Politica Internazionale

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giovedì 30 agosto 2012

Le relazioni del Presidente egiziano e del Segretario dell'ONU al vertice dei non allineati

Due interventi molto rilevanti al vertice dei paesi non allineati: quello del presidente egiziano Morsi e quello del Segretario dell'ONU Ban Ki-moon. Morsi, il primo presidente egiziano eletto democraticamente, proprio in virtù di una rivolta popolare come quella che sta accedendo in Siria, ha condannato Damasco, in quanto regime oppressivo e non democratico, provocando l'uscita dalla sala della delegazione siriana. Quello di Morsi è un atto dovuto verso una rivoluzione popolare, che lui stesso ha definito come prosecuzione della primavera araba, partita dalla Tunisia, approdata in Egitto, Libia e Yemen. Data la sua provenienza era scontato che il pensiero di Morsi si attestasse su queste convinzioni, meno scontato è stato proclamarlo in casa degli iraniani, principali alleati di Assad. La mossa di Morsi, che arriva quindi all'improvviso, tenuto anche conto che i due paesi, Egitto ed Iran, hanno riallacciato i rapporti diplomatici, proprio nell'occasione del vertice dei non allineati dopo una lunga interruzione, pone il capo di stato egiziano in una luce del tutto nuova, che lo fa assurgere a statista di primo piano ed affermando, conseguentemente che l'importanza della nazione egiziana, sopratutto nell'ambito regionale, è tutt'altro che diminuita e sopratutto non è appiattita su posizioni accondiscendenti. Malgrado la provenienza da un partito confessionale, Morsi ha posto al centro della sua azione di politica internazionale, il riconoscimento del valore democratico come punto centrale di riferimento per i rapporti con gli altri stati. Anzi, il discorso contro l'oppressione siriana, mette in evidenza come questo valore sia discriminante per ottenere un suo giudizio positivo. La convinzione non è frutto di un calcolo politico, vuole dire semmai come l'Egitto intenda cavalcare un ruolo da protagonista senza essere subalterno ad alcuno. Certamente sarà un paese che gli Stati Uniti controlleranno meno che con Mubarak al comando, tuttavia il discorso di fronte alla platea dei non allineati può rappresentare una attenuazione delle paure da parte di chi temeva, dal risultato delle urne egiziane, un assetto particolarmente condizionato dalla religione. D'altra parte Morsi, pur non negando mai la sua provenienza, ha sempre affermato che può esistere un islam moderato capace di percorrere una propria via democratica nel rispetto dei valori civili, dai quali comunque è partita la rivoluzione che ha rovesciato il vecchio regime. Questa affermazione, vista con sospetto da diversi osservatori, pare, invece diventare sempre più reale, il problema è che non esistevano termini di paragone validi cui accostare la nuova esperienza egiziana. Per importanza storica, vastità del territorio e numero della popolazione, l'Egitto rappresenta un caso molto probante di questo indirizzo che pare avviato a percorrere. Un primo riconoscimento all'importanza del paese egiziano è l'inserimento nel comitato quadripartito, assieme ad Arabia Saudita, Iran e Turchia, che dovrà cercare una soluzione alla crisi siriana. Sarà interessante vedere gli sviluppi dei rapporti tra le delegazioni saudita ed iraniana, divise da rivalità profonde. Ma e il discorso di Morsi ha rappresentato una tappa importante per l'evoluzione della politica estera nella regione, non da meno è stato l'intervento del segretario delle nazioni Unite. Ban Ki-moon non ha esitato a riprendere i padroni di casa, gli iraniani, per la questione nucleare, che rischia di fare deflagrare un conflitto con esiti difficilmente prevedibili. La mancata cooperazione di Teheran con gli ispettori dell'AIEA, ha minato la fiducia internazionale verso gli scopi realmente percorsi dagli iraniani, fiducia che Teheran deve assolutamente riconquistare per evitare minacce alla pace mondiale. Ban Ki-moon non ha tralasciato la questione della rivalità con Israele, più volte provocato verbalmente da Ahmadinejad, affermando che è intollerabile negare il diritto all'esistenza della nazione israeliana, insieme alla negazione di un fatto storico acclarato, come l'Olocausto. Se gli iraniani speravano di girare a proprio vantaggio l'organizzazione di un vertice così importante, devono rivedere le proprie convinzioni, dato che hanno ottenuto di essere ripresi pubblicamente sul loro territorio, su argomenti che erano il proprio cavallo di battaglia. Se Teheran sperava di essere meno isolata grazie alla presenza di capi di stato e delegati dei paesi non allineati, dopo gli interventi di Morsi e Ban Ki-moon ne esce, al contrario, tutt'altro che rinforzata e più sola sul palcoscenico internazionale. Resta da vedere se questi fatti determinino un cambiamento di rotta da parte del governo iraniano.

mercoledì 29 agosto 2012

Assad definisce il conflitto siriano come guerra internazionale

La recente intervista, che il Presidente siriano Assad ha rilasciato alla televisione Al Dunia, conferma che le intenzioni di Damasco non sono affatto quelle di cercare la pace. Del resto la situazione è ormai talmente compromessa, che una soluzione condivisa tra i contendenti appare impossibile, troppi morti e troppe stragi costituiscono un ostacolo insormontabile. Assad definisce la guerra in corso nel suo paese come un conflitto sia regionale che internazionale. Ciò è vero soltanto in parte, giacchè l'affermazione trascura i motivi di politica interna che hanno mosso la ribellione: uno stato fortemente autoritario, senza libertà democratiche, governato da una dinastia che ha sempre risolto i dissidi soffocandoli con il sangue. Tuttavia su queste ragioni si sono innestate motivazioni di ordine internazionale che sarebbe miope non vedere. La posizione strategica del paese, infatti, sta essenzialmente dietro il forte interesse, sia delle potenze occidentali, sia della Russia, che dell'Iran. Il controllo del paese permette un vantaggio strategico essenziale in ottica Israele, potendo esercitare pressioni sul principale alleato americano, condizionando così l'intera politica regionale. Ma anche dal punto di vista religioso, risulta determinante per il continuo confronto tra sciti e sunniti, con questi ultimi impegnati a limitare la crescente voglia di potenza del principale paese scita: l'Iran. Per quest'ultimo, poi, le ragioni sono duplici: sia di politica estera e militare, per mantenere l'unico alleato vicino di una certa importanza, sia religiose perchè permette di mantenere l'avamposto contro l'Arabia Saudita principale nemico religioso. Infine la Russia ha l'unica base navale propria nel Mediterraneo, struttura che difficilmente un nuovo governo potrebbe concedere di mantenere, sia per la storica alleanza con Assad, sia per l'ostruzionismo praticato nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Assad, quindi ha parzialmente ragione, ma dice comunque una affermazione veritiera: il territorio siriano interessa ad altre potenze, che pur non avendo intenzione di esercitare un potere diretto nel paese, vedrebbero di buon occhio un cambio al vertice che comprendesse anche un cambio di indirizzo in politica estera o, al contrario, accentuassero quello attuale. Nell'immediato il presidente siriano individua tre paesi stranieri che sosterrebbero direttamente i ribelli: Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Tutti e tre sono però alleati degli Stati Uniti è quindi facile comprendere a chi sia diretta l'accusa proveniente da Damasco, nonostante che Washington abbia, fino ad ora, tenuto un atteggiamento di basso profilo, pur condannando costantemente il regime di Damasco. Assad è convinto della vittoria finale, per la quale però, è necessario maggiore tempo. Questa ammissione manifesta l'incertezza del regime di fronte all'esito finale, sebbene la situazione attuale sia di sostanziale stallo, anche un piccolo intervento esterno a favore dei ribelli potrebbe fare volgere a loro vantaggio il destino della guerra, proprio per questo è essenziale per Assad ristabilire al più presto l'ordine costituito per eliminare la resistenza ed eliminare materialmente i possibili destinatari degli aiuti. Senza una forza autoctona impegnata sul terreno, ogni determinazione diverrebbe inutile. Per fare ciò Assad ha un solo modo: intensificare le violenze e le azioni militari con mezzi convenzionali e no; ma un eventuale uso di armi chimiche farebbe scattare in automatico la rappresaglia occidentale, come più volte minacciato. Restano le armi convenzionali, di cui l'esercito ha una grande disponibilità e la cui intensificazione dell'uso potrebbe essere limitata solo da incursioni aeree. Si ritorna così daccapo: o l'ONU riesce a trovare una risoluzione che passi il Consiglio di sicurezza o si adotta una soluzione analoga la caso libico, praticata cioè soltanto da alcuni paesi, non vi sono altre soluzioni, dato che la via diplomatica è fallita più volte.

