Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

martedì 13 settembre 2011

Crisi e UE: il punto della situazione

Tocca alla Francia andare sotto pressione, Parigi paga il mix di alto debito pubbico e sistema bancario fortemente esposto con la Grecia. Anche per Sarkozy si avvicinano, quindi, gli strali dei pesi dell'europa settentrionale e potrebbe compromettersi il rapporto, fin qui privilegiato, con la Germania. Tuttavia la fazione anti euro tedesca, non riesce a prendere il sopravvento, troppi i timori degli imprenditori che hanno paura dei paesi del sud europa con in mano la leva della svalutazione. Se un paese come l'Italia avesse avuto questo potere in mano la concorrenzialità dei prodotti tedeschi avrebbe subito un grave danno. L'importanza del mercato europeo rimane centrale nelle strategie delle aziende mondiali, nonostante una buona crescita di fatturato nei paesi in via di sviluppo, l'area euro resta il cliente più appetibile, quello di fare la differenza in sede di analisi finanziaria. Lo capisce bene la Cina, che secondo indiscrezioni, starebbe per lanciarsi sui titoli pubblici italiani, dando una grossa mano al bel paese. Chiaramente un aiuto interessato, sia nell'immediato, che in proiezione futura. Radicarsi in Italia, per gli imprenditori cinesi sarebbe avere accesso al know-how che manca al dragone per spiccare il volo verso la produzione di qualità. La situazione generale resta comunque indefinita e crea gli spazi per azioni come quella cinese. Il problema fondamentale, paradossalmente potrebbe non essere più il debito pubblico in se stesso, ma chi lo ha comprato. L'alta esposizione bancaria verso paesi sempre in maggiore difficoltà è la vera causa di un possibile crollo del sistema. Senza le banche il credito finisce e crea la morte della produzione e degli investimenti. E' una cosa ovvia da dire, come ovvio è il concetto, ma allora perchè i sistemi preposti non hanno operato il dovuto controllo? Tra l'altro non è un fenomeno recente, dai bond argentini è passato un po di tempo, il sospetto, legittimo, che si presenta è che, chi ora grida allo scandalo, prima abbia avuto i suoi guadagni. S'intende che la condotta di chi ha creato tanto debito pubblico, senza peraltro migliorare la condizione della è popolazione, merita la peggiore condanna, ma anche chi non ha controllato merita qualche pena accessoria. Qui si presenta un altro problema, se fino ad ora la direzione era andare verso un governo comune dell'economia, con la UE protagonista, le recenti vittorie dei partiti nazionalisti, combinate alla situazione attuale, vogliono tornare ad una direzione europea frammentata, l'ultimo caso è la dichiarazione del premier olandese, ma se si sceglie questa via si decreta la morte dell'euro. Anche accettando di presentarsi di fronte ai colossi emergenti ed alla globalizazione divisi, quindi già perdenti, l'approccio dei paesi nordici resta sbagliato, giacchè ora lamentano, si ripete giustamente, la stortura della situazione, ma non ricordano di avere precedentemente, tramite i loro istituti bancari goduto della situazione. Quindi se si vuole un sistema più equo, ognuno riconosca le proprie colpe e si riparta da zero. Più controlli a livello centrale e limiti ben definiti e certi, superati i quali scattino sanzioni cui non si possa sfuggire, maggiore severità contro i banchieri d'assalto, che riversano le proprie perdite sulla collettività e viceversa maggiore possibilità di sviluppo a chi pratica attività finanziaria nei limiti fissati. Stessi criteri con gli stati, l'istituto del pareggio di bilancio è solo il punto da cui partire, occorre entrare anche nel merito della spesa pubblica, sostenendo i capitoli di spesa che favoriscano una crescita etica e diano all'intera collettività le opportunità per crescere.

