativa, lasciano non pochi dubbi sulla volontarietà di bloccare una missione, con le ripercussioni ovvie, che si sono puntualmente verificate. Serve a poco dire che il clamore suscitato è dovuto a vittime occidentali, per modalità analoghe, che hanno provocato più di 30.000 morti civili, non ci sono neanche state le scuse. I paesi civili dovrebbero sanzionare Israele per questa condotta impunita.
mercoledì 7 febbraio 2024
I guai giudiziari di Trump durante le primarie
Il giudizio della Corte d’appello di Washington non considera valida l’immunità per Trump, per avere cercato di cambiare il risultato elettorale, dopo l’esito che ha portato Biden ad essere il nuovo presidente USA. La sentenza della corte, composta da tre giudici, è arrivata all’unanimità, confutando la difesa di Trump, che puntava alla totale immunità dalla legge, anche per gli atti compiuti nei casi il suo potere sia estinto. Questa difesa, ha confutato la corte, presuppone che la carica di presidente statunitense sia equiparato ad un sovrano assoluto, non soggetto, cioè, ad alcuna legge terrena; inoltre la tesi difensiva mette in dubbio il naturale riconoscimento del responso elettorale e della stessa separazione dei poteri, perché porrebbe la carica presidenziale al di sopra delle normative. Un aspetto da sottolineare è che uno dei tre giudici ha una provenienza conservatrice ed è stato nominato dello stesso Trump. Un aspetto fondamentale della sentenza è che il presidente USA può essere accusato per crimini commessi durante il suo periodo in carica: si tratta di una risoluzione molto rilevante al punto di vista giuridico, perché è la prima volta che viene adottata nell’ordinamento statunitense e che stabilisce che l’immunità appartiene alla carica presidenziale e non alla persona, per cui, una volta decaduti, non si gode più di immunità. Esistono due opzioni, per la difesa di Trump per ricorrere contro la sentenza della Corte di appello di Washington: la prima consisterebbe nella presentazione del ricorso presso tutti i giudici del Circuito di Washington, tecnicamente definito “appeal en banc”, tuttavia questa soluzione appare improbabile, perché secondo i giuristi sarebbe poco probabile un cambiamento della sentenza, oppure, ed è la seconda opzione, il ricorso può avvenire presso la Corte suprema, composta da sei membri repubblicani e tre democratici. Questa scelta avrebbe anche una valenza politica tattica, dato che la Corte suprema, per questa sessione, che finirà a luglio, non dovrebbe più accettare casi, lasciando in sospeso la questione, soluzione preferita proprio da Trump; tuttavia potrebbe essere anche probabile, che, data la gravità della questione, il presidente della Corte inserisca il probabile ricorso nell’attuale sessione. In ogni caso, sia la sentenza, che il ricorso, generano dubbi sul futuro legale di Trump, che resta il candidato più probabile per il Partito repubblicano alle elezioni del cinque novembre prossimo, anche perché presso la Corte suprema esistono già due ricorsi dell’ex presidente relativi alle decisioni degli stati del Maine e del Colorado, che hanno vietato la candidatura di Trump, sempre per i fatti seguiti alla sua sconfitta elettorale del 2020. Una possibilità ravvisata da alcuni giuristi è il possibile respingimento delle decisioni di Maine e Colorado, da parte della Corte suprema, ma la conferma della sentenza della Corte d’appello di Washington, che contiene argomenti giuridicamente rilevanti contro Trump e che potrebbe portarlo a giudizio, proprio perché il suo atteggiamento ha interferito nel processo di conteggio e verifica dei voti, una materia completamente al di fuori delle competenza presidenziali: ciò rappresenterebbe un attacco alla struttura dello stato; un capo di imputazione difficilmente confutabile. Nel mentre, però, la campagna presidenziale di Trump procede in maniera trionfale e l’unica candidata ancora presente, Nikky Halley, Ha pochissime possibilità di riportare il partito repubblicano nel suo tradizionale percorso politico e quindi di contendere in maniera seria la candidatura presidenziale a Trump. La questione giuridica si pone in un contesto di profonda divisione e radicalizzazione tra i due elettorati, dove i partiti contendenti si sono ulteriormente distanziati su tutte le materie, sia di politica interna, che economica, che internazionale. In più il precedente dell’insurrezione del Campidoglio identifica i sostenitori di Trump, certo non tutti, come capaci di gesti violenti in aperto contrasto con le leggi federali. D’altro canto rinviare la decisione sulle decisioni degli stati del Maine e del Colorado e sulla sentenza della Corte d’appello di Washington, potrebbe porre seri dubbi sulla reale imparzialità della Corte suprema, generando un corto circuito istituzionale capace di paralizzare il paese, in un momento dove la situazione internazionale impone decisioni veloci. Se il risultato con Trump come candidato è in bilico, forse con un altro candidato repubblicano potrebbe nascere una situazione che imporrebbe un rinnovamento anche tra i democratici, ma il tempo sta scadendo, mettendo a rischio tutto l’equilibrio occidentale.