martedì 28 agosto 2012

Francia: la politica estera di Hollande

L'incontro avvenuto durante la conferenza degli ambasciatori, è stata per il Presidente francese, François Hollande, l'occasione di fare il punto della situazione sulla politica estera francese. Accusato da più parti, ma sopratutto da destra, di praticare una politica estera caratterizzata da un atteggiamento poco deciso ed immobile, che risulterebbe deleterio per il ruolo francese sulla scena internazionale sempre più dominato dai paesi emergenti, Hollande ha opposto la propria tattica, che pur parendo attendista è ,invece, imperniata sul dialogo e sull'azione politica come preminente sull'azione militare, che aveva contraddistinto l'ultimo periodo del mandato del predecessore Sarkozy, come soluzione vincente. Questo non vuole dire scartare a priori un potenziale intervento armato in un contesto di necessità, per Hollande l'eventualità è praticabile soltanto se inquadrata in una iniziativa sotto l'egida dell'ONU. In realtà la Francia, al pari dei propri alleati occidentali, sta già operando dietro le linee del conflitto siriano con azioni di intelligence e sostegno, ufficialmente non armato, alle forze contrarie ad Assad, ma si tratta di operazioni limitate che niente hanno a che vedere con quanto accaduto in Libia. La convinzione francese sulla Siria è che il rapporto della nazione con Assad sia ormai irrecuperabile e l'unica soluzione sia un governo di transizione che traghetti il paese verso elezioni democratiche, ma per arrivare a questa soluzione occorre convincere Cina e Russia che mantengono posizioni di estrema rigidità sulla questione. E' proprio questa situazione dove si potrà vedere l'efficacia e la capacità di convinzione dei diplomatici francesi, su cui tanto punta il presidente Hollande. L'impresa, in effetti è quasi disperata, l'immobilità di Mosca e Pechino appare difficilmente sormontabile, ed in queste condizioni sperare in una decisione dell'ONU, che possa aprire ad un intervento in Siria, è fortemente improbabile. Proprio a causa di questa consapevolezza Hollande potrebbe convincersi, come più volte sollecitato da diversi paesi, primo fra tutti la Germania, di una riforma radicale dell'ONU, che permetta di superare il problema del veto del Consiglio di sicurezza, aspetto fortemente negativo causa del blocco di quasi tutte le decisioni rilevanti, che potrebbero essere prese dalle Nazioni Unite. Una delle sfide internazionali più importanti e senz'altro più vitali per la Francia, individuata del presidente francese, è costituita dal problema europeo. La necessità di preservare la moneta unica va di pari passo con il rafforzamento delle istituzioni europee, che deve essere alimentato con continui vertici tra i governanti della UE, per favorire lo scambio di idee e soluzioni ed aprire a forme istituzionalizzate comuni che sappiano elaborare una politica europea valida per tutti i paesi membri. Hollande ha evidenziato anche, come sia necessario, nel quadro attuale fortemente instabile, arrivare ad un accordo mondiale sulla non proliferazione nucleare, indispensabile per preservare la pace mondiale, pensieri ovvii nel momento storico in corso, dove la possibilità di una guerra tra Iran ed Israele è ormai una minaccia costante. Nella recente campagna elettorale la politica estera è stato uno dei temi più trascurati dal candidato socialista, poi diventato presidente, per avere privilegiato i problemi interni legati all'economia ed alla sicurezza. Questa mancanza è stata fonte di critica, quasi scontata, in un paese dove si respira ancora l'aria della "grandeur" ed anche le prime azioni di politica estera del nuovo presidente, non hanno elevato il paese a quel ruolo di protagonista, che parte dell'opinione pubblica, ma maggiormente schierata con Sarkozy, si attendeva. Certo l'approccio è completamente differente, ma non meno pratico. Il rifiuto di operazioni militari condotte in maniera singola o con un numero ristretto di stati partecipanti, poteva generare sospetti di neocolonialismo, che Hollande rifiuta completamente, la sua concezione di agire nell'ambito del diritto internazionale e sopratutto sotto la tutela dell'ONU, rispecchia una visione della politica estera, maggiormente integrata con altri soggetti, come la tendenza globalizzatrice impone. Del resto pur proclamandosi una grande potenza la Francia non è più tale proprio per i nuovi soggetti che hanno preso il ruolo di protagonista sulla scena internazionale in forza di una maggiore ricchezza economica. L'attuale ruolo francese, seppure ridimensionato, resta di grande importanza anche se inquadrato ad un livello forse inferiore, che si potrebbe definire come potenza medio grande. Questa dimensione comporta certamente una minore autonomia e la necessità di coordinarsi con altre potenze analoghe o inferiori, sempre del campo occidentale, ma impone di seguire con ancora maggiore facilità gli steccati del diritto internazionale e del rispetto di regole comuni. Sarkozy non seguiva questa linea, perchè puntava sul successo internazionale come mezzo per l'affermazione nazionale, anche se doveva pagare un costo molto alto sia dal punto di vista economico, che delle relazioni internazionali. Hollande, sia per formazione personale, che per provenienza politica, ha saputo sfruttare la minore propensione ai successi internazionali da parte dell'opinione pubblica in favore di una maggiore concentrazione sugli aspetti interni e, quindi, la soluzione di limitare l'azione diplomatica con il motivo di seguire il diritto internazionale rappresenta, oltre che un buon motivo, anche una vera e propria strategia per sganciarsi con eleganza da operazioni non gradite e, forse, non condivise.

lunedì 27 agosto 2012

Gaza verso una povertà ancora maggiore

Un rapporto dell'ONU, avverte che la situazione, già difficile, della striscia di Gaza è destinata a diventare esplosiva, per quanto riguarda le condizioni economiche ed igieniche, nel prossimo futuro, andando ad innescare sia una bomba umanitaria, che rafforzare i duri motivi di contrasto con lo stato israeliano. La stima si basa sulle previsioni della crescita della popolazione, destinata ad aumentare di mezzo milione di abitanti entro il 2020, senza che vi sarà una crescita economica altrettanto consistente ed in grado di assicurare condizioni di vita adeguate. Quello che preoccupa maggiormente è la scarsità di infrastrutture che non consentono un accesso diffuso ai servizi elettrici, all'acqua potabile ed all'istruzione. Sono presupposti che non possono fare scattare segnali di allarme, perchè relegano una popolazione già sacrificata verso scarsità di igiene ed ignoranza, condannandola ad una continua regressione che nega una qualsiasi possibilità di miglioramento. La necessità di aumentare le scuole, i posti letto negli ospedali e lo stesso personale medico, potrebbe diventare una causa scatenante di ribellioni ed atti di terrorismo, andando ad incrementare l'avversione per Israele, individuato come il primo responsabile di questo degrado, sia dalla popolazione, che dai paesi arabi, nei quali sono in atto sovvertimenti dei regimi politici che garantivano a Tel Aviv una relativa sicurezza alle sue frontiere. Nonostante, infatti, l'esercito egiziano sia responsabile della chiusura di un gran numero di tunnel che attraversano la frontiera e che permettevano ai palestinesi di Gaza, di recarsi al lavoro in Egitto, impiegati sopratutto nel settore edile, il sentimento popolare maggioritario in Egitto è sempre più contrario ad Israele, che vede come uno stato oppressore di un popolo che sta di diritto tra gli arabi. La mancata soluzione che la costituzione dello stato palestinese, poteva rappresentare, per permettere una effettiva distensione verso Israele è destinata a pesare in modo preponderante nello sviluppo dei nuovi governi dei paesi usciti dalla primavera araba. Il biglietto da visita di una parte di palestinesi tenuta in situazione di emergenza continua a causa dei blocchi imposti dall'esercito israeliano, sarà per Tel Aviv un argomento centrale con cui dovrà confrontarsi se vorrà avere rapporti diplomatici con diversi paesi arabi. Senza una soluzione positiva della questione, l'isolamento di Israele si farà sempre più marcato e, con esso, la crescente avversione delle popolazione arabe, che non potrà non influenzare l'operato dei propri governi. Ma gli stessi palestinesi devono superare i loro contrasti interni, per procedere di pari passo verso la costruzione dello stato palestinese, che rappresenta l'unica alternativa allo stato di miseria di gran parte della popolazione. Senza che Hamas e l'OLP riescano a trovare una intesa comune e sopratutto duratura, la profonda divisione in atto favorisce soltanto Israele, che ha tutto l'interesse a tenere divise le due anime politiche della Palestina, viceversa un visione univoca dei due movimenti, focalizzata sulla costruzione dello stato, come esigenza fondamentale del popolo palestinese, da cui fare discendere tutte le altre questioni, non può che obbligare Tel Aviv a riconsiderare le proprie posizioni, anche perchè le questioni contingenti dello stato israeliano potrebbero costringerlo alla ricerca, su questo fronte, di una soluzione rapida, come caldeggiato da più parti, tra cui, nonostante gli atteggiamenti ondivaghi, gli Stati Uniti, per permettere la concentrazione esclusiva sulla questione iraniana.

venerdì 24 agosto 2012

AIEA - Iran: incontro con poche prospettive

Malgrado la scadenza dell'incontro tra i rappresentanti dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica e l'Iran sia arrivata, dando così luogo ai colloqui bilaterali, che dovrebbero portare ad un accordo per maggiore livello di accesso ai siti di arricchimento dell'uranio presenti nel paese, le aspettative per una soluzione positiva sono molto ridotte. Già nel mese di Maggio doveva essere firmato un protocollo d'intesa tra le parti, tentativo fallito per la mancata intesa tra le parti. Le intenzioni dell'agenzia sarebbero quelle di raggiungere un accordo che consentisse uno sviluppo della questione il più vasto possibile, per risolvere tutte le questioni in sospeso e dare finalmente una soluzione definitiva della trattativa, ma proprio queste ambizioni così estese inducono molte riserve sulla riuscita dei colloqui, tra gli stessi ispettori dell'AIEA. I rappresentanti iraniani, viceversa, ostentano sempre ottimismo, dichiarando di aspettarsi nuovi progressi dall'incontro. L'atteggiamento iraniano non si discosta da quello tenuto nei precedenti incontri: molta disponibilità a parole, ben poca nei fatti. Mentre la tattica ostruzionista continua, permettendo di guadagnare tempo, probabilmente la ricerca iraniana va avanti, come paventato dall'occidente e sopratutto da Israele, che teme fortemente che Teheran raggiunga il così detto punto di non ritorno, oltre il quale, la conoscenza acquisita dagli iraniani sarebbe tale da permettere la costruzione dell'ordigno atomico e renderebbe inutile l'attacco armato preventivo programmato da Tel Aviv. L'AIEA arriva all'incontro con Teheran alla vigilia della pubblicazione del rapporto trimestrale sull'Iran e ciò potrebbe rappresentare un ulteriore elemento a sostegno delle tesi israeliane se il paese iraniano continuasse a vietare l'accesso ai siti sospetti. Se poi venisse inserito nel rapporto, come richiesto da diversi diplomatici occidentali, che il paese iraniano ha installato nuove centrifughe, che permettono l'arricchimento dell'uranio, per Obama sarebbe ancora più difficile riuscire a contenere la volontà di Israele di procedere con le armi. La responsabilità, che grava sul rapporto che stilerà l'AIEA, è quindi molto pesante, sopratutto se sarà evidenziato che l'Iran continua a progredire nelle sue attività nucleari nonostante le sanzioni internazionali a cui è soggetto. In sostanza significherebbe che la tattica di Obama, nonostante i buoni propositi di partenza, non avrebbe portato risultati e sarebbe stata sostanzialmente un fallimento. Ciò sarebbe quasi una certificazione, seppure non certo volontaria, per dare il via alle bellicose intenzioni di Israele. Forse non tutti si rendono conto che ci stiamo avvicinando ad un punto di non ritorno di una situazione già in bilico da tempo e che altre situazioni contingenti non fanno che aggravare. Sia la crisi siriana, che le imminenti elezioni americane potrebbero, infatti provocare la decisione singola ed autonoma da parte di Israele di dare il via all'attacco aereo tanto temuto, in quel caso, malaugurato, gli USA non potrebbero lasciare solo il loro maggiore alleato, scatenando una guerra i cui costi, sia umani, che economici, diretti ed indiretti, sono praticamente impossibili da preventivare. Resta incomprensibile l'atteggiamento iraniano, che pur continuando a proclamare di stare effettuando una ricerca per scopi pacifici, non collabora, lasciando vietati gli accessi ai siti incriminati. Se la bravura politica di Ahmadinejad è sempre stata quella di sapere arrivare un attimo prima del punto di rottura, sopratutto in situazioni delicate, peraltro da lui stesso provocate, questa volta un rapporto dell'AIEA scritto con toni negativi potrebbe rendere vane le attitudini del presidente iraniano e causare al paese, e non solo ad esso, conseguenze non immaginabili.