Crisi e UE: il punto della situazione

Tocca alla Francia andare sotto pressione, Parigi paga il mix di alto debito pubbico e sistema bancario fortemente esposto con la Grecia. Anche per Sarkozy si avvicinano, quindi, gli strali dei pesi dell'europa settentrionale e potrebbe compromettersi il rapporto, fin qui privilegiato, con la Germania. Tuttavia la fazione anti euro tedesca, non riesce a prendere il sopravvento, troppi i timori degli imprenditori che hanno paura dei paesi del sud europa con in mano la leva della svalutazione. Se un paese come l'Italia avesse avuto questo potere in mano la concorrenzialità dei prodotti tedeschi avrebbe subito un grave danno. L'importanza del mercato europeo rimane centrale nelle strategie delle aziende mondiali, nonostante una buona crescita di fatturato nei paesi in via di sviluppo, l'area euro resta il cliente più appetibile, quello di fare la differenza in sede di analisi finanziaria. Lo capisce bene la Cina, che secondo indiscrezioni, starebbe per lanciarsi sui titoli pubblici italiani, dando una grossa mano al bel paese. Chiaramente un aiuto interessato, sia nell'immediato, che in proiezione futura. Radicarsi in Italia, per gli imprenditori cinesi sarebbe avere accesso al know-how che manca al dragone per spiccare il volo verso la produzione di qualità. La situazione generale resta comunque indefinita e crea gli spazi per azioni come quella cinese. Il problema fondamentale, paradossalmente potrebbe non essere più il debito pubblico in se stesso, ma chi lo ha comprato. L'alta esposizione bancaria verso paesi sempre in maggiore difficoltà è la vera causa di un possibile crollo del sistema. Senza le banche il credito finisce e crea la morte della produzione e degli investimenti. E' una cosa ovvia da dire, come ovvio è il concetto, ma allora perchè i sistemi preposti non hanno operato il dovuto controllo? Tra l'altro non è un fenomeno recente, dai bond argentini è passato un po di tempo, il sospetto, legittimo, che si presenta è che, chi ora grida allo scandalo, prima abbia avuto i suoi guadagni. S'intende che la condotta di chi ha creato tanto debito pubblico, senza peraltro migliorare la condizione della è popolazione, merita la peggiore condanna, ma anche chi non ha controllato merita qualche pena accessoria. Qui si presenta un altro problema, se fino ad ora la direzione era andare verso un governo comune dell'economia, con la UE protagonista, le recenti vittorie dei partiti nazionalisti, combinate alla situazione attuale, vogliono tornare ad una direzione europea frammentata, l'ultimo caso è la dichiarazione del premier olandese, ma se si sceglie questa via si decreta la morte dell'euro. Anche accettando di presentarsi di fronte ai colossi emergenti ed alla globalizazione divisi, quindi già perdenti, l'approccio dei paesi nordici resta sbagliato, giacchè ora lamentano, si ripete giustamente, la stortura della situazione, ma non ricordano di avere precedentemente, tramite i loro istituti bancari goduto della situazione. Quindi se si vuole un sistema più equo, ognuno riconosca le proprie colpe e si riparta da zero. Più controlli a livello centrale e limiti ben definiti e certi, superati i quali scattino sanzioni cui non si possa sfuggire, maggiore severità contro i banchieri d'assalto, che riversano le proprie perdite sulla collettività e viceversa maggiore possibilità di sviluppo a chi pratica attività finanziaria nei limiti fissati. Stessi criteri con gli stati, l'istituto del pareggio di bilancio è solo il punto da cui partire, occorre entrare anche nel merito della spesa pubblica, sostenendo i capitoli di spesa che favoriscano una crescita etica e diano all'intera collettività le opportunità per crescere.

