Politica Internazionale

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venerdì 11 marzo 2011

Il disastro giapponese si abbatte su di un paese già in difficoltà

Il terremoto che si è abbattuto sul Giappone avrà effetti nefasti anche sull'economia del paese del sol levante. Il paese si trova alle prese con difficoltà congiunturali, dovute alla fine del periodo d'oro degli anni '80 e '90 del secolo scorso, dove le esportazioni di materiale tecnologico trainavano tutta l'economia della nazione. Il Giappone è gravato da un enorme debito pubblico e da fenomeni di deflazione che ne minano la ripresa. La strategia dell'apprezzamento della moneta nazionale ha avuto il solito doppio effetto, proprio di manovre del genere: ad una maggiore capacità di acquisto di materie prime ed energetiche, è corrisposto una difficoltà delle esportazioni,a causa dell'innalzamento dei prezzi delle merci e dei beni giapponesi; tuttavia un blocco della borsa nipponica, per la capacità finanziaria di liquido trattato sarebbe una iattura per la finanza mondiale. Se la situazione economica anche quella politica non versa in buone condizioni, una serie di scandali legati a contributi ricevuti da esponenti di governo da parte di imprese sudecoreane, ha determinato una serie di crisi politiche. Gli scandali hanno destato particolare attenzione, perchè i contributi di aziende straniere sono vietati ai politici giapponesi, ed hanno provocato la richiesta delle opposizioni di effettuare elezioni anticipate. Anche sul versante della politica estera il Giappone vive un senso di minaccia per la presenza della bomba atomica nordcoreana a pochi chilometri dalle sue coste e patisce la sempre più crescente potenza della Cina. In questo quadro, non proprio facile, il Giappone dovrà districarsi dal disastro in cui è occorso. Il pericolo di una nazione di tale importanza in ginocchio dal punto di vista umano ed economico è un problema anche per gli USA, che ne fanno l'alleato principe in una delle regioni più calde della terra, appunto per la presenza della Corea del Nord e della Cina. Il disastro giapponese colpisce anche Washington, sempre più trascinata nelle crisi mondiali; quello di Tokio sarà un fronte, sopratutto economico, dal quale non sarà possibile sfilarsi.

Aumenta la richiesta dei diritti in Arabia Saudita

Continuano le proteste in Arabia Saudita, nella giornata odierna è andata in scena "la giornata della collera", organizzata da attivisti per i diritti umani e moderati sciti e sunniti. Inizialmente le proteste si caratterizzavano per l'egemonia scita, minoranza nel paese, la presenza, invece di sunniti, rappresenta una novità nel panorama delle proteste. E' un segnale che le manifestazioni stanno perdendo la connotazione religiosa per virare verso l'aspetto dei diritti civili. La richiesta di maggiori garanzie per i diritti si allarga ad ogni ceto sociale, negli ultimi giorni diversi accademici hanno messo la loro firma su petizioni che richiedono riforme. I primi effetti sono state le dichiarazioni del Ministro degli esteri saudita che ha affermato che ogni cittadino ha diritto di esprimere la propria opinione a patto di non minacciare la sicurezza dello stato; inoltre il governo ha incaricato un centro studi per aprire un canale di dialogo con tutti i sudditi della nazione. Per l'Arabia Saudita la situazione rappresenta una novità assoluta, nel regime monolitico si stanno aprendo crepe che richiedono un nuovo modo di affrontare il rapporto stato-cittadini, il governo cerca di arginare la protesta con nuovi stanziamenti di fondi pubblici e ricerca del colloquio con le anime più moderate della protesta, cercando di evitare una deriva violenta o che metta in pericolo il potere costituito. Quello che sembra è che sia partito un processo irreversibile verso la concessione di diritti civili, che dovrà, giocoforza, riconsiderare l'impianto stesso dello stato arabo.