Il Pakistan vuole espellere i rifugiati afghani

In Pakistan la presenza dei rifugiati afghani ammonta a circa 1.700.000 persone registrate ufficialmente, più un milione di clandestini, secondo le stime delle organizzazioni internazionali. La condizione di queste persone, sfuggite al conflitto presente nella propria nazione, che sta continuando oltre il previsto, è al limite; essi sono ospitati, per lo più, in case di fortuna, confinate in zone senza le più elementari infrastrutture. Eppure nel paese pachistano sta montando un crescente malessere verso questi immigrati, con sfumature sempre più accentuate di xenofobia. Se è vero che alcuni fanno parte di gruppi terroristici o si occupano del traffico di droga, attraverso le montagne al confine tra i due stati, la maggioranza è composta da una massa di disperati, che accettano di vivere in una condizione di miseria molto dura per sfuggire alle violenze del proprio paese. Lo stesso governo di Islamabad ha già minacciato diverse volte l'espulsione dei cittadini afghani rifugiati sul proprio territorio, adducendo a misure di sicurezza per i propri cittadini. In realtà la minaccia rappresenta uno strumento di pressione politica su Kabul, che sta andando verso una alleanza sempre più salda con l'India, il nemico principale del Pachistan. Si tratta dell'evoluzione della lotta commerciale nella regione, in corso tra Cina ed India, con Pechino, che ha stipulato accordi molto stretti con il Pachistan e Nuova Delhi che ha bilanciato la presenza cinese attraverso accordi con l'Afghanistan. Nei programmi pachistani, in realtà, vi erano tutte le intenzioni per portare Kabul sotto la propria sfera di influenza o, almeno, evitare che uno dei partner principali fosse l'India per non correre il rischio di avere il principale avversario anche su di un altro lato della frontiera. Tra l'altro gli accordi tra India e Pachistan prevedono sia forniture militari, che addestramento alle forze regolari di Kabul, con la conseguente presenza di militari indiani praticamente al confine con il Pachistan.
Occorre anche ricordare che i rapporti tra Afghanistan e Pachistan, sono già deteriorati da parecchio tempo, a causa delle accuse del governo di Karzai a quello di Islamabad, di ospitare, tollerandole, sui propri territori, basi talebane, da cui partirebbero gli attacchi verso le forze regolari e gli alleati della NATO. Peraltro questa accusa è sostanzialmente veritiera per essere stata verificata dalle truppe americane ed è stata sostenuta anche dal governo Obama in più di una occasione, tanto da non ritenere più il Pachistan un alleato affidabile, come più volte riscontrato nelle azioni militari USA, dove l'esempio più eclatante è stata l'uccisione di Bin Laden, avvenuta, senza prendere accordi ne essere stata preceduta da un avvertimento formale, sul territorio di Islamabad. Per contro il Pachistan accusa l'Afghanistan di ospitare sul proprio territorio talebani pachistani che andrebbero a compiere attacchi contro la madrepatria, proprio partendo dalle base afghane. Risulta difficile credere che questa eventualità possa essere possibile con la presenza costante di truppe americane, in costante pattugliamento sul territorio di Kabul. Malgrado le minacce di espulsione, gli osservatori internazionali, ritengono poco verosimile, che l'eventualità sia messa in atto dal Pachistan, principalmente per limiti tecnici oggettivi, si tratterebbe, infatti, sommando la cifra degli immigrati regolari con quelli clandestini, di espellere circa 7.400 persone al giorno per un anno. Peraltro l'Afghanistan non possiede la capacità di assorbire un tale numero di persone, che rappresenta, comunque, il 10% del totale della sua popolazione. In ogni caso se non si dovesse arrivare ad un accordo, anche attraverso l'ONU o le sue agenzie, si rischia di sfiorare la tragedia umanitaria, perchè questa massa di persone rappresenta comunque uno strumento di pressione sul quale può abbattersi qualunque decisione capace di aggravarne le già precarie condizioni.

giovedì 23 agosto 2012

In Libano rischio di allargamento del conflitto siriano

Come si è più volte temuto, ma anche preventivato, il conflitto siriano passa il confine con il Libano a causa di tre giorni consecutivi di combattimento nella città libanese di Tripoli, tra fazioni favorevoli ad Assad e gruppi contrari al regime di Damasco, che hanno visto circa 12 morti ed oltre 75 feriti. Si tratta di una precisa strategia di Assad, che cerca di riportare il paese vicino nella guerra civile che l'ha martoriato per più di 15 anni. Il governo di Damasco spera in una ripresa delle ostilità in grande stile tra gli sciti alawiti, cui appartiene la famiglia di Assad, ed i sunniti, da sempre contrari alle ingerenze siriane nella politica interna libanese. L'interesse di Damasco affinchè ciò avvenga contempla diverse motivazioni, tra cui impedire ai miliziani sunniti di aggiungersi ulteriormente alle forze ribelli siriane, colpire le basi presenti in Libano da cui partono gli attacchi delle forze di opposizione siriane, spostare l'attenzione dalla guerra civile in corso in Siria, in special modo, da parte delle potenze occidentali già ufficiosamente impegnate nei teatri di combattimento ed infine mettere in apprensione, e forse anche coinvolgere, Israele. Su quest'ultimo punto la strategia di Assad potrebbe contemplare che un possibile coinvolgimento di Tel Aviv sarebbe fortemente temuto dagli USA, per le ovvie implicazioni di un'entrata in guerra dell'esercito della stella di David, tanto da causare un impegno diretto degli americani per un cessate il fuoco immediato, che, per lo meno nel breve periodo, non potrebbe che favorire Damasco, guadagnando tempo prezioso per una riorganizzazione sia politica che militare dell'apparato statale, ora gravemente compromesso. Assad sta procedendo nel suo obiettivo di esportare la guerra in Libano con episodi mirati associati ad una campagna sistematica di attentati, in grado di seminare il caos in Libano, che sta già producendo la fuga dei cittadini stranieri, sollecitati dalle proprie nazioni di appartenenza a lasciare il paese, con il primo risultato di mettere in crisi il fondamentale settore turistico, punto di forza dell'economia libanese. Ma ancora peggiore è lo stato d'animo della società libanese sprofondata nella paura di una nuova guerra civile. Proprio per evitare ciò sia il governo, che l'esercito libanese, hanno chiesto a tutte le fazioni di deporre le armi e non cadere nel tranello di Assad. La situazione è talmente temuta che perfino il movimento Hezbollah, alleato dell'Iran, ha affermato di astenersi dai combattimenti, provocando così una falla nei piani siriani, tuttavia la presenza di svariate milizie, anche di piccola entità, praticamente incontrollate, favorisce una situazione di grande instabilità ed incertezza,lasciando aperte grandi possibilità ai piani di Assad. Se la situazione libanese minaccia di diventare esplosiva, descrive però anche molto bene la difficile condizione del regime siriano ormai costretto ad espedienti di natura diversiva, che hanno lo scopo di creare qualche situazione favorevole in grado di dare una svolta al conflitto interno. Potrebbe essere questo il momento propizio per le potenze che intendono impegnarsi per la caduta del regime, sfruttando i chiari segnali di difficoltà, che le azioni di Damasco consentono di interpretare.


L'India alle prese con l'intolleranza

L'India è attraversata da profondi sentimenti di intolleranza. Nella capitale economica del paese, Mumbai, più di 50.000 persone, hanno aderito alla manifestazione del partito nazionalista contro l'afflusso di emigrati provenienti dal Bangladesh. Sebbene il tutto si sia svolto senza incidenti di rilievo, la questione, che si incentra sia su motivi economici, che religiosi, gli emigrati del Bangladesh sono per lo più musulmani, la manifestazione è il sintomo di un disagio palpabile nella società indiana, dove la forte emigrazione richiamata dal miracolo economico indiano, viene avvertita sempre più spesso come minaccia alla stabilità nazionale. La questione religiosa riveste poi particolare importanza, a seguito delle continue manifestazioni che i musulmani stanno facendo nel paese e che sono poi spesso degenerate in atti di violenza. I nazionalisti indù vedono, dietro questi avvenimenti, l'ispirazione da parte del Pakistan, stato musulmano, tradizionale nemico dell'India con cui i rapporti, dopo una fase che sembrava di distensione, sono tornati ad essere tesi. Difficile dire se questa teoria possa corrispondere al vero, ma risulta comunque essere un buon argomento per l'attivismo del partito nazionalista, capace di aggregare intorno alle proprie idee, masse di scontenti. Questa strategia, peraltro ha provocato tensioni rilevanti in tutta l'India, che hanno provocato più di 80 morti e la fuga di più di 40.000 persone di religione musulmana, dai territori a maggioranza indù. Uno dei temi centrali è la proprietà della terra, che i leader indù ritengono intollerabile diventi di proprietà dei musulmani, perchè altererebbe l'identità stessa del paese. Per l'India si tratta di un grosso problema da affrontare in un periodo segnato da profonde trasformazioni, sia economiche, che sociali. Il paese è condizionato dai grandi contrasti dai quali è contrassegnato, benchè sia presente un ritmo di crescita con valori molto alti, tali da provocare preoccupazione in Cina, la ricchezza resta concentrata nelle mani di pochi ed il tasso di povertà ed indigenza, uno dei più alti al mondo, sopratutto per quanto riguarda la povertà infantile, non accenna a scendere. Inoltre le riforme dei governi recenti, che sono state tese a cambiare la struttura sociale delle caste, pur promulgate non hanno ancora attecchito in maniera incisiva in un tessuto sociale che non riesce ad uscire da usi e costumi atavici. In questo quadro, per il partito nazionalista risulta facile intercettare
lo scontento generale ed indirizzarlo verso gli emigrati musulmani, replicando un quadro già ben sperimentato nelle democrazie occidentali. Tuttavia la scarsa penetrazione delle strutture politiche nella società indiana, non mette al riparo la protezione dei diritti elementari, spesso calpestati da manifestazioni popolari violente.
E' uno scenario che non può permettere all'India quel salto economico che i suoi governanti rincorrono e che non consente al paese quella competizione, spesso cercata con la Cina, che, pur tra mille contraddizioni, sfrutta la sua maggiore organizzazione sociale e sopratutto il ferreo controllo sul paese.