giovedì 25 gennaio 2024
Se cade l'Ucraina, la Russia potrebbe avanzare verso i paesi dell'Alleanza Atlantica
Il mancato successo della contro avanzata di Kiev ha provocato i giustificati allarmi per un attacco di Mosca verso i paesi europei ed appartenenti all’Alleanza Atlantica; secondo i tedeschi un successo in Ucraina potrebbe portare i russi a decidere una avanzata verso un paese vicino della Russia: i maggiori indiziati sono i paesi baltici, ma anche in Polonia la tensione è in aumento. Queste analisi non rappresentano una novità: il ministero della Difesa tedesco, ha da tempo elaborato una previsione di un possibile attacco al fianco orientale dell’Alleanza Atlantica, che potrebbe avvenire entro il 2025. La condizione necessaria perché questa previsione possa avverarsi è la vittoria russa in Ucraina, nel febbraio 2024 è prevista una forte mobilitazione, capace di portare al fronte 200.000 soldati, per poi lanciare una offensiva primaverile decisiva per le sorti del conflitto a favore di Mosca. Se questo scenario dovesse avverarsi, Putin potrebbe decidere di avanzare verso obiettivi contigui, anche se restano alcuni dubbi sulle reali capacità di reintegrare rapidamente gli arsenali russi. Anche la possibilità di una avanzata soltanto parziale avvantaggerebbe il Cremlino, perché potrebbe convincere Kiev alla decisione di concedere qualcosa alla Russia per evitare la perdita completa dei territori contesi, mentre l’Unione Europea potrebbe ammorbidire il proprio atteggiamento per evitare l’arrivo di un gran numero di rifugiati, in grado di destabilizzare i fragili equilibri interni. L’utilizzo di forme di guerra ibrida come attacchi informatici, verso Bruxelles e la ricerca di pretesti con i paesi baltici, completerebbero l’azione russa; in particolare Mosca, potrebbe ripetere la tattica operata prima della guerra in Ucraina, quando furono sobillate le popolazione russe nelle zone di confine, cosa che potrebbe di nuovo accadere con i russi residenti in Estonia, Lettonia, Lituania ed anche Finlandia e Polonia; ciò rappresenterebbe la scusa per effettuare manovre congiunte, sui confini di questi stati, coinvolgendo anche l’esercito bielorusso. Questi pericoli sono ben presenti nella visione dell’Alleanza Atlantica, un ulteriore fattore di preoccupazione, rispetto all’Ucraina, è che, in un potenziale attacco russo, vi è una variabile geografica importante costituita dalla regione di Kaliningrad, territorio russo compreso tra Polonia e Lituania, senza continuità territoriale con la madrepatria. Per Mosca, dal punto di vista strategico la conquista del così detto corridoio di Suwalki, che collega direttamente i paesi baltici agli alleati della NATO, sarebbe prioritario. Schierare truppe e missili a corto e medio raggio nella regione di Kaliningrad permetterebbe al Cremlino di lanciare un’offensiva, che in grado di vittoria unirebbe la regione isolata all’alleato bielorusso. La coincidenza delle elezioni presidenziali americane è ritenuta un altro fattore a favore di Putin: la Russia, potrebbe attaccare nel momento elettorale o di passaggio dei poteri, compromettendo i tempi di reazione della maggiore forza militare dell’Alleanza Atlantica; anche una possibile elezione di Trump viene vista come una facilitazione per i russi, che potrebbe portare ad un disimpegno americano perfino all’interno della NATO, senza che l’Unione Europea sia ancora in grado di sostenere l’attacco di Mosca. Su questo tema il ritardo di Bruxelles è sconfortante, la mancanza di un esercito comune, unito alla mancanza di una azione comune in politica estera, lascia la UE disorganizzata di fronte alle