lunedì 12 settembre 2011

Israele: il corpo estraneo

L'isolamento di Israele è ormai cosa fatta, il paese è un corpo estraneo nella regione. Tutti i governi che si sono succeduti dalla creazione dello stato israeliano non sono stati in grado di integrare la nazione nel contesto formato dai paesi vicini, non hanno trovato, cioè, alcun modus vivendi, alcuna forma di collaborazione, che inquadrasse il paese all'interno dell'area geografica in cui si trova. Certo mai come ora la nazione soffre di una sindrome di quasi totale accerchiamento e di una penuria di simpatia nel consesso internazionale. Ma questo stato di cose è la somma di anni di politica estera sbagliata, di mancanza di capacità di previsioni azzeccate e sostanziale immobilismo su idee ormi fuori tempo. Non avere risolto il problema palestinese, ostinandosi ad attegiamenti impossibili da condividere, pone lo stato israeliano sempre più in una posizione di pericolo, se non per la propria sopravvivenza, per lo svolgimento normale della vita del suo popolo. La scarsa lungimiranza dei governanti di Tel Aviv, arroccati nelle loro posizioni, non ha saputo capire ed anticipare con gesti significativi, la primavera araba, ed ora, mancata l'occasione, navigano a vista senza alcun programma di lungo periodo. Non è possibile che uno stato che si dichiara l'unica democrazia del medio oriente, non abbia mai levato una voce contro gli oppressori degli stati vicini, per il solo fatto, che erano funzionali alla vita del loro stato. La mancanza di Israele è stata quella di privilegiare le proprie ragioni, senza parlare in nome dei diritti universali. Se questa tattica ha garantito, in maniera miope, diversi anni di tranquillità, ora la storia potrebbe presentare il conto. Riconoscere immediatamente lo stato palestinese, all'inizio della primavera araba, era il male minore, la tattica giusta per uscire dalla situazione pericolosa che si stava creando. Viceversa, piccoli interessi di bottega, come qualche chilometro di territorio, hanno impedito di cogliere questa occasione storica, sempre nel solco di una ottusità politica disarmante. Adesso Israele attende lo sviluppo degli eventi in un equilibrio instabile, seduto sulla polveriera che esso stesso si è creato. Non si vede attività, non si capiscono le intenzioni di un governo in difficoltà sia nel fronte interno, che in quello esterno, il paese sembra sospeso in una attesa sfibrante. Tel Aviv ha perso la Turchia, l'Egitto, tra poco potrebbe cadere anche Assad e non basta la piccola Grecia, oltre tutto alle prese con problemi più grandi di lei, a rimpiazzare gli alleati perduti. Difficile dire cosa potrà accadere, ma un Israele sempre più isolato, non potrà continuare nella politica perseguita fino ad ora, senza un cambio di rotta significativo le conseguenza per la stella di David potrebbero diventare veramente problematiche.

domenica 11 settembre 2011

La crisi, opportunità per la UE

L'Europa si sta spaccando sul debito delle nazioni del sud. L'avversione dimostrata dalla Germania è condivisa da altri stati del nord, che non intendono più contribuire al salvataggio, mediante l'acquisto di titoli pubblici di paesi a forte indebitamento, compiuti dalla BCE. La spaccatura è geografica, da una parte Italia, Spagna, Portogallo e Grecia dall'altra l'Europa del nord, con la Francia a metà. Il caso francese è singolare, l'attivismo di Sarkozy maschera a fatica le condizioni non buone dell'economia di Parigi, che non è ancora assimilabile a quelle del meridione del continente, ma che potenzialmente potrebbe diventarlo. Quali scenari si aprono? La gamma delle soluzioni è vasta: uscita dall'euro per i paesi più malconci, europa a due velocità (l'anticamera della dissoluzione europea) o fine della sovranità nazionale ed economia statale dei paesi in crisi messa sotto tutela dagli organismi centrali, che in parole povere vuole dire dirigismo tedesco sulle economie in difficoltà. Sempre che la Germania voglia continuare a restare nell'euro ed in Europa. Se la seconda ipotesi è difficile perchè Berlino ha necessità del mercato europeo, che di vedrebbe ridurre notevolmente in caso di uscita dalla UE, la prima ipotesi ha più possibilità di realizzarsi. Senza misure strutturali che riportino i valori economici e finanziari dell'intera UE entro numeri significativi, per la Germania significa un esborso consistente, che non permette alcun guadagno. La cancelliera Merkel sta subendo batoste elettorali consistenti che la obbligano, forzatemente, ad un cambio di passo che le permetta di recuperare il terreno perduto sul versante elettorale. I tedeschi stanno percependo l'Europa come una zavorra per il loro sviluppo, dimenticando peraltro di avere riversato sul continente i costi per la loro riunificazione, e vogliono mani più libere per la loro economia. Purtroppo hanno ragioni da vendere, la questione del debito è solo la parte più rilevante del problema. I paesi in crisi, infatti, non hanno maturato una condizione di flessibilità nella loro conduzione politica del cambiamento imposto dalla globalizzazione. Non si sono, cioè, attrezzati con strumenti adatti per ripensare le loro economie. Il caso italiano è emblematico, uno dei più grandi paesi industrializzati, ha saputo rispondere al cambiamento solo con delocalizzazioni della produzione, perdendo capacità e conoscenze, che hanno determinato il crollo industriale e manifatturiero. Questo per dire che il solo controllo del debito, non è condizione sufficiente per uscire dalla crisi. In questo senso ha più ragione di essere una centralizzazione delle decisioni in materia economica, che possano superare le incapacità locali. In presenza di persone capaci ed autorevoli, con regole certe e sicure, accentrare il processo decisionale non deve essere visto come una diminuzione della sovranità statale, ma come una opportunità per l'insieme del sistema. Se questo si concretizzasse la crisi avrebbe rappresentato una occasione di rafforzamento della UE ed un ulteriore passo avanti nel'unificazione.