In Iran il vertice dei paesi non allineati

Il vertice dei paesi non allineati in programma per il 30 e 31 agosto nella capitale iraniana, rischia di perdere il proprio significato per diventare una manifestazione di consenso verso la Repubblica degli ayatollah. Quello che il regime di Teheran ha organizzato, infatti, pare una manifestazione per dimostrare che il paese è tutt'altro che isolato, come le intenzioni di Stati Uniti ed Israele vorrebbero, a causa dello sviluppo del proprio programma nucleare. La presenza di ben trenta capi di stato e di almeno un centinaio di rappresentanti di governo di altri paesi, secondo quanto dichiarato da Teheran, dimostra, come in effetti è nella realtà, che il piano di isolamento voluto da Washington ed appoggiato dalla UE è fallito, grazie alla efficace strategia diplomatica degli iraniani, che hanno saputo aprirsi e percorrere strade alternative al rapporto con i paesi più industrializzati. In effetti quanto dichiarato dal portavoce del ministero degli esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, che ha definito il vertice come il più grande evento della storia diplomatica del paese, corrisponde al vero e rappresenta in concreto come gli sforzi di isolare il paese siano, di fatto, naufragati. La significativa presenza di alcuni determinati paesi, poi, assume una grande rilevanza politica nel momento attuale. In particolare la visita del nuovo presidente egiziano Morsi significa la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Egitto ed Iran, interrotte da più di trenta anni. Questo elemento, anche se non dovrebbe portare allo spostamento dei delicati equilibri regionali del medio oriente, non può che determinare una maggiore diffidenza degli israeliani per il nuovo assetto politico uscito dalle urne egiziane. Per Teheran è comunque un successo la ripresa delle relazioni con Il Cairo, fino ad ora comunque dichiaratosi alleato degli USA, proprio perchè ciò rappresenta un fattore di disturbo per Israele. L'organizzazione del vertice rappresenta anche la volontà iraniana di assumere un ruolo di guida dei paesi non allineati, per perseguire la propria strategia di media potenza, che cerca di ritagliarsi un ruolo da protagonista sul panorama internazionale, facendo leva sull'anti americanismo di molti paesi membri e nello stesso tempo allacciando rapporti commerciali capaci di annullare gli effetti delle sanzioni. Teheran cerca di mettersi alla guida di un insieme eterogeneo di nazioni, senza però avere su molte di esse, la necessaria autorevolezza e la capacità di manovra indispensabile per portarle sotto la propria influenza, tuttavia l'esistenza di tratti comuni con paesi che coprono diverse aree geografiche e si sentono accomunate da sentimenti contrari al fenomeno della globalizzazione, avvertito come nuova versione dell'imperialismo americano, potrebbe consentire una ulteriore crescita del peso diplomatico iraniano. Questa situazione rappresenta una sorta di parziale sconfitta per l'impostazione data da Obama alla propria politica estera, imperniata su di un ruolo meno visibile e più di secondo piano dell'attivismo americano fuori dai propri confini, anche se in realtà in diversi episodi la troppa rigidità nell'affrontare alcune situazioni ha determinato, di fatto, un mantenimento di vecchie posizioni, invise a paesi di particolari aree geografiche, oggetto in passato degli eccessi invasivi di Washington. Quello che rischia di uscire da questo vertice è quindi il ribadire di una posizione dei paesi non allineati contraria all'occidente, in un momento storico dove, invece, sarebbe necessaria una maggiore collaborazione tra nord e sud del mondo su materie determinanti per il mantenimento della pace e l'intensificazione della cooperazione mondiale.


martedì 21 agosto 2012

Il caso Assange come causa dell'interruzione del diritto internazionale

Dietro la vicenda londinese che vede come principale interprete Julian Assange, vi sono, in realtà, diverse implicazioni che riguardano i rapporti diplomatici e lo stesso diritto internazionale, tali da potere sovvertire consuetudini consolidate. La minaccia del governo del Regno Unito di violare impunemente una ambasciata di uno stato sovrano, che gode, pare superfluo ricordarlo, di extraterritorialità, va contro ogni ragionevole scenario che si possa prefigurare nei rapporti tra due stati, nemici o no. La gravità della minaccia potrebbe essere soltanto superata dalla sua messa in pratica, che darebbe il via a spinose questioni presso l'ONU, ma che potrebbe, sopratutto, inficiare il principio dell'extraterritorialità, su cui si basano gli insediamenti diplomatici in tutto il mondo. Creare un tale precedente potrebbe aprire una serie di provvedimenti analoghi in altre parti del pianeta, mettendo in crisi il complesso sistema su cui poggiano le relazioni internazionali ed aprire così una fase storica dei rapporti diplomatici segnata da profonda incertezza. Pare impossibile che la diplomazia londinese, formata da personale molto esperto, non sia consapevole della responsabilità di dare il via ad una pratica così pericolosa, in un ambiente dove la creazione di un precedente può costituire una legge non scritta, tuttavia più che ai diplomatici professionisti, la responsabilità di tale minaccia sembra da ascrivere ad un governo come quello di Cameron, che continua a distinguersi per la scarsa professionalità, l'inesperienza nella gestione delle situazioni difficili, come più volte dimostrato nei casi di politica interna ed ora per il servilismo, quasi ostentato, verso gli Stati Uniti. Difficile infatti non pensare che dietro la manovra inglese non vi sia la mano di Washington, che, però, si distingue per un basso profilo, continuando ad affermare che la vicenda riguarda soltanto Londra, Quito e Stoccolma. In realtà per gli USA l'atteggiamento inglese pare avere procurato soltanto fastidi, compattando i paesi del centro america in appoggio all'Ecuador anche in nome di un rinnovato anti americanismo. La frase del presidente ecuadoriano Correa che afferma che i paesi centro americani non sono più il cortile di casa degli USA, può rappresentare per Washington implicazioni ben peggiori dei supposti vantaggi della cattura di Assange. L'esercizio del diritto di asilo da parte dell'ambasciata ecuadoriana, pone così problemi che vanno aldilà del singolo caso, che già da solo presenta risvolti interessanti. Non possono che essere ovvie le considerazioni che la volontà di punire chi ha divulgato notizie riservate, in nome di una pur dubbia libertà di stampa, non possano essere motivo di dubbio sul reale comportamento di stati che si auto nominano campioni dei diritti civili. L'intreccio che si è venuto a creare, tra relazioni diplomatiche ed i possibili sviluppi intorno al caso del fondatore di Wikileaks, fornisce la misura di quanto stati più deboli sappiano sfruttare le occasioni per riempire i vuoti che si sono venuti a creare negli equilibri mondiali: non è un caso che Correa ha espressamente dichiarato che si tratta di una lotta tra Davide e Golia, ma può essere l'occasione per i tanti Davide del mondo di unirsi per guadagnare visibilità ed importanza. In effetti se la questione viene impostata come protezione fornita ad una persona per le sue opinioni politiche, risulta difficile stare dalla parte degli inglesi, che, anzi, ne escono, a prescindere da ogni finale possibile della vicenda, come i perdenti in assoluto, per avere assunto un atteggiamento contrario al diritto. D'altro canto l'Ecuador, dopo una minaccia esplicita ad una sua sede diplomatica, non poteva cedere di fronte a minacce irragionevoli ed inopportune, ed ha così assunto un ruolo di paladino dei diritti facilmente condivisibile, ottenendo l'appoggio anche implicito di un'area ben più vasta di quella dei paesi centro americani. Vi è ancora un aspetto che è parso trascurato da più parti: il silenzio delle Nazioni Unite di fronte alla minaccia di una violazione così palese. La mancata reazione, che doveva essere di sanzione automatica, del Palazzo di vetro pone inquietanti interrogativi sulla reale indipendenza dell'organismo creato per favorire la cooperazione dei popoli in nome del diritto; il fatto è gravissimo ed impone un rimedio che permetta di riguadagnare la fiducia, oltre che dell'opinione pubblica mondiale, di quei paesi del terzo mondo che si sono spesso sentiti trascurati dalle Nazioni Unite.

lunedì 20 agosto 2012

Per il Giappone, dopo la Corea del Sud, si apre il fronte diplomatico con la Cina

Dopo la tensione con la Corea del Sud, per la questione delle Isole Takeshima, per il Giappone si apre un altro fronte diplomatico analogo, questa volta con la Cina, per le isole Senkaku. Attivisti che componevano l'inedita alleanza tra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, hanno infatti piantato le rispettive bandiere su questo piccolo arcipelago, formato da cinque isole, situato nel mar Cinese Orientale e distante circa 120 miglia marine a nordest di Taiwan, 200 miglia marine ad est della Cina continentale e 200 miglia marine a sudovest dell'isola di Okinawa, di cui amministrativamente fanno parte per essere inserite nella sua prefettura, attraverso la dipendenza dal comune di Ishigaki. L'arcipelago era sotto il dominio cinese fino al 1895, anno in cui, in base la trattato di Shimonoseki, dell'aprile 1895, conseguente alla sconfitta della Cina nella prima guerra con il Giappone, passarono sotto la sovranità di quest'ultimo. Gli attivisti cinesi sono stati sfrattati semplicemente senza arrivare ad un processo, che poteva avere conseguenze ben più gravi del già difficile clima che si è venuto a creare; ma questo episodio è soltanto l'ultimo di una serie di incidenti, che si registrano in aumento dal 2007. Come per le isole Takeshima, esistono più ragioni che provocano questa situazioni, che possono portare ad incidenti diplomatici gravidi di conseguenze. Le Senkaku sono circondate da acque molto pescose ed hanno giacimenti di idrocarburi, che pur non consistenti in termini assoluti, possono rappresentare, sopratutto per il Giappone, una riserva considerevole. Inoltre l'importanza strategica, inquadrata in un contesto orientato al sempre maggiore controllo e presidio delle rotte commerciali, ne determina un valore intrinseco molto superiore allo stretto valore economico, non solo, anche l'importanza militare non è secondaria, perchè potrebbe permettere la creazione di una base che potrebbe essere una vera e propria testa di ponte nel Pacifico, sopratutto per la flotta cinese, che avrebbe l'opportunità di insidiare proprio la supremazia di quella giapponese. Il tema è quindi delicato ed arriva in un momento particolare sia per Pechino, che per Washington, alle prese con passaggi di potere annunciati e non. Proprio gli USA, che hanno trasferito la sovranità dell'arcipelago al Giappone, nel 1972, in seguito al trattato di pace di San Francisco, mai riconosciuto dalla Cina, hanno, recentemente, dichiarato che l'arcipelago rientra nel trattato con Tokyo per la sicurezza, da cui consegue che ogni attacco di cui potenzialmente potrebbero essere oggetto, potrebbe fare scattare delle rappresaglie ad opera delle forze armate americane. Negli ambienti statunitensi si ritiene che le rivendicazioni cinesi siano soltanto simboliche e non possano andare aldilà di meri episodi dimostrativi. Tuttavia sia in Cina, che in Giappone, le rispettive opinioni pubbliche sono protagoniste di manifestazioni contro il paese avversario in nome di un rinnovato nazionalismo, che accomuna i due paesi, divisi da storica rivalità. Sopratutto il Giappone sembra attraversato da un sentimento patriottico che sconfina in un pericoloso revanscismo, capace di aggravare una situazione regionale, sempre più in bilico per la presenza di focolai potenziali altamente pericolosi.