emergenze mondiali e, in più, la continua divisione tra gli stati membri crea una mancanza di coesione fortemente deleteria ad un progetto di difesa comune non dipendente dalla presenza USA. Parlando di numeri la previsione è di uno schieramento di circa 70.000 militari russi sul territorio bielorusso, al confine con gli stati baltici entro il marzo 2025, a questo contingente l’Alleanza Atlantica ha già previsto una risposta sostanziosa di circa 300.000 uomini a protezione del corridoio lituano, per difendere l’integrità degli paesi baltici, ma si tratta di numeri ingenti, che potrebbero riaprire la strada alla coercizione obbligatoria del servizio militare, che molti stati prevedono di ripristinare, proprio per controbilanciare i numeri russi. Il fenomeno della guerra incentrato sui modelli della prima e seconda guerra mondiale, che sembrava superato dallo schieramento degli armamenti super tecnologici, sembra possa ritornare prepotentemente sovvertendo ogni previsione. Per evitare questo scenario è importante sostenere l’Ucraina in tutto e per tutto per contenere le ambizioni di Putin ed impedire la terza guerra mondiale.
mercoledì 24 gennaio 2024
Iraq terreno di scontro tra USA ed Iran
L’Iraq, nonostante la sottovalutazione della stampa, è destinato a diventare un fronte molto importante del conflitto mediorientale e, specificatamente, del confronto tra USA ed Iran. La situazione, che le autorità irakene hanno definito di violazione della propria sovranità, ha visto reciproci attacchi tra Washington e Teheran, condotti proprio sul suolo dell’Iraq. L’Iran non sopporta la presenza militare americana ai suoi confini, sul suolo irakeno il regime degli Ajatollah è presente con milizie filo-iraniane, finanziate da Teheran, la cui presenza è ritenuta strategicamente importante, nel quadro delle azioni contro l’occidente ed Israele. Tra i compiti di queste milizie ci sono atti di disturbo contro le forze americane e quelle della coalizione contro i jihadisti, presenti sul suolo irakeno. Recentemente queste operazioni militari, in realtà già in corso da ottobre, hanno colpito basi americane con droni e razzi, provocando feriti nel personale statunitense e danneggiamenti delle infrastrutture delle basi. Pur senza la firma iraniana gli attacchi sono stati facilmente ricondotti a Teheran e ciò ha aggravato una situazione di contrasto capace di degenerare in maniera pericolosa. Gli USA hanno risposto, colpendo le Brigate Hezbollah, presenti sul territorio irakeno in una regione al confine con la Siria, provocando due vittime tra i miliziani; tuttavia altre vittime si sarebbero registrate in milizie scite, che sono entrate a fare parte dell’esercito regolare irakeno. Queste ritorsioni americane hanno suscitato le proteste del governo di Bagdad, che è stato eletto grazie ai voti degli sciiti irakeni e che teme la reazione dei propri sostenitori. L’accusa di violazione della sovranità nazionale, se appare giustificata contro le azioni di Washington, dovrebbe valere anche contro Teheran, in quanto mandante degli attentati contro le installazioni americane e, allargando il discorso, anche contro i turchi, che hanno condotto più volte azioni contro i curdi, cosa, peraltro imitata dagli iraniani. La realtà è che la situazione attuale in Iraq, ma anche in Siria ed in Libano, da parte degli israeliani, vede una continua violazione delle norme del diritto internazionale in una di serie di guerre non dichiarate ufficialmente, che sfuggono alla prassi prevista dalla legislazione internazionale. Questa situazione presente il rischio maggiore di una estensione del conflitto mediorientale, capace