Politica Internazionale

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lunedì 12 settembre 2011

Israele: il corpo estraneo

L'isolamento di Israele è ormai cosa fatta, il paese è un corpo estraneo nella regione. Tutti i governi che si sono succeduti dalla creazione dello stato israeliano non sono stati in grado di integrare la nazione nel contesto formato dai paesi vicini, non hanno trovato, cioè, alcun modus vivendi, alcuna forma di collaborazione, che inquadrasse il paese all'interno dell'area geografica in cui si trova. Certo mai come ora la nazione soffre di una sindrome di quasi totale accerchiamento e di una penuria di simpatia nel consesso internazionale. Ma questo stato di cose è la somma di anni di politica estera sbagliata, di mancanza di capacità di previsioni azzeccate e sostanziale immobilismo su idee ormi fuori tempo. Non avere risolto il problema palestinese, ostinandosi ad attegiamenti impossibili da condividere, pone lo stato israeliano sempre più in una posizione di pericolo, se non per la propria sopravvivenza, per lo svolgimento normale della vita del suo popolo. La scarsa lungimiranza dei governanti di Tel Aviv, arroccati nelle loro posizioni, non ha saputo capire ed anticipare con gesti significativi, la primavera araba, ed ora, mancata l'occasione, navigano a vista senza alcun programma di lungo periodo. Non è possibile che uno stato che si dichiara l'unica democrazia del medio oriente, non abbia mai levato una voce contro gli oppressori degli stati vicini, per il solo fatto, che erano funzionali alla vita del loro stato. La mancanza di Israele è stata quella di privilegiare le proprie ragioni, senza parlare in nome dei diritti universali. Se questa tattica ha garantito, in maniera miope, diversi anni di tranquillità, ora la storia potrebbe presentare il conto. Riconoscere immediatamente lo stato palestinese, all'inizio della primavera araba, era il male minore, la tattica giusta per uscire dalla situazione pericolosa che si stava creando. Viceversa, piccoli interessi di bottega, come qualche chilometro di territorio, hanno impedito di cogliere questa occasione storica, sempre nel solco di una ottusità politica disarmante. Adesso Israele attende lo sviluppo degli eventi in un equilibrio instabile, seduto sulla polveriera che esso stesso si è creato. Non si vede attività, non si capiscono le intenzioni di un governo in difficoltà sia nel fronte interno, che in quello esterno, il paese sembra sospeso in una attesa sfibrante. Tel Aviv ha perso la Turchia, l'Egitto, tra poco potrebbe cadere anche Assad e non basta la piccola Grecia, oltre tutto alle prese con problemi più grandi di lei, a rimpiazzare gli alleati perduti. Difficile dire cosa potrà accadere, ma un Israele sempre più isolato, non potrà continuare nella politica perseguita fino ad ora, senza un cambio di rotta significativo le conseguenza per la stella di David potrebbero diventare veramente problematiche.