sabato 10 settembre 2011

La Somalia banco di prova del potere internazionale

La situazione somala continua ad essere molto difficile. La carestia non è solo dovuta alla siccità, ma anzi, ora con l'arrivo degli aiuti al vuoto politico. Il governo in carica, pur tentando di salvaguardare la popolazione, non è dotato dei mezzi necessari per contenere le milizie islamiche, che, oltre ad avere sotto stretto controllo una parte del paese, operano anche incursioni nelle zone sotto il controllo del governo, assaltando i depositi con le scorte. Tutto il paese è nel caos, con vere e proprie invasioni di profughi che raggiungono gli agglomerati urbani in cerca di cibo. La risposta internazionale a questo problema è finora stata insufficiente, il solo invio di aiuti alimentari e medici non basta in una situazione dove la pace non esiste, ed anzi espone al pericolo il personale delle ONG, impegnato sul campo. Senza aiuti militari la Somalia non potrà uscire dalla crisi, nell'immediato significa sempre più vittime della carestia e delle violenze, nel futuro una massa sempre più grossa di disperati che premeranno alle porte dell'occidente. E' inspiegabile come l'ONU non sia andata aldilà di appelli senza decidere l'invio di una forza armata sotto la sua egida. I caschi blu rappresentano oramai l'unica soluzione possibile per fermare un ulteriore massacro annunciato; ed anche l'atteggiamento della NATO, pronta ad entrare velocemente in campo in Libia, si distingue per un silenzio assordante. Eppure sarebbe una occasione per legittimare agli occhi di tutti gli osservatori un ruolo di forza operante per la pace a trecentosessanta gradi; lo sforzo necessario non sarebbe poi così ingente. L'uso della forza aerea contro i ribelli li costringerebbe in poco tempo a lasciare parecchi metri di terreno e sfamare letteralmente un grande numero di persone; se l'epressione guerra umanitaria ha un significato concreto, mai come in questo caso sarebbe spiegato meglio. I paesi ricchi hanno il dovere morale di impegnarsi per fare cessare questa situazione e le organizzazioni internazionali per giustificare la loro stessa esistenza. Senza una soluzione certa e definitiva, che getti le basi anche per evitare altre situazioni analoghe, tutta l'impalcatura messa in piedi dal secondo dopoguerra ha definitivamente cessato ragione di esistere.