I dubbi sulla UE

Si sono verificati una serie di episodi che mettono in grande dubbio l'efficacia dell'Unione Europea, almeno dal punto di vista politico e più strettamente della politica internazionale, e che devono porre questioni cruciali perfino sulla sua ragione di essere. Fatta salva l'importanza culturale e ancor più economica dalla UE, che ha raggiunto risultati consistenti, come la moneta unica, la libera circolazione delle persone e delle merci, la redistribuzione del reddito europeo agli stati, mediante aiuti e finanziamenti atti a portare sviluppo, la situazione politica è di forte immobilismo. Si è preferito, forse in maniera troppo affrettata, adottare la tattica di includere più stati possibli, ed il processo continua, senza verificare le effettive intenzioni dei governi su temi politici comuni e sul reale senso di appartenenza all'Europa. I nuovi stati sono stati attratti dalla possibilità di entrare in un mercato comune praticabile e dalla possibilità di ricevere aiuti, senza condividere i sentimenti europeisti degli stati fondatori. Si è arrivati al paradosso di consentire l'entrata di stati governati da partiti realmente antieuropeisti. Spesso l'attività dei nuovi stati è stata sollevare eccezioni così da rallentare ilprocesso decisionale di Bruxelles. Non che le vecchie nazioni siano state da meno, ci sono casi nei quali i vecchi componenti della UE pare si siano adeguati all'ostruzionismo dei nuovi, senza coinvolgerli nell'effetivo processo europeista convinto. Anche il caso Inglese e di quei paesi che non sono entrati nell'area euro è simbolico, la moneta unica dovrebbe essere un requisito essenziale per essere dentro l'Unione. Ci si trova così in una condizione dove il reale processo di unificazione che deve portare agli Stati Uniti d'Europa è praticamente fermo per i mille granelli immessi negli ingranaggi; non si trova una linea comune su cui muoversi velocemente per dare finalmente il giusto impulso decisionale agliorganismi centrali. Il caso francese, nella politica internazionale, è emblematico. Di fronte ad un immobilismo ed alla indecisione di Bruxelles, su di un tema così importante, il governo francese ha deciso di muoversi per suo conto. E' un gesto senza precedenti, che in un momento molto grave, crea un precedente pericoloso. Le conseguenze di questo atto rischiano di minare per il futuro la politica estera comunitaria. Senza contromisure, di carattere legale, ma sopratutto condiviso dalla maggioranza, che diano maggiori capacità di azione agli organi centrali, si rischia di avere 27 politiche estere diverse, talora contrastanti se non opposte. A ben vedere questa anarchia comunitaria fa il paio con chi non vuole la moneta unica, è tutta una teoria che contrasta il fine della UE. Occorre ridiscutere tutto il processo unificatorio ponendo alla base requisiti minimi di entrata, che vertano sulla comune condivisione di strumenti ed obiettivi. Pur non essendo possibile riazzerare tutto il processo e ripartire da zero, una attenta revisione dovrebbe essere contemplata, altrimenti gli Stati Uniti d'Europa saranno soltanto una chimera.