domenica 11 settembre 2011

La crisi, opportunità per la UE

L'Europa si sta spaccando sul debito delle nazioni del sud. L'avversione dimostrata dalla Germania è condivisa da altri stati del nord, che non intendono più contribuire al salvataggio, mediante l'acquisto di titoli pubblici di paesi a forte indebitamento, compiuti dalla BCE. La spaccatura è geografica, da una parte Italia, Spagna, Portogallo e Grecia dall'altra l'Europa del nord, con la Francia a metà. Il caso francese è singolare, l'attivismo di Sarkozy maschera a fatica le condizioni non buone dell'economia di Parigi, che non è ancora assimilabile a quelle del meridione del continente, ma che potenzialmente potrebbe diventarlo. Quali scenari si aprono? La gamma delle soluzioni è vasta: uscita dall'euro per i paesi più malconci, europa a due velocità (l'anticamera della dissoluzione europea) o fine della sovranità nazionale ed economia statale dei paesi in crisi messa sotto tutela dagli organismi centrali, che in parole povere vuole dire dirigismo tedesco sulle economie in difficoltà. Sempre che la Germania voglia continuare a restare nell'euro ed in Europa. Se la seconda ipotesi è difficile perchè Berlino ha necessità del mercato europeo, che di vedrebbe ridurre notevolmente in caso di uscita dalla UE, la prima ipotesi ha più possibilità di realizzarsi. Senza misure strutturali che riportino i valori economici e finanziari dell'intera UE entro numeri significativi, per la Germania significa un esborso consistente, che non permette alcun guadagno. La cancelliera Merkel sta subendo batoste elettorali consistenti che la obbligano, forzatemente, ad un cambio di passo che le permetta di recuperare il terreno perduto sul versante elettorale. I tedeschi stanno percependo l'Europa come una zavorra per il loro sviluppo, dimenticando peraltro di avere riversato sul continente i costi per la loro riunificazione, e vogliono mani più libere per la loro economia. Purtroppo hanno ragioni da vendere, la questione del debito è solo la parte più rilevante del problema. I paesi in crisi, infatti, non hanno maturato una condizione di flessibilità nella loro conduzione politica del cambiamento imposto dalla globalizzazione. Non si sono, cioè, attrezzati con strumenti adatti per ripensare le loro economie. Il caso italiano è emblematico, uno dei più grandi paesi industrializzati, ha saputo rispondere al cambiamento solo con delocalizzazioni della produzione, perdendo capacità e conoscenze, che hanno determinato il crollo industriale e manifatturiero. Questo per dire che il solo controllo del debito, non è condizione sufficiente per uscire dalla crisi. In questo senso ha più ragione di essere una centralizzazione delle decisioni in materia economica, che possano superare le incapacità locali. In presenza di persone capaci ed autorevoli, con regole certe e sicure, accentrare il processo decisionale non deve essere visto come una diminuzione della sovranità statale, ma come una opportunità per l'insieme del sistema. Se questo si concretizzasse la crisi avrebbe rappresentato una occasione di rafforzamento della UE ed un ulteriore passo avanti nel'unificazione.

sabato 10 settembre 2011

La Somalia banco di prova del potere internazionale

La situazione somala continua ad essere molto difficile. La carestia non è solo dovuta alla siccità, ma anzi, ora con l'arrivo degli aiuti al vuoto politico. Il governo in carica, pur tentando di salvaguardare la popolazione, non è dotato dei mezzi necessari per contenere le milizie islamiche, che, oltre ad avere sotto stretto controllo una parte del paese, operano anche incursioni nelle zone sotto il controllo del governo, assaltando i depositi con le scorte. Tutto il paese è nel caos, con vere e proprie invasioni di profughi che raggiungono gli agglomerati urbani in cerca di cibo. La risposta internazionale a questo problema è finora stata insufficiente, il solo invio di aiuti alimentari e medici non basta in una situazione dove la pace non esiste, ed anzi espone al pericolo il personale delle ONG, impegnato sul campo. Senza aiuti militari la Somalia non potrà uscire dalla crisi, nell'immediato significa sempre più vittime della carestia e delle violenze, nel futuro una massa sempre più grossa di disperati che premeranno alle porte dell'occidente. E' inspiegabile come l'ONU non sia andata aldilà di appelli senza decidere l'invio di una forza armata sotto la sua egida. I caschi blu rappresentano oramai l'unica soluzione possibile per fermare un ulteriore massacro annunciato; ed anche l'atteggiamento della NATO, pronta ad entrare velocemente in campo in Libia, si distingue per un silenzio assordante. Eppure sarebbe una occasione per legittimare agli occhi di tutti gli osservatori un ruolo di forza operante per la pace a trecentosessanta gradi; lo sforzo necessario non sarebbe poi così ingente. L'uso della forza aerea contro i ribelli li costringerebbe in poco tempo a lasciare parecchi metri di terreno e sfamare letteralmente un grande numero di persone; se l'epressione guerra umanitaria ha un significato concreto, mai come in questo caso sarebbe spiegato meglio. I paesi ricchi hanno il dovere morale di impegnarsi per fare cessare questa situazione e le organizzazioni internazionali per giustificare la loro stessa esistenza. Senza una soluzione certa e definitiva, che getti le basi anche per evitare altre situazioni analoghe, tutta l'impalcatura messa in piedi dal secondo dopoguerra ha definitivamente cessato ragione di esistere.