venerdì 9 settembre 2011

Si avvicina l'apertura dell'assemblea ONU

Il conto alla rovescia per la sessione di apertura dell'Assemblea della Nazioni Unite sta per scadere. Si entrerà così nel vivo del dibattito per il riconoscimento della Palestina. La tattica portata avanti da Abu Mazen si sta rivelando implacabile per Israele; i contatti allacciati dal capo dell'Autorità Nazionale Palestinese si sono fatti più serrati per trovare i riconoscimenti necessari in sede assembleare. Tale strategia si è resa necessaria dal veto che verrà messo sicuramente, come già annunciato, dagli Stati Uniti in sede di Consiglio di sicurezza. In questo caso la vittoria palestinese, più che reale avrà valore simbolico, ma si tratterà di un valore simbolico molto elevato, che costringerà ancora di più Tel Aviv nell'angolo dell'isolamento giuridico, economico e politico del consesso mondiale. Abu Mazen portando alle Nazioni Unite la discussione sul riconoscimento dello stato palestinese, spera con questa azione di mettere riparo ai numerosi fallimenti del processo di pace e di creare uno stato a tutti gli effetti per i palestinesi. Il contorno a questa richiesta saranno manifestazioni di massa, che, sebbene si annuncino pacifiche, sono molto temute, per la paura di degenerazioni che possano dare vita a scontri con Israele. Anche su queste paure si basano i tentativi di Washington e Tel Aviv per fare desistere Abu Mazen dai suoi propositi e rifarlo sedere al tavolo delle trattative. Cosa che probabilmente il capo dell'ANP farà dopo avere incassato il voto di maggioranza dell'assemblea dell'ONU, che gli permetterà di trattare da altre posizioni, sempre che Israele accetti ancora, dopo quella che sarà una bruciante sconfitta di sedersi al tavolo. In questi periodi Israele ha vissuto con fastidio l'iniziativa palestinese, patendo le manovre diplomatiche di Abu Mazen, che hanno riscosso molto successo in diversi paesi, che hanno promesso l'aiuto necessario presso l'ONU, ma per il momento tace in attesa delle decisioni ufficiali senza volere scoprire le proprie carte.

giovedì 8 settembre 2011

Obama deve affrontare il problema lavoro

Otto milioni di disoccupati degli Stati Uniti pesano sul futuro della rielezione di Obama. Il costo sociale della recessione è stato altissimo per gli USA, nonostante una presidenza non repubblicana, la risposta del governo democratico non è riuscita ad arginare l'emorragia di posti di lavoro, creando una situazione sociale decisamente pesante. Non era questo che gli elettori si aspettavano da un presidente democratico. Il tema è sempre più centrale nelle problematiche che affliggono il paese e rappresenta una ferita con il rapporto con gli elettori. Per mettere un riparo alla situazione, Barack Obama sta elaborando un piano da 300 miliardi di dollari per iniettare nell'economia americana la liquidità necessaria per abbattere la quota di disoccupazione. La soluzione dovrebbe riguardare il rilancio dell'occupazione tramite l'incremento dei lavori pubblici con la costruzione di infrastrutture, in modo da creare un volano economico capace di erodere il numero dei senza lavoro. L'ammontare della quota da investire sarà rastrellata con un mix di tagli di spesa e nuove tasse, tutavia, questo programma è contrario agli intendimenti dei repubblicani, che hanno la maggioranza al congresso e che pensano di stimolare l'economia abbassando la tassazione. Il rischio della ripetizione del duro confronto sul debito pubblico USA, rischia così di ripetersi. Per Obama è importante recuperare quote di popolarità, per riguadagnare posizioni dall'attuale 40%, il dato più basso da quando è stato eletto come Presidente degli USA. Per il paese le questioni internazionali sono passate in secondo piano, gli Stati Uniti sembrano ripiegati su se stessi a causa di una crisi economica che ha fatto crollare il castello di carte della finanza, mettendo la popolazione nell'incertezza ed a rischio la pace sociale. D'altronde queste erano anche le condizioni che hanno favorito l'ascesa di Obama, non avere risolto questi problemi mette in forte pericolo la sua rielezione, anche se la concorrenza, un partito repubblicano frammentato e diviso, alla fine, rappresenta un punto a favore del presidente in carica. Tuttavia senza elaborare un piano che avvii una soluzione del problema del lavoro, Obama è un candidato inattendibile, gli obiettivi raggiunti, sulla diminuzione delle truppe USA nel mondo, l'eliminazione di Bin Laden ed il nuovo atteggiamento di retroguardia scelto sul piano internazionale, non bastano, quando la centralità del problema è ormai diventato quello economico. Senza robuste soluzioni sul fronte interno, che ormai è il principale, Obama rischia la delegittimazione nel paese restando la sua una presidenza incompiuta.