La Francia punta sui ribelli ed agisce da sola

Lo stallo della situazione libica pare ormai un fatto acclarato, se non interverranno attori esterni, la guerra civile sarà ancora lunga e potrà trasformarsi in guerra di posizione. Pur avendo perso la parte orientale del paese, Gheddafi può contare su due divisione di terra molto fedeli al regime, inoltre dispone di una contraerea molto efficiente, in grado di contrastare un'eventuale decisione di instaurare la zona di non volo. L'impressione è che la truppa aerea fedele al rais sia stata usata per ora marginalmente, nonostante i bombardamenti sui ribelli ci siano stati, proprio con un intento strategico di non accelerare tra i paesi che seguono la situazione la decisione di dichiarare la zona di non volo. Piano piano, Gheddafi, riguadagnando terreno ha, sopratutto, guadagnato tempo prezioso, necessario ad organizzare anche una controffensiva diplomatica. In questo momento la fine del regime appare più lontana. Il risultato più favorevole al rais è stato quello di fare nascere contrasti in seno all'Unione Europea, mentre gli USA, continuano a stare alla finestra, messi all'angolo più che altro dalla loro stessa necessità di non entrare in un ulteriore conflitto. La situazione più grave si è creata all'interno della UE, con l'evidente strappo consumato dalla Francia e dal Regno Unito con la statica politica estera di Bruxelles. Sopratutto la Francia, con la decisione unilaterale e non discussa con gli organismi centrali UE, di riconoscere Bengasi come stato legittimo libico, decisione appoggiata in un secondo momento anche da Cameron, ha determinato una significativa, sul piano della politica estera, rottura. La strategia francese pare tesa a guadagnare una evidente autonomia per guadagnare quel prestigio internazionale, ultimamente appannato, può essere anche inquadrata come diretta a colmare il vuoto lasciato, intenzionalmente dagli USA nel Mediterraneo. La Francia andrebbe così ad assumere un ruolo di preminenza politica nel Mare Nostrum, diventando la nazione più accreditata per gli sviluppi futuri nell'intera area. Impossibile non vedere la mano americana dietro il tutto, gli USA hanno probabilmente scelto il loro cavallo di Troia, ritenendo la Francia il più affidabile e preparato degli alleati disponibili. Un altro indizio in questa direzione è la possibilità palesata da Sarkozy di andare da solo, se necessario, a bombardare le truppe del rais per creare la zona di non volo. Un segnale chiaro e forte delle intenzioni francesi, che guarda caso, collimano con quelle americane. Sullo sfondo una incredula UE, che ancora non sa in quale direzione andare.

giovedì 10 marzo 2011

Ancora attendismo di USA e UE sulla crisi libica

La Francia riconosce il Consoglio Nazionale di Transizione, l'organismo dei ribelli di Bengasi come legittimo governo libico, l'accelerata francese avviene dopo che la UE aveva rifiutato il riconoscimento con la motivazione che l'Europa riconosce gli stati e non i governi. Ancora attendismo, quindi in seno all'organizzazione sovranazionale europea, che intende proseguire con i piedi di piombo nella vertenza libica. Intanto la Germania blocca 200 conti riferiti alla Libia contenenti circa 70.000 milioni di euro, il blocco sarà attivo fino alla definizione della effettiva proprietà dei conti. Ancora una volta la grande assente è la politica estera comunitaria che non riesce a trovare un medesimo indirizzo, ancora troppo particolaristici gli interessi degli stati, che preferiscono procedere in solitaria, senza trovare una intesa sotto la bandiera della UE. L'inadeguatezza dell'Unione Europea si manifesta in tutta la sua inconsistenza sulla scena internazionale, una politica pavida che tentenna e non prende una posizione netta se non in situazioni di certezza estrema. Con questa premesse la mossa degli USA, che si appellano ad una richiesta del popolo libico, di non volere prendere il comando di un'eventuale spedizione militare, per lasciarla alla UE, assume la prospettiva di una tattica attendista. La valutazione americana verte sui dubbi del mondo musulmano, anche quello moderato, che considera un eventuale comando USA non bene accolta dal popolo arabo. Molto conta anche la paura americana di ritrovarsi invischiati in un terzo scenario di guerra, eventualità che l'opinione pubblica americana considererebbe in maniera molto negativa. Frattanto Gheddafi cerca di uscire dall'isolamento diplomatico inviando un emissario in Portogallo, uno a Malta ed uno a Bruxelles cercando presumibilmente di preparare una exit strategy per se e la sua famiglia.