Sulla UE il pericolo dell'affermazione dei movimenti politici estremi

La velocità con cui i mercati stanno condizionando la vita degli abitanti dell'Unione Europea, continua a produrre reazioni politiche che muovono l'opinione pubblica sempre più verso le ali estreme delle formazioni politiche. Certo per ora è una tendenza non maggioritaria ma che rivela una propensione degli elettori al rifiuto dei partiti tradizionali che occupano le posizioni di governo. Il fenomeno è rivelatore di una percezione piuttosto netta sulla responsabilità della crisi e dell'inadeguatezza delle misure prese, che sono andate a pesare solo su di una parte ben definita della società europea. Il dato comune, infatti, evidenzia lo scontento dei ceti medi e medio bassi i cui redditi sono stati fortemente decurtati da misure pressochè analoghe, applicate in nazioni differenti. La crescita delle ali estreme del panorama politico, diventa, quindi, la logica conseguenza di una radicalizzazione di una situazione caratterizzata dall'assenza di controllo, che ha permesso materialmente la grave situazione attuale. Ma, se nell'immediato, proprio per la mancanza di peso politico nelle sedi parlamentari, questo fenomeno reata circoscritto alla sola protesta, in un prossimo futuro segnato da competizioni elettorali imminenti, una affermazione elettorale di questi movimenti potrà creare diverse condizioni capaci di bloccare il necessario processo di integrazione europea, che resta l'unica strada per fare uscire il vecchio continente dalle sabbie mobili della crisi finanziaria. Intanto una frammentazione più accentuata dell'attuale nei parlamenti nazionali ed in quello comunitario, non potrà che avere effetti di rallentamento sui processi decisionali, con conseguenti cause ostative alla necessaria univocità di indirizzo. Questo segnale, comune sia a paesi da tripla A, come l'Olanda, sia a nazioni in evidente difficoltà come la Grecia, non può essere sottovalutato da chi è attualmente al governo e specialmente ricopre ruoli di maggiore importanza, in virtù della propria forza economica, nella UE. La discrepanza che divide la velocità dei mercati dall'azione politica è ormai assodato, la ragione che impedisce un corretto funzionamento dell'Europa. Le misure studiate e contrattate a lungo sono sempre un passo indietro a ciò che proviene da mercati esenti da regole, che impongono decisioni sempre più drastiche al di fuori di un normale processo politico. In questa ottica la democrazia viene calpestata ogni giorno dall'oligarchia finanziaria, ormai assurta a novello despota, in grado di controllare i destini delle masse della popolazione europea. Ma se sulle prime, cioè all'inizio del manifestazione della crisi si poteva, giustamente addebitare al legislatore europeo, la mancanza di lungimiranza per non avere saputo prevedere gli effetti nefasti di un liberismo troppo accentuato, ormai il fenomeno è consolidato; eppure le istituzioni europee ed i governi internazionali non sono stati ancora in grado di elaborare una strategia politica unitaria volta al contenimento degli effetti deleteri delle oscillazioni finanziarie. Il primo elemento da eliminare è la lentezza della reazione da un punto di vista normativo, in grado, cioè, di procedere da una regolamentazione effettiva ai fenomeni che condizionano i bilanci ed il debito degli stati. Fino ad ora si è proceduto con strumenti puramente tecnici, di natura economica e sopratutto soltanto contingenti, senza il necessario requisito della programmazione a media o lunga distanza. Ma la ragione è logica: per elaborare provvedimenti di tale portata è necessario un supporto di tipo politico e non soltanto tecnico. E' però proprio su questo aspetto che si riscontrano le maggiori deficienze di un governo sovranazionale, che per il momento è del tutto assente. I provvedimenti dei singoli stati , seppure presi in accordo tra i diversi governi, restano, appunto, leggi nazionali o peggio conseguenze di stati di necessità, per risolvere le quali, gli stati più forti impongono ai più deboli. Se da un punto di vista di necessità ed urgenza questo può essere tollerabile in maniera limitata, per essere accettato deve essere accompagnato dall'elaborazione di progetti tendenti ad una maggiore centralità, che favorisca l'indirizzo politico su quello esclusivamente tecnico. Ciò potrebbe permettere, innanzitutto una regolamentazione a livello comunitario, degli aspetti più nocivi delle conseguenze delle oscillazioni finanziarie ed, in seconda battuta, una programmazione legislativa proveniente dalla rinnovata centralità dell'azione politica, legittimata dall'effettiva riaffermazione del ruolo della democrazia, per ora calpestata dalla causa economica. Per fare ciò il tempo non è tanto, senza un adeguato miglioramento delle condizioni generali delle popolazioni, il guadagno in termini di voti di chi cavalca la protesta è destinato ad aumentare in maniera esponenziale. Per limitare il fenomeno è necessario introdurre una politica di redistribuzione che permetta di mantenere un sistema di protezione sociale, capace di riavvicinare lo stato al cittadino ed insieme procedere con riforme in grado di unire in maniera efficace, dal punto di vista politico, la UE, che siano percepite dalla popolazione come una protezione delle istituzioni.

venerdì 10 agosto 2012

Tra Giappone e Corea del Sud relazioni diplomatiche in pericolo

Il recente episodio della visita del presidente sudcoreano Lee Myung Bak alle isole Dokdo o Takeshima, ha riacceso un mai sopito motivo di profondo contrasto tra Corea del Sud e Giappone. L'arcipelago conteso ha una dimensione ridotta, di circa 0,186 chilometri quadrati, ed è composto da due isole maggiori, contornate da diversi isolotti, ma poggia su di un mare molto pescoso e, si sospetta, giace su depositi di gas; inoltre la sua importanza è giudicata strategica dal punto di vista militare. Nonostante l'arcipelago delle isole Dokdo abbia costituito storicamente un oggetto di disputa tra i due paesi, ultimamente vi erano, però, stati episodi in cui Tokyo e Seul, si erano alleati sull'argomento, contro le pretese della Corea del Nord.
Ma la visita del Presidente sud coreano, accompagnato dai ministri dell'ambiente e della cultura, ha scatenato nel Giappone una reazione sdegnata. In realtà le isole, situate a metà strada tra i due paesi, sono occupate dalla Corea del Sud fin dagli anni 50 dello scorso secolo, con un posto di polizia, un faro, un eliporto ed un piccolo porto. Nel 1982 sono state dichiarate monumento naturale, perchè sede di riproduzione e rifugio di diverse rare specie animali. Dal punto di vista amministrativo, la Corea del Sud le ricomprende nella provincia di Kyongsan mentre Tokyo, che ne continua a rivendicare il possesso, come facenti parte della prefettura di Shimane. La veemente reazione giapponese, che ha provocato il ritiro del proprio ambasciatore sa Seul, è dovuta principalmente al fatto che la visita del presidente coreano è la prima, nella storia, alle isole contese e ciò ha provocato a Tokyo una lettura particolare dell'evento, come affermazione della sovranità territoriale coreana, che, pur sempre rifiutata dai giapponesi, pare ormai un dato di fatto. Il Giappone ha affermato che le relazioni tra i due paesi sono compromesse e che reagirà con fermezza all'atto formale della visita. Pur comprendendo la necessità di risvegliare un nazionalismo, sempre capace di mascherare un momento della politica interna del paese nipponico non troppo felice, la reazione giapponese appare spropositata, sopratutto nei confronti di un paese alleato, in un momento storico nel quale la regione è attraversata dalla minaccia di potenziali conflitti legati, sia al predominio delle rotte commerciali, una disputa con la Cina, che all'eterno problema degli ordigni atomici presenti nella Corea del Nord. La sorpresa è ancora maggiore se si considera che le isole sono occupate dai sud coreani da più di cinquanta anni e non è certo una visita ufficiale a peggiorare le cose. Quali forme di reazione il Giappone intenda adottare è difficile da prevedere, mentre è facile intuire il malumore americano per la dimensione che ha assunto la vicenda. Per gli Stati Uniti, di cui sia Giappone che Corea del Sud, sono grandi e strategici alleati, la regione orientale sta diventando sempre più una zone chiave, come dimostra l'attivismo diplomatico in Viet Nam dell'amministrazione Obama. Per Washington la regione sarà ancora più importante nel futuro per contrastare la potenza economica, ma anche militare della Cina, quando il tasso di crescita dei paesi che si affacciano nel Mare Cinese Meridionale, consentirà di andare a costituire un motore economico rilevante, sia come produttori che come consumatori. Nella strategia americana non sono previsti motivi di attrito tra gli alleati, perchè è già considerata difficile la gestione con Pechino e Pyonyang, per cui l'incrinatura tra Tokyo e Seul è vissuta come un intoppo fastidioso da risolvere al più presto. Tuttavia la missione non appare facile, se per la Corea del Sud non vi sono variazioni di comportamento, l'atteggiamento giapponese desta viva preoccupazione. Senza ipotizzare soluzioni estreme, che potrebbero comprendere manovre militari navali nelle acque prospicienti le isole contese o sanzioni di tipo economico e commerciale, già la sola interruzione dei normali rapporti diplomatici, prolungata nel tempo, rappresenterebbe un ostacolo a tutto quel sistema che gli americani hanno elaborato proprio in funzione anti cinese, perchè significherebbe la rottura di una alleanza nella regione che pareva apparentemente solida. Per la diplomazia americana si prepara, così l'ennesima sfida, questa volta totalmente inaspettata.

Israele ed Egitto collaborano nel Sinai

Le conseguenze di quanto accaduto nel Sinai, la recente vicenda dove gruppi di jihadisti sono fortemente sospettati di avere ucciso 16 guardie di frontiera egiziane, hanno aperto nuove prospettive sugli equilibri regionali. La volontà egiziana di stroncare i movimenti alla frontiera con Israele dei gruppi islamici radicali, ha aperto forme di collaborazione inaspettate tra Tel Aviv ed Il Cairo. Infatti il governo israeliano ha aperto, seppure per un tempo limitato, il proprio spazio aereo all'aviazione leggera egiziana, per consentire l'impiego di elicotteri da guerra nella repressione dei movimenti sulla linea di confine tra i due stati. Per l'islamico, politicamente oltre che di religione, Morsi, il nuovo presidente egiziano, si tratta di una sfida importante, che testimonia come la questione della pace con Israele sia un punto centrale del suo mandato, come aveva affermato più volte, senza mai essere completamente creduto. D'altra parte una cosa è l'appoggio alla questione palestinese, anche con il sostegno materiale a gruppi come Hamas, altra cosa è il controllo del proprio territorio da gruppi terroristici indipendenti e non bene inquadrati in logiche strutturate ed organizzate. La questione è importante perchè attraverso la repressione di questi gruppi, Morsi vuole, innanzitutto evitare dubbi o confusioni da parte israeliana, che potrebbero generare dei conflitti armati tra i due stati. Del resto questa strategia è apparsa da subito una strada possibile ai gruppi terroristici, che hanno interesse ad alterare il pur fragile stato di pace tra i due paesi confinanti, per avviare una spirale capace di degenerare lo stato di stabilità regionale. Ad alimentare l'urgenza della risoluzione del problema vi è anche l'attività clandestina di questi gruppi radicali, che verte sul traffico di armi, droga ed esseri umani, spesso esercitati con la complicità delle tribù beduine, che costituiscono sia un mezzo di finanziamento per le attività terroristiche, sia un elemento di destabilizzazione per la sicurezza interna egiziana, perchè coinvolgono direttamente diverse reti di malviventi. Ed è proprio in questo ambiente che nascono i pericoli più subdoli per il rapporto tra Egitto ed Israele: se parte un attentato verso Tel Aviv, da queste zone, potrebbe risultare facile per gli israeliani accusare il nuovo governo egiziano, come minimo, di scarsa vigilanza, se non di aperta collusione con gli attentatori. L'azione di Morsi, che ha anche compreso la distruzione dei tunnel sotto il Sinai, che sono stati anche strategici per Hamas, ma non solo, perchè hanno favorito proprio quei traffici fonti di tanti dubbi sulla lealtà egiziana, è fondamentale per la distensione tra i due paesi ed afferma la chiara volontà da parte del governo del Cairo, di matrice islamica, di non volere alterare sia gli accordi, che gli equilibri regionali. Morsi, essendo appunto di matrice islamica, deve faticare maggiormente per accreditarsi di fronte allo scettico panorama internazionale, che teme per il paese una deriva religiosa. In questo senso il banco di prova dei rapporti con Israele costituisce un esame probante e l'apertura di credito che ha consentito agli elicotteri egiziani di sorvolare lo spazio aereo di Tel Aviv è una prova dell'avvio di una collaborazione che dovrebbe mantenere inalterata la pace tra i due stati. Sicuramente anche gli Stati Uniti si sono adoperati dietro le linee per favorire questa manovra, che si può definire congiunta, del resto anche per l'Egitto governato dai partiti islamici l'alleanza con Washington resta centrale, sia in chiave di politica estera, che interna. Per Israele nel momento contingente, l'azione egiziana può significare allentare la tensione da quella parte della sua frontiera, per concentrarsi maggiormente verso quella libanese, particolarmente critica per i fatti siriani, mentre in proiezione futura possono essere costruite delle basi per aprire una nuova fase diplomatica con uno stato governato da movimenti islamici, che può costituire un esempio da seguire nei rapporti con altri stati arabi.