di provocare la deflagrazione di una guerra dichiarata, come fattore successivo a questi episodi, purtroppo sempre più frequenti, di conflitti a bassa intensità. Lasciare l’Iraq fuori da un conflitto appare determinante per evitare un conflitto mondiale, la posizione geografica del paese, tra le due maggiorie contrapposte potenze islamiche, porterebbe ad un confronto diretto, che avrebbe come prima conseguenza il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e la possibilità, per Teheran, di avvicinare le sue basi missilistiche ad Israele. Uno dei maggiori protagonisti, per evitare questa pericolosa deriva è il primo ministro iracheno Mohamed Chia al-Soudani, che pur godendo dell’appoggio dell’elettorato sciita, ha bisogno di preservare i legami tra Bagdad e Washington. In realtà questi legami, nelle intenzioni del premier irakeno dovrebbero essere soltanto di natura diplomatica, giacché circa la presenza della coalizione militare internazionale, il capo dell’esecutivo ne ha più volte sottolineato il ritiro per favorire le condizioni di stabilità e sicurezza dell’Iraq. La questione è però di difficile soluzione: con la presenza di milizie finanziate ed addestrate nel paese, l’Iraq rischia di perdere la propria indipendenza, garantita proprio dalla presenza delle forze occidentali; se il paese irakeno cadesse nelle mani di Teheran sarebbe un grosso problema di natura geopolitica per Washington, che deve per forza mantenere il proprio presidio sul suolo irakeno, fatto rafforzato dalla questione di Gaza, che ha provocato le azioni degli Houti e l’autoproclamazione da parte di Teheran di difensore dei palestinesi, nonostante la differenza religiosa. Bagdad è diventata così una vittima indiretta della situazione che si è creata a Gaza, dopo avere attraversato tutta la fase della presenza dello Stato islamico, peraltro ancora presente in determinate zone. Per disinnescare questo rischio occorrerebbe uno sforzo diplomatico della parte più responsabile di quelle in causa: gli USA; tale sforzo diplomatico dovrebbe essere diretto, non tanto verso l’Iran, ma verso Israele per fermare la carneficina di Gaza, favorire gli aiuti alla popolazione, anche con l’utilizzo di caschi blu dell’ONU ed accelerare, anche in maniera unilaterale la soluzione dei due stati, l’unica capace di fermare l’escalation internazionale ed eliminare ogni scusa per creare i presupposti dell’instabilità regionale.
martedì 23 gennaio 2024
Trump sempre più favorito, anche senza il consenso dei repubblicani moderati
Quello, che era l’antagonista più accreditato di Trump, il repubblicano Ron DeSantis, governatore dello stato della Florida, si è ufficialmente ritirato dalla corsa alla nomination per partecipare all’elezione presidenziale USA. Dopo la consultazione repubblicana nello Iowa, dove ha riscosso scarsi consensi, i sondaggi per il voto in New Hampshire gli accreditavano soltanto una percentuale del 5,2 e ciò ha determinato il suo ritiro; DeSantis ha comunicato che il suo sostegno andrà, quindi, a Trump. DeSantis, che alcuni vedevano in grado di contrastare Trump nella corsa alla nomina a sfidante di Biden, proviene da posizioni politiche simili a Trump e si identifica con il nuovo corso che sta dominando nel Partito Repubblicano, influenzato dalle idee del Tea party e, per questo, assicura il suo appoggio all’ex presidente, in aperto contrasto con la candidatura di Nikky Halley, da lui ritenuta troppo moderata e rappresentante della vecchia impostazione dei Repubblicani. DeSantis si era guadagnato un certo credito, grazie alla sua elezione come governatore della Florida, proprio contro i candidati