Negli USA monta la paura dell'integralismo americano

Negli Stati Uniti cresce la paura degli estremisti musulmani americani. Nei giovani statunitensi credenti in Maometto paiono manifestarsi sempre più segnali di integralismo; la distanza tra la comunità musulmana ed il movimento del tea party, l'anima dell'america profonda, pare generare distorsioni pericolose. La visione estremista dei giovani musulmani fa sempre più presa in un ambiente che oltre a tendere ad isolarsi, viene isolato dagli altri settori della società, oltre che dallo stato. Il meltin pot culturale americano pare incrinarsi di fronte alla radicalizzazione delle posizioni culturali. In ogni ghetto le visioni estreme sono quelle che hanno più presa facilmente. La preoccupazione maggiore è che il terrorismo interno vada a pescare in quegli ambienti integralisti che stanno registrando una notevole crescita. Per gli Stati Uniti sarebbe uno shock essere colpiti da un americano non divenuto tale dopo la sua nascita ma nato proprio sul suolo USA. Questa paura comprende la consapevolezza della forza del messaggio integralista, avere, potenzialmente a che fare con un terrorisomo di matrice religiosa musulmana, interno sarebbe una cosa totalmente nuova e che troverebbe impreparati gli Stati Uniti. Tale timore ha generato una discussione parlamentare sollecitata dal Partito Repubblicano per cercare di comprendere e fermare tale tendenza. Anche la Casa Bianca, pur riconoscendo che la tolleranza religiosa debba essere salvaguardata, ha sottolineato che la proliferazione dell'integralismo religioso debba essere tenuta sotto controllo. Dal canto loro le organizzazioni religiose musulmane denunciano che il clima che si sta creando è minato da xenofobia latente. Per Obama la questione è assai spinosa perchè deve mantenere un atteggiamento equilibrato, per non permettere la degenerazione razzista dell'opinione pubblica, ma allo stesso tempo deve mantenere il controllo su di una situazione che rischia di esplodere, aprendo un pericoloso fronte interno.

Riflessioni sulle energie alternative

Lo shock petrolifero per le rivolte arabe pone le economie in affanno, proprio mentre si manifestavano i primi timidi segnali di ripresa. L'ennesimo intoppo ad una economia mondiale in difficoltà è dovuto al problema energetico come causa scatenante ma in realtà la colpa è da ascrivere alla mancata pianificazione e programmazione dell'impiego delle energie alternative. Il mondo procede in ordine sparso sul tema e tattiche improvvisate non suppliscono al problema. Basta un blocco della Libia, che produce il 2 % del petrolio mondiale, per innescare un rialzo dei prezzi generalizzato che mette in seria difficoltà tutto il processo produttivo. L'indipendenza energetica, per molti paesi, non è materialmente possibile, tuttavia, abbassare la quota dell'uso del petrolio è dovuto, oltre che all'ambiente anche allo sviluppo economico. Per prima cosa manca una strategia comune che crei un network progettuale per ottimizzare e potenziare le risorse almeno entro quegli organismi sovranazionali, ove esistenti, come ad esempio l'Unione Europea. Esiste già una cultura ambientalista sviluppata, ed il problema ambientale rientra sempre di più nella sensibilità e nei programmi di governo, tuttavia lo sforzo economico per la promozione delle energie alternative e rinnovabili non consente quel passo avanti necessario per incidere sulla economia globale, cioè per avere un tornaconto monetizzabile nei bilanci dello stato. Le leggi sono spesso contrastanti e gli interessi in gioco non favoriscono appieno l'indirizzo energetico alternativo, ed anche le politiche aziendali puntano a rendimenti immediati e non di medio o lungo periodo, il dividendo azionario è preminente sul bene comune. Questo è dovuto all'assenza di politiche fiscali che permettano il raggiungimento di obiettivi a lunga distanza, perchè anche il bilancio statale è sempre più soggetto a ristrettezze economiche dovute a vincoli sempre più ferrei. Tutte queste ragioni non sono proprie solo di alcuni paesi ma si possono applicare alla quasi totalità delle nazioni, escludendo i soli grandi produttori petroliferi, tanto è vero che anche produttori petroliferi come l'Iran (1,9% di produzione del mondo) vogliono puntare sull'energia nucleare (affermando che è per usi pacifici). La presa d'atto della necessità dell'energia alternativa è ormai un dato di fatto resta la necessità di un coordinamento a livello sovranazionale che sia efficace e dia l'impulso necessario alla partenza di quello che sarà il business del futuro.