mercoledì 8 agosto 2012

L'Iran resta fedele alla Siria

Il regime iraniano, ribadendo la sua alleanza con la Siria di Assad, mostra tutta la sua paura per gli sviluppi della situazione ed investe il tutto per tutto, confermando l'alleanza di Teheran con Damasco. Proprio nella capitale siriana è giunto un inviato del governo iraniano per rinforzare i legami tra i due paesi, giudicati fondamentalmente strategici per il regime degli ayatollah, per la difesa della nazione scita contro Israele e Stati Uniti. In questa alleanza l'Iran iscrive anche i miliziani libanesi di Hezbollah e la causa palestinese. Ma proprio da quest'ultima stanno arrivando le prime delusioni, sia per Assad, che per Ahmadinejad: infatti nei campi profughi palestinesi presenti nel territorio siriano, sta crescendo, in modo esponenziale, il sostegno verso i ribelli, causato dai ripetuti massacri ad opera dlle forze regolari, che hanno anche colpito recentemente, alcuni campi profughi con mezzi di artiglieria pesante. Per l'Iran il mutato atteggiamento dei profughi presenti in Siria verso Assad, costituisce una pesante delegittimazione, capace di minare la tanto ricercata leadership, che appare ormai compromessa, dei paesi arabi contro l'entità sionista ed il nemico americano. Per rovesciare la visione che viene percepita da tutto il mondo dei fatti siriani, e cioè, una ribellione contro una dittatura trasformata in guerra civile, l'Iran si sta adoperando per accreditare la propria interpretazione, che consiste nella negazione del conflitto interno, ma offrendo una lettura che opta per uno scontro organizzato da nemici esterni, facilmente individuabili negli USA ed in Israele, per rovesciare gli equilibri della regione. Cercando un punto di vista obiettivo è innegabile che vi sia una parte di verità in quanto asserito dagli iraniani, anche se è difficile ricostruire le fasi iniziali della rivolta, su di una base di partenza suggerita esclusivamente da soggetti esterni. E' pur vero che una differente gestione della situazione fin dalle fasi iniziali, proprio da parte di Assad, tramite maggiori concessioni ai rivoltosi, avrebbe, insieme con l'effetto di evitare l'ingente spargimento di sangue, potuto avere sbocchi più morbidi per un regime che ora pare destinato ad essere annientato. Non è chiaro come tutti i dittatori della primavera araba abbiano avuto un percorso comune di fronte alle ribellioni. Percorso che ha compreso la repressione via via più feroce, per poi concludersi con l'inevitabile sconfitta. L'errore fondamentale di Assad, a capo del paese che per ultimo è stato oggetto della rivolta è stato quello di non assumere un atteggiamento differente, proprio sulla base di quello successo ai suoi colleghi destituiti. Il dubbio legittimo che consegue ad una simile riflessione è che Damasco sia stato influenzato da potenze esterne fortemente interessate al fatto che Assad restasse al potere, per tutelarne gli interessi. Se questa ipotesi è vera, l'Iran non può che essere tra queste forze straniere, come dimostrato, tra l'altro, dalla presenza di propri miliziani, sia nelle fasi iniziali della repressione, sia in quella attuale, come testimonia la vicenda dei presunti pellegrini iraniani arrestati dai ribelli con l'accusa di essere, in realtà, agenti fiancheggiatori delle forze regolari. L'Iran ha chiesto la collaborazione sia della Turchia che del Qatar, per la liberazione degli ostaggi. La richiesta implica, da parte iraniana, un riconoscimento del ruolo svolto dai due paesi come sostenitori delle forze ribelli siriane, in quanto l'Ankara sta fornendo asilo sia ai profughi, che ai disertori dell'esercito regolare mentre Doha ha effettuato e sta effettuando, insieme all'Arabia Saudita, ingenti rifornimenti di armi e materiale alle truppe ribelli. Alla fine per non urtare la suscettibilità di questi due stati, Teheran ha indicato gli USA, proprio perchè fornitori anch'essi di aiuti alle forze contrarie al regime, di essere i diretti responsabili della salute degli ostaggi, ripercorrendo una strada diplomatica, oltre che consueta, ormai diventata abusata.

martedì 7 agosto 2012

In Africa, crescono i problemi per la Cina

La Cina, che ha fatto dell'espansione economica in Africa un cardine del suo sviluppo industriale per il reperimento delle risorse necessarie alla sua industria, sta incontrando, nel continente nero, grosse difficoltà di relazione con il mondo del lavoro africano. Gli episodi di violenza ai danni dei funzionari cinesi, da parte della manodopera locale, stanno diventando troppo frequenti e segnalano un diffuso stato di malessere. Pechino ha scelto di applicare la stessa metodologia delle condizioni di lavoro che vige in patria: orari massacranti, nessuna tutela, assenza di diritti sindacali e paghe eccessivamente basse. La condizione di necessità delle popolazioni africane, coinvolte fin dall'inizio nei progetti cinesi per il basso costo del lavoro, è stato un fattore calmierante soltanto per i primi tempi, ma l'inasprirsi delle condizioni di lavoro e la mancata applicazione di leggi relative alla regolamentazione della retribuzione più favorevole per i lavoratori, come per esempio accaduto nello Zambia, a generato sentimenti che sfiorano l'aperta ostilità verso la Cina. Del resto, pur con contributi ingenti per gli stati africani, la percezione, che pare comune nei paesi africani, è che Pechino dia meno del dovuto, cioè abbia spuntato contratti nettamente sbilanciati a suo favore, per lo sfruttamento dei giacimenti delle materie prime africane. Questo punto, che riguarda la percezione negativa delle popolazioni locali, è centrale nel sentimento di rivalsa contro Pechino, che viene ormai avvertita come una presenza neocolonialista. Questo fatto potrebbe rappresentare una anticipazione del futuro, che potrebbe verificarsi, seppure in altre forme, anche in paesi non appartenenti ne al terzo e ne al quarto mondo. Sopratutto quello che preoccupa è l'applicazione di un sistema di relazioni industriali totalmente stravolto, dove vige la cancellazione pressochè totale dei diritti sindacali, della sicurezza degli ambienti di lavoro e della tutela stessa dell'occupazione, il tutto, poi aggravato da una necessità endemica della struttura industriale cinese, di avere un costo particolarmente basso del fattore lavoro. Ma quello che accade in Africa è un sintomo che aggiunge profonda instabilità ad un continente in perenne fase di trasformazione, dove le esigenze di modernità, si scontrano con problemi storici non ancora risolti. Passata la fase del post colonialismo, che ha dato vita a numerose guerre, anche su base etnica, il continente africano, seppure con ancora alcuni importanti focolai di guerra presenti, inizia ad avere uno sviluppo dove si segnalano alcune aree con indici di crescita sufficienti a superare lo stato di povertà. Certo questo non vale ancora per le aree rurali, soggette ancora ad una coltivazione che non ha ancora abbandonato i metodi tradizionali, troppo soggetti alla metereologia; ma per le aree urbane cresciute a ridosso dei grandi giacimenti di materie prime, insieme con la crescita economica si è venuta a formare una coscienza dei diritti, supportata anche dallo sviluppo delle comunicazioni. L'approccio di Pechino è stato quello di non comprendere la maturazione dei lavoratori africani, trattandoli ad un livello di poco superiore della schiavitù dei secoli passati ed anzi, in alcuni casi in maniera coincidente. Del resto per cambiare questo atteggiamento non bastano gli ingenti stanziamenti sotto forma di prestito, che la Cina elargisce in modo interessato agli stati africani, l'orgoglio di chi credeva essersi affrancato da una sottomissione non ne ammette una nuova. L'atteggiamento cinese è di autoassoluzione, fedeli alla linea tenuta in politica estera, i cinesi inviati a dirigere i lavoratori africani affermano di essere sul suolo del continente nero soltanto per lavorare, senza immischiarsi nei casi di politica interna, classificando, così, gli atti di violenza a loro danno, soltanto come problemi legati a condizioni sindacali di cui non sarebbero responsabili. In realtà così non è, i contenziosi per gli orari ed i salari con la dirigenza degli impianti cinesi, che spesso non tengono conto proprio delle direttive degli stati dove sono localizzati gli impianti, testimoniano come quella cinese sia una volontà precisamente perseguita. Il problema, poi in ottica mondiale, è ancora più ampio, perchè fa parte di quella valutazione sulla concorrenza che Pechino ha stravolto, imponendo costi del lavoro troppo bassi per i suoi prodotti e l'assenza di regole che condizionano il mercato produttivo occidentale. Ciò ha determinato, si tratta di storia nota, un progressivo abbassamento delle condizioni del lavoro salariato a livello mondiale. Ecco perchè l'occidente deve prestare attenzione a quello che succede nei rapporti tra Cina ed Africa: è necessario che i paesi occidentali si inseriscano nei rapporti produttivi con i paesi africani, portando regole certe, salari adeguati e giusta remunerazione per gli stati di cui si sfruttano le risorse, per bloccare l'avanzata cinese che sta conducendo il mondo verso una deregolamentazione selvaggia del lavoro. L'Africa deve essere un punto di partenza per rovesciare questa tendenza ed affermare i diritti, ma ciò deve essere perseguito dagli stati, perchè anche le aziende occidentali guardano sempre con maggiore interesse ai metodi cinesi.