indicati da Trump, tuttavia la sconfitta, distanziato di circa 30 punti percentuali nello Iowa, ha dimostrato che gli elettori repubblicani lo hanno percepito come una copia di Trump, proprio per posizioni molto simili su temi come immigrazione ed aborto. La perdita di consensi, dopo che i sondaggi lo distanziavano di soli 10 punti da Trump, è iniziata proprio con la difesa dell’ex presidente dalle accuse penali, facendo, quindi, perdere i consensi degli elettori più moderati. Sebbene formalmente DeSantis avesse già rinunciato alle primarie del New Hampshire, per concentrarsi su quelle della Carolina del Sud, la distanza di circa 55 punti percentuali registrata nei sondaggi ha provocato la decisione del ritiro, anche per occuparsi a tempo pieno della sua carica di governatore della Florida. DeSantis è il terzo candidato a ritirarsi dalla contesa repubblicana, determinando così un confronto a due tra Trump, sempre più favorito e Nikky Halley, già governatrice della Carolina del Sud ed ambasciatrice USA alle Nazioni Unite. La strategia elettorale di Nikky Halley è quella di riscuotere i voti dei repubblicani più moderati, che non si riconoscono nella maniera istrionica di governare di Trump e sono contrari alle sue posizioni oltranziste contrassegnate dallo scarso rispetto per le leggi federali. Il caos creato dalle vicende giudiziarie di Trump non incontra il favore degli elettori repubblicani più tradizionalisti, che preferirebbero un personaggio più misurato e più affidabile, tuttavia la platea conquistata da Trump appare più ampia perché trasversale all’elettorato repubblicano classico, capace di riscuotere consensi nei ceti più diversi ed anche dagli elettori più poveri. Nonostante queste analisi Nikky Halley prova a presentarsi come una sorta di cambio generazionale, forte della sua età, 51 anni e di una sostanziosa esperienza politica. Una affermazione netta di Trump nel New Hampshire potrebbe togliere, però, ogni velleità alla sfidante, riducendone notevolmente le possibilità di raggiungere la nomination. Questa vicenda dimostra come quello che era, una volta, il ceto politico dominante del partito repubblicano non abbia ancora recuperato le proprie posizioni ed, anzi, assista quasi in maniera passiva alla trasformazione del partito, iniziata con il Tea party, fino ad arrivare ad una formazione politica personalistica dello stesso Trump e, sostanzialmente, in suo ostaggio. Se questa analisi sociopolitica è valida Nikky Halley ha poche possibilità di vincere, proprio perché troppo vicino alle istanze di una parte del partito che appare come minoritaria. Per gli USA e per il mondo, questa non è una buona notizia perché rileva il proseguimento della tendenza di radicalizzazione del partito repubblicano, nonostante la sconfitta di Trump alle ultime elezioni ed i suoi guai giudiziari. Dopo quattro anni, la mancanza di un ricambio politico e generazionale, esclusa la figura della Halley, dimostra come il partito sia in ostaggio di Trump e ciò provochi preoccupazione a livello internazionale. Dal punto di vista del Partito Democratico, forse una candidatura di Trump può convenire, perché porterà alla mobilitazione l’elettorato non abituato ad andare alle urne, che voterebbe qualsiasi candidato per evitare il bis di Trump alla Casa Bianca; in questa ottica un successo, anche se difficile, della Halley potrebbe favorirla alla corsa per la carica di presidente, proprio perché elemento più moderato. Entrambi soluzioni, Biden o Halley, sarebbero certamente gradite alla maggior parte del panorama internazionale, che teme con Trump, un sovvertimento degli equilibri occidentali.