lunedì 6 agosto 2012

Gli sforzi USA per la transizione siriana

Washington aumenta l'attenzione sulla Siria e sul dopo Assad, ormai dato per scontato. Infatti il lavoro congiunto di Pentagono e Dipartimento di Stato verte sulle modalità della gestione derivante dal vuoto di potere, da diversi punti di vista: umanitario, economico e militare. La prima emergenza è costituita dalla grave situazione umanitaria, cui si cerca di fare fronte con massicci invii di aiuti, sia medici che alimentari, destinati ad alleviare la difficile situazione della popolazione civile. Con la caduta di Assad, gli Stati Uniti stanno approntando l'abolizione delle sanzioni economiche, in modo da permettere un afflusso ancora maggiore di aiuti, provenienti non solo dagli USA e consentire anche una ripresa delle attività economiche più veloce possibile, tramite l'arrivo di investimenti. Molto temuta è la probabile spirale di violenza che potrebbe innescarsi contro le forze leali al regime e responsabili dei tanti atti efferati contro la popolazione, in questo senso l'azione di Hillary Clinton mira a convincere le forze di opposizione a non abbandonarsi ad un clima di vendetta che avrebbe come conseguenza l'accentuazione della tanto temuta situazione del vuoto di potere, che potrebbe aprire scenari particolarmente pericolosi per la presenza, tra le fila dell'opposizione, di aderenti a movimenti integralisti islamici. Gli USA hanno bene in mente la lezione imparata con la caduta di Saddam Hussein in Iraq, dove la dissoluzione completa dell'apparato di potere, creò il caos più totale nel paese. In questa ottica non è da escludere che dietro le tante diserzioni di personaggi influenti del regime di Damasco, non vi sia proprio un piano predeterminato da Washington, per controllare il passaggio di potere, attraverso uomini chiave dell'amministrazione di Assad, che possono conoscere fin nei minimi dettagli l'organizzazione statale e possono essere accettati dall'opposizione per la loro diserzione prima della caduta del dittatore, che consente di assumere, così, il certificato di oppositore. Ma malgrado tutta questa pianificazione la Casa Bianca è consapevole di non potere avere il controllo, anche parziale della situazione, che presenta sviluppi imprevedibili perchè maturata in un contesto di forte violenza e fortemente diviso in fazioni settarie, tenute insieme, per adesso, soltanto dall'avversione per Assad. Infatti, malgrado la fase della caduta del dittatore sia ancora ritenuta problematica, ancorchè data per certa, nel senso che sicuramente accadrà, ma non si sa quando, gli USA ritengono che le difficoltà maggiori emergeranno proprio con la sconfitta ufficiale delle forze al potere. Particolare attenzione è rivolta al nutrito arsenale di armi chimiche, di cui la Siria è sempre stata una grande acquirente, il problema che tale arsenale non finisca in mano ad integralisti islamici, che potrebbe usarlo contro Israele, è stato al centro dell'elaborazione della strategia che prevederà l'impiego di squadre direttamente sul campo, del resto uomini della CIA sono già in stretta collaborazione con i ribelli, sicuramente con compiti di struzione e formazione in collaborazione con elementi analoghi di Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Un'altro aspetto è la coordinazione e la collaborazione con i governi amici della regione, Giordania, Israele e Turchia, per organizzare e gestire la pressione umanitaria, sempre più forte, da parte dei profughi che fuggono dai teatri di guerra. L'azione americana, che era sicuramente iniziata in modo ufficioso, già precedentemente, si è fatta più massiccia con l'aggravarsi della crisi siriana e con la permanenza dell'atteggiamento di Cina e Russia, che continuano a bloccare qualsiasi soluzione proveniente dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, rendendo vani, di fatto, ogni sforzo a livello sovranazionale.

venerdì 3 agosto 2012

La riforma dell'ONU è sempre più urgente

La situazione siriana, dopo avere causato la dimissioni di Annan, provoca una reazione in seno all'assemblea delle Nazioni Unite, che potrebbe avere conseguenze sull'organizzazione del Consiglio di Sicurezza. Il gruppo di nazioni arabe che ha presentato la risoluzione, che sarà votata nella giornata di oggi, per condannare l'uso dell'aviazione militare da parte di Damasco, che ha provocato il bombardamento delle posizioni dei ribelli, contiene, al suo interno, il rammarico per l'incapacità dimostrata dal Consiglio di Sicurezza di arrivare ad una sintesi che favorisse la transizione politica e, con essa, la pace nel paese. Sebbene la risoluzione, che probabilmente verrà adottata con la grande maggioranza dei voti dell'assemblea, non sia vincolante, implicitamente accusa il sistema di funzionamento dell'ONU, troppo rigido e bloccato dall'eccessivo potere degli stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza, che possono così condizionare, l'assemblea dove, al contrario, si dovrebbe esercitare la democrazia delle nazioni. Viceversa l'eccessivo potere nelle mani soltanto di alcuni stati, stravolge quello che è il senso profondo di una organizzazione che dovrebbe essere il governo del mondo. La questione non è nuova, recentemente già la Germania ha richiesto una profonda revisione di meccanismi,ormai farraginosi perchè elaborati in una fase storica ormai abbondantemente trascorsa. L'evoluzione profonda della società internazionale e la nascita di nuovi stati espressione dell'autodeterminazione dei popoli, che caratterizza l'attuale fase storica, sebbene ancora densa di fattori portatori di profonda instabilità, stride profondamente con un assetto pensato con la presenza di territori ancora sottoposti al regime coloniale. Del resto quello spirito è rimasto tuttora sullo sfondo del Consiglio di Sicurezza e gli stati colonialisti o neocolonialisti ne fanno abbondantemente uso per tutelare i propri interessi particolari. Se ciò è quasi scontato per Francia e Regno Unito, ma anche per gli USA e la Russia, protagonisti principali della stagione della guerra fredda, con tutto il corollario di influenze e dominazioni più o meno nascoste su stati formalmente autonomi, anche la Cina non sfugge a questa logica, in virtù di un neocolonialismo economico, che esercita sia sui paesi in via di sviluppo, sfruttandone proprio vantaggio le risorse, sia anche verso i paesi industrializzati in ragione di una disponibilità economica senza pari. Così il Consiglio di sicurezza, da luogo deputato alla risoluzione delle controversie tra gli stati, pensato sopratutto per evitare nuovi conflitti, si è ritrovato in mano ad un club ristretto che lo usa piegandolo alla propria ragion di stato. Il caso siriano è soltanto l'ultimo campanello d'allarme che avverte della necessità di una riforma che dovrebbe essere urgente, ma che non è ancora stata ne pianificata ne progettata. I tempi tecnici della burocrazia tra gli stati e gli sforzi diplomatici che occorreranno, rischiano di fare diventare obsoleta una istituzione che rappresenta l'unico sforzo teso a dare al mondo una forma di governo comune. Non è detto che prima o poi, gruppi di stati, stufi dell'immobilismo del Consiglio di sicurezza, escano dalle Nazioni Unite decretandone la diminuita importanza. Per evitare ciò è necessario che i membri permanenti rinuncino ai loro privilegi iniqui e si pongano le basi per una revisione il più possibile condivisa del funzionamento dell'ONU: mai come ora è necessario uno strumento del genere.

La dura lezione di Alba Dorata

Quello accaduto mercoledi ad Atene in piazza Syntagma costituisce un preoccupante segnale d'allarme per tutta l'Europa: la distribuzione di generi alimentari di prima necessità da parte del gruppo neonazista Alba Dorata, attraverso volontari interamente vestiti di nero, soltanto a persone che mostravano il loro documento di identità comprovante la cittadinanza greca. L'Unione Europea farebbe bene a non sottovalutare certe manifestazioni che sono tese soltanto a radicalizzare lo scontro sociale in atto e dividere i popoli europei. L'ostinazione con cui i governi continuano a punire, per colpe non loro, la parte più debole della popolazione, che è però diventata maggioranza numerica, di diversi paesi, non può che produrre frutti avvelenati, di cui la strage della Norvegia del 2011, rischia di essere stata soltanto un preambolo. La mancanza di una visione più allargata, che sappia penalizzare i veri responsabili della crisi economico finanziaria, è la deficienza più grande, che si registra a livello comunitario. La percezione è che si proceda a compartimenti stagni, senza un filo comune, che sappia considerare i legami tra sfacelo economico e sociale e le possibili derive che ne conseguiranno. Le tanti professioni di ottimismo non sono suffragate da risultati apprezzabili ed una politica inetta, lascia orfani milioni di persone, pronte a gettarsi tra le braccia del primo populista di passaggio, con effetti ancora peggiori degli attuali. Ma tant'è, la preoccupazione maggiore resta il freddo dato numerico del differenziale dei titoli di stato o l'indice di borsa, non ammettendo, che l'affannarsi a conseguire esclusivamente dati positivi, senza che questi determino una ricaduta concreta e, sopratutto veloce, negli strati sociali in sofferenza, genera distorsioni che possono trasformare mostri. Se la situazione greca è la punta dell'iceberg, va vista, però anche in chiave di possibile futuro analogo per altri stati. Le difficoltà materiali di paesi considerati un tempo ricchi come la Spagna, l'Italia, ma anche Portogallo ed Irlanda, mentre la stessa Francia accusa motivi di sofferenza, rappresentano il terreno fertile per la corruzione ed anche il disfacimento di quelle forme di stato, tutte facenti capo alla democrazia, che parevano ormai un dato di fatto. Viceversa, senza benessere collettivo e diffuso, la stessa democrazia è in pericolo, perchè contiene in se stessa gli strumenti che ne possono determinare la morte. Le pulsioni populiste e totalitarie con cui si muovono determinati gruppi e partiti, nati al di fuori del normale circuito dei partiti, perchè questi considerati giustamente corrotti, fanno leva sulle paure del popolo, che è anche corpo elettorale. Una manovra come quella di Alba Dorata, aberrante nella sua espressione, rappresenta però un insegnamento fondamentale della pratica politica che questi gruppi intendono portare avanti. Costringere i greci più poveri ad accettare una elemosina così poco caritatevole ed impiegare questa pratica come mezzo di lotta politica, sovverte ogni tipo di dialettica politica che si è presentata fino ad ora nel corso della storia. Erigere l'elemosina selettiva a pratica politica raggiunge un livello talmente indegno di fare propaganda politica, che, tranne la violenza, ogni limite appare superato. Tuttavia ad essere dietro l'angolo è proprio la violenza, con le possibili conseguenze di tali sistemi che non possono essere che all'inizio. La caccia allo straniero, individuato, chiaramente a torto, come responsabile della crisi, è una facile soluzione che si percorre periodicamente, poi si può passare a sindacati e circoli politici giudicati collusi con il potere che opera i tagli indiscriminati. Sarebbe bene che Bruxelles mettesse da subito in campo iniziative volte a mitigare lo squilibrio sociale anzichè pensare a salvare banche che hanno creato, con le loro perdite, voragini. Questo perchè senza esempi concreti, la situazione è destinata a peggiorare costantemente; con l'euro in pericolo, rischia anche il pieno sviluppo dell'unione politica, l'unico baluardo che, se usato correttamente, può permettere ai popoli europei livelli di vita dignitosi, in mercati che richiedono sempre maggiore grandezza per competere con i giganti mondiali. Occorre però inserire degli anticorpi in un organismo vulnerabile e debole come la UE, leggi certe che impediscano la vita a movimenti che si richiamano al nazismo ed al fascismo, sono sempre più necessari, forse perchè la distanza temporale dalla fine della seconda guerra mondiale, ampliandosi attenua il livello di attenzione necessario affinchè certi episodi della storia non si ripetano.