venerdì 19 gennaio 2024
La pericolosa strategia di Netanyahu
L’affermazione del premier israeliano Netanyahu, che si è detto contrario alla formazione di uno stato palestinese, dopo la fine della guerra, espressa in modo così esplicito, chiarisce ulteriormente la strategia del governo israeliano sulla reale intenzione dell’espansione sui territori rimasti ai palestinesi. Evidentemente le rassicurazioni sulla permanenza a Gaza dei suoi abitanti, anche se decimati, sono solo state solo formali; il rischio concreto è che, poi, queste intenzioni riguardino anche la Cisgiordania. Netanyahu continua da affermare che la guerra sarà ancora molto lunga, ma si tratta di una tattica evidentemente attendista, che aspetta l’esito delle prossime consultazioni americane: infatti una vittoria di Trump, favorirebbe l’esecutivo al potere a Tel Aviv ed allontanerebbe i guai giudiziari del premier israeliano. La prospettiva, però, include uno stato di guerra permanente, con il rischio di allargarsi in maniera più grave su più fronti e coinvolgere più attori, come già avviene, ma in maniera più massiccia. Questo atteggiamento ha suscitato profonde critiche dagli USA, secondo Biden la situazione israeliana può essere normalizzata soltanto con la creazione di uno stato palestinese, argomento sostenuto anche dagli stati arabi, con l’Arabia Saudita che ha posto questa condizione per il riconoscimento dello stato di Israele; ma anche soltanto la proposta di un cessate il fuoco è stata respinta dall’esecutivo di Tel Aviv, con la motivazione che rappresenterebbe una dimostrazione di debolezza nei confronti dei terroristi. All’interno del rifiuto della creazione di uno stato palestinese, vi è anche il rifiuto di conferire il controllo di Gaza all’Autorità nazionale palestinese. Con queste premesse sono, però, lecite alcune domande. La prima è che le elezioni presidenziali negli USA si terranno il prossimo novembre: fino ad allora con Biden in carica la distanza fra Tel Aviv e Washington rischia di accentuarsi sempre di più ed il rischi per Netanyahu è quello di vedere l’appoggio americano ridursi, una eventualità mai accaduta nella storia dei rapporti tra i due paesi, che potrebbe indebolire la leadership nel paese ed anche la capacità militare; certamente Biden deve calcolare bene fino a che punto può spingersi, per non prendere decisioni con ricadute sul suo consenso elettorale, ma la prospettiva di un indebolimento di Israel sul piano internazionale appare molto concreta. La guerra di Gaza ha provocato un allargamento del conflitto concreto, che ha saputo coinvolgere altri attori, tanto che la situazione di conflitto regionale è ormai un fatto acclarato. Il quesito riguarda la responsabilità di Israele per la reazione ai fatti del 7 ottobre, nei riguardi della sfera internazionale. La situazione che si è venuta a creare con gli attacchi degli Houti nel Mar Rosso, che ha provocato gravi danni economici al commercio internazionale, l’intervento palese dell’Iran, con reciproche minacce con Israele e la questione degli Hezbollah, che hanno provocato il coinvolgimento del Libano e della Siria, ha delineato in modo netto una situazione che era, grave, ma ancora a livello contenuto. Il peggioramento ha portato e porterà al coinvolgimento anche di attori non ancora direttamente presenti sullo scenario medio orientale, con un incremento della presenza degli armamenti e delle azioni militari, tale da rendere fortemente instabile la situazione. Un incidente oltre che possibile è altamente probabile e ciò potrebbe scatenare un conflitto, non più per interposta persona, ma con il coinvolgimento diretto, ad esempio di Israele contro l’Iran; questa eventualità appare più vicina di sempre e le esplicite minacce non aiutano a favorire una soluzione diplomatica. La questione centrale è se l’occidente ed anche il mondo intero può permettersi che esista una nazione con una persona del tipo di Netanyahu al potere, certamente Israele è sovrano al suo interno, ma non ha saputo dirimere la situazione giudiziaria di un uomo che resta al potere con tattiche spregiudicate, che usano indifferentemente l’estrema destra ultranazionalista, le tattiche attendiste, le false promesse e la condotta violenta, più vicina all’associazione terroristica che vuole combattere, piuttosto che ha quella di uno stato democratico. L’opinione pubblica israeliana sembra succube di questo personaggio e le poche voci di dissenso non bastano a fermare questa deriva. Pur essendo legittimo combattere Hamas i modi non sono quelli giusti, oltre ventimila vittime sono un bilancio troppo elevato, che nasconde l’intenzione di una annessione di Gaza, come nuova terra per i coloni; questo scenario avrebbe effetti catastrofici, che soltanto la pressione internazionale, anche con l’uso di sanzioni, e l’attività diplomatica può evitare. Anche perché una volta presa Gaza il passaggio alla Cisgiordania sarebbe soltanto una conseguenza, come una conseguenza logica sarebbe la guerra totale.