Kofi Annan lascia il mandato sulla Siria

L'abbandono di Kofi Annan, del mandato, ottenuto su incarico dell'ONU e della Lega Araba, di mediatore ufficiale per la crisi siriana non costituisce una sorpresa. Malgrado tutti gli sforzi e l'impegno profuso, l'ex segretario delle Nazioni Unite, non ha ottenuto risultati tangibili per fermare i massacri sul territorio della Siria ed il suo piano di pace non è riuscito a bloccare i combattimenti ed ha fallito politicamente non ottenendo risultati apprezzabili sopratutto sul piano della transizione al potere. Ad Annan vengono però anche imputati errori di valutazione, come la ricerca del coinvolgimento dell'Iran, paese troppo interessato alle sorti di Assad, che avrebbero in qualche modo raffreddato il coinvolgimento nei negoziati dei paesi occidentali. Il futuro della missione per la Siria prevede un ridimensionamento drastico, con l'abbandono dei 300 osservatori presenti sul territorio siriano, a causa delle condizioni di sempre maggiore pericolo per l'intensificarsi dei combattimenti; da missione di pace si dovrebbe trasformare, quindi, in missione esclusivamente politica, con un contingente molto ridimensionato di circa 30 persone, a cui capo dovrebbe essere designato il vice di Annan, Nasser al-Qidwa. Il lavoro di questa missione politica dovrebbe essere incentrato ancora sulla transizione politica, ma, date le condizioni del conflitto, le possibilità di riuscita paiono molto aleatorie. L'impressione è che sia le Nazioni Unite, che la Lega Araba, vogliano mantenere una presenza di facciata per non avallare completamente il fallimento della missione di pace di Annan, fortemente voluta dalle due organizzazioni sovranazionali. Del resto il livello dello scontro armato ha alterato ogni possibile soluzione pacifica della crisi, ed anche una via di uscita per Assad, come si era ipotizzato qualche tempo addietro, con un esilio dorato, magari in Russia, sembra una ipotesi ormai molto remota. Ma le dimissioni di Assad sono destinate ad alimentare anche nuove polemiche tra i fronti diplomatici opposti: i paesi occidentali, favorevoli ad una risoluzione ONU contro il regime siriano ed il blocco di Cina e Russia, che con il loro veto nella sede del Consiglio di sicurezza, quali membri permanenti, hanno bloccato qualsiasi iniziativa delle Nazioni Unite. Se gli USA non hanno mai creduto fino in fondo alle possibilità di riuscita di Annan, non si lasciano comunque sfuggire il fallimento della missione, incolpando Mosca e Pechino, per le loro posizioni caratterizzate dall'immobilità, che non hanno fatto altro che favorire la guerra civile nel paese siriano. Sebbene le rispettive intenzioni dei singoli paesi siano state mosse da esigenze particolari differenti, la mancanza di un indirizzo comune che affermasse la volontà di imporre una pace, anche non definitiva, ma da cui fare partire effettivi negoziati, è la vera ragione di avere vanificato gli sforzi di Annan, che partiva da presupposti slegati dagli interessi dei diversi soggetti che stanno ruotando intorno alla questione. Per l'ONU è ancora una volta il fallimento del suo ruolo, per il superamento stesso della sua organizzazione pensata appena dopo la fine della seconda guerra mondiale: un'era geologica fa, rispetto all'evoluzione dello scenario internazionale. Per le grandi potenze, invece, la mancata soluzione della crisi siriana, destinata, purtroppo ad una soluzione ancora lontana, significa la mancanza della capacità di flessibilità, che si concreta in rapporti diplomatici troppo statici su posizioni di immobilismo deleterio, che vogliono dire l'assenza della conoscenza delle tecniche della trattativa e del compromesso. Ciò determina uno stato di forte instabilità, che rischia di ripercuotersi in scenari ben più ampi del teatro siriano.

giovedì 2 agosto 2012

La CIA affianca i ribelli siriani

La notizia che il Presidente USA, Barack Obama, avrebbe firmato già dall'inizio dell'anno un ordine, che autorizza la CIA ha compiere operazioni segrete, contro il regime siriano di Assad, non risulta essere sorprendente. L'azione è simile a quella condotta contro Gheddafi e prevede il sostegno militare mediante operazioni dietro le linee e la fornitura di armi ai ribelli impegnati nella lotta armata, ormai degenerata a guerra civile. La scelta della Casa Bianca è maturata da subito quando si è intravista la possibilità di determinare la caduta del regime per sottrarre all'Iran l'alleato più importante in chiave anti israeliana. La notizia non è stata chiaramente confermata dall'amministrazione americana, che continua a sostenere di fornire esclusivamente aiuti umanitari alla popolazione, contro un regime che continua a violare sistematicamente i diritti umani. L'opposizione è sostenuta materialmente, attraverso il Dipartimento di Stato, con un fondo di 25 milioni di dollari, destinati all'acquisto di materiale, tuttavia esiste anche uno stanziamento di 64 milioni di dollari per l'assistenza da erogare attraverso l'ONU ed altre organizzazioni umanitarie, mentre già prima gli USA avevano impegnato 15 milioni di dollari per materiale medico ed attrezzature per le comunicazioni. Ma il livello degli aiuti, ufficialmente è stato sempre circoscritto alla pura fornitura di attrezzatura per alleviare la popolazione civile. Ma i sospetti che ciò non fosse del tutto vero, sono scattati fin da quando è stata accertata la partecipazione di miliziani, più verosimilmente militari, iraniani, impegnati direttamente fin dalle prime fasi delle proteste, nella repressione diretta dei manifestanti. L'impegno diretto degli Stati Uniti potrebbe essere una causa che ha bloccato la volontà israeliana di attaccare Teheran. Washington, con l'impegno diretto sul campo, potrebbe avere dimostrato a Tel Aviv l'effettiva volontà di impedire all'Iran di avvicinarsi troppo, attraverso il territorio siriano a quello israeliano, peraltro uno dei motivi che preoccupano di più il governo di Netanyahu della possibile evoluzione della crisi siriana. Gli USA stanno probabilmente agendo con l'appoggio delle potenze arabe sunnite, Arabia Saudita e Qatar, prime fra tutte, tradizionali alleati degli americani, impegnato sin dall'inizio del conflitto, sicuramente nella fornitura di armi alle forze in lotta contro il regime. Anche per questi paesi la conquista della nazione siriana, attraverso un governo amico, è diventato un obbligo in chiave anti iraniana, ma anche in ottica anti scita. Le minacce di Teheran, più o meno velate, alle potenze di matrice sunnita, tra cui quella di chiudere lo stretto di Hormuz, strangolando l'economia petrolifera, di questi paesi, hanno determinato l'evoluzione di un sentimento anti iraniano, già abbondantemente presente. Anche perchè Teheran a cercato più volte di sobillare le varie minoranze sciite presenti. Per gli USA diventa quindi centrale la caduta del governo di Assad, che significa stringere l'Iran nell'angolo e rovesciare i rapporti di forza nel paese siriano, che poteva costituire la piattaforma per i missili degli ayatollah. A questo punto occorre valutare la reazione che la Russia vorrà opporre ad una situazione, che peraltro sarà stata ben conosciuta al Cremlino. Tuttavia la situazione pare ormai irreversibile, è opinione crescente che la caduta di Assad sia ormai un dato di fatto, il problema, semmai, è sulla tempistica di questa sconfitta, che se non avverrà a breve rischia di lasciare il paese nel disastro più assoluto. Sul futuro è poi difficile ipotizzare uno scenario certo, anche se l'impegno americano sul campo, presuppone l'instaurazione di un governo democraticamente eletto vicino, se non proprio a Washington, almeno ai suoi alleati sunniti. Si verrebbe così a concretizzarsi l'effettivo controllo di un territorio ritenuto strategico per evitare il conflitto tra Israele ed Iran, che preoccupa tutti i governi della regione, attraverso un costante controllo sullo stato iraniano, esplicato anche con una pressione militare direttamente alla frontiera con Teheran.

mercoledì 1 agosto 2012

Problemi di politica estera ed interna per Israele

Con il processo di pace con l'Autorità Palestinese praticamente fermo, Israele, oltre ai gravi problemi di politica estera, attraversa un pessimo periodo anche nella politica interna. Ma le due cose sono connesse, infatti mentre gran parte delle cancellerie mondiali condanna l'espansione degli insediamenti in Cisgiordania, il capitolo di spesa nel bilancio statale relativo a questa vera e propria annessione territoriale è salito del 38%, in palese violazione della condizione necessaria, posta dai palestinesi per sedersi al tavolo della pace. Alla fine la mossa araba non è stata producente, grazie all'immobilismo internazionale, che non è andato oltre le dichiarazioni di facciata e ciò ha permesso al governo di Netanyahu di agire nella totale impunità, portando avanti senza intoppi il suo programma di espansione territoriale. I dati dell'Ufficio Centrale di Statistica israeliano parlano chiaro, dal suo arrivo al governo, nel 2009, l'attuale primo ministro ha continuato ad incrementare la spesa pubblica per gli insediamenti, rivelando una vera e propria strategia pianificata a tavolino, per sottrarre il legittimo terreno dei palestinesi. L'impiego dei pesanti finanziamenti, 172 milioni di euro nel 2010 e 224 milioni nel 2011, è stato indirizzato nella costruzione di infrastrutture, spesso a danno dei palestinesi, ai quali viene sottratta anche l'acqua, trasporti ed istruzione e non comprende le spese militari coperte dal segreto di stato. Le tanto proclamate demolizioni, invece, hanno riguardato soltanto 8.000 coloni presenti nella striscia di Gaza, probabilmente perchè più difficili da proteggere. Le organizzazioni dei coloni, come Yesha, che rappresenta i coloni insediati nella West Bank, contestano i dati di spesa presentati in maniera complessiva, perchè, facendo un calcolo pro capite gli investimenti sarebbero addirittura diminuiti. Ma, oltre a non considerare l'evidente illegittimità dell'occupazione di territorio altrui, l'organizzazione esegue il calcolo su circa 350.000 coloni presenti in Cisgiordania, mentre non vengono conteggiati nel calcolo i 250.000 presenti a Gerusalemme Est, anch'essi presenti in maniera abusiva su porzioni di territorio non appartenenti allo stao israeliano. La cifra della popolazione degli insediamenti sta crescendo costantemente dal 1967, dato che evidenzia come Netanyahu non sia che solamente l'ultimo responsabile di una volontà nazionale preordinata ed in definitiva condivisa dalla gran parte dell'opinione pubblica del paese. Tuttavia la pubblicità ed il rilievo fornito a questi dati, dopo il programma di tagli e l'aumento dell'IVA elaborato dal governo, hanno scatenato un'ondata di proteste sociali paragonabile per intensità a quelle della scorsa estate. Il malcontento che sta montando nella società israeliana, che patisce la crisi economica come il resto del mondo, è rivolto sopratutto contro lo squilibrio di spesa che il governo destina alle spese militari e per i territori, che vengono percepiti come capitoli di bilancio che godono di una maggiore attenzione rispetto allo stato sociale ed al sostegno alle attività produttive. Il rischio per il paese è di andare incontro ad una spaccatura sempre più netta nella società israeliana,divisa tra laici e religiosi, fautori della pace con i palestinesi e teorici dell'espansionismo integrale; in un momento nel quale, invece, l'unità dello stato e del popolo è particolarmente necessaria per affrontare i difficili tempi futuri, sui quali incombe sempre la minaccia dell'evoluzione della questione iraniana.