venerdì 9 settembre 2011

Si avvicina l'apertura dell'assemblea ONU

Il conto alla rovescia per la sessione di apertura dell'Assemblea della Nazioni Unite sta per scadere. Si entrerà così nel vivo del dibattito per il riconoscimento della Palestina. La tattica portata avanti da Abu Mazen si sta rivelando implacabile per Israele; i contatti allacciati dal capo dell'Autorità Nazionale Palestinese si sono fatti più serrati per trovare i riconoscimenti necessari in sede assembleare. Tale strategia si è resa necessaria dal veto che verrà messo sicuramente, come già annunciato, dagli Stati Uniti in sede di Consiglio di sicurezza. In questo caso la vittoria palestinese, più che reale avrà valore simbolico, ma si tratterà di un valore simbolico molto elevato, che costringerà ancora di più Tel Aviv nell'angolo dell'isolamento giuridico, economico e politico del consesso mondiale. Abu Mazen portando alle Nazioni Unite la discussione sul riconoscimento dello stato palestinese, spera con questa azione di mettere riparo ai numerosi fallimenti del processo di pace e di creare uno stato a tutti gli effetti per i palestinesi. Il contorno a questa richiesta saranno manifestazioni di massa, che, sebbene si annuncino pacifiche, sono molto temute, per la paura di degenerazioni che possano dare vita a scontri con Israele. Anche su queste paure si basano i tentativi di Washington e Tel Aviv per fare desistere Abu Mazen dai suoi propositi e rifarlo sedere al tavolo delle trattative. Cosa che probabilmente il capo dell'ANP farà dopo avere incassato il voto di maggioranza dell'assemblea dell'ONU, che gli permetterà di trattare da altre posizioni, sempre che Israele accetti ancora, dopo quella che sarà una bruciante sconfitta di sedersi al tavolo. In questi periodi Israele ha vissuto con fastidio l'iniziativa palestinese, patendo le manovre diplomatiche di Abu Mazen, che hanno riscosso molto successo in diversi paesi, che hanno promesso l'aiuto necessario presso l'ONU, ma per il momento tace in attesa delle decisioni ufficiali senza volere scoprire le proprie carte.

giovedì 8 settembre 2011

Obama deve affrontare il problema lavoro

Otto milioni di disoccupati degli Stati Uniti pesano sul futuro della rielezione di Obama. Il costo sociale della recessione è stato altissimo per gli USA, nonostante una presidenza non repubblicana, la risposta del governo democratico non è riuscita ad arginare l'emorragia di posti di lavoro, creando una situazione sociale decisamente pesante. Non era questo che gli elettori si aspettavano da un presidente democratico. Il tema è sempre più centrale nelle problematiche che affliggono il paese e rappresenta una ferita con il rapporto con gli elettori. Per mettere un riparo alla situazione, Barack Obama sta elaborando un piano da 300 miliardi di dollari per iniettare nell'economia americana la liquidità necessaria per abbattere la quota di disoccupazione. La soluzione dovrebbe riguardare il rilancio dell'occupazione tramite l'incremento dei lavori pubblici con la costruzione di infrastrutture, in modo da creare un volano economico capace di erodere il numero dei senza lavoro. L'ammontare della quota da investire sarà rastrellata con un mix di tagli di spesa e nuove tasse, tutavia, questo programma è contrario agli intendimenti dei repubblicani, che hanno la maggioranza al congresso e che pensano di stimolare l'economia abbassando la tassazione. Il rischio della ripetizione del duro confronto sul debito pubblico USA, rischia così di ripetersi. Per Obama è importante recuperare quote di popolarità, per riguadagnare posizioni dall'attuale 40%, il dato più basso da quando è stato eletto come Presidente degli USA. Per il paese le questioni internazionali sono passate in secondo piano, gli Stati Uniti sembrano ripiegati su se stessi a causa di una crisi economica che ha fatto crollare il castello di carte della finanza, mettendo la popolazione nell'incertezza ed a rischio la pace sociale. D'altronde queste erano anche le condizioni che hanno favorito l'ascesa di Obama, non avere risolto questi problemi mette in forte pericolo la sua rielezione, anche se la concorrenza, un partito repubblicano frammentato e diviso, alla fine, rappresenta un punto a favore del presidente in carica. Tuttavia senza elaborare un piano che avvii una soluzione del problema del lavoro, Obama è un candidato inattendibile, gli obiettivi raggiunti, sulla diminuzione delle truppe USA nel mondo, l'eliminazione di Bin Laden ed il nuovo atteggiamento di retroguardia scelto sul piano internazionale, non bastano, quando la centralità del problema è ormai diventato quello economico. Senza robuste soluzioni sul fronte interno, che ormai è il principale, Obama rischia la delegittimazione nel paese restando la sua una presidenza incompiuta.

mercoledì 7 settembre 2011

Il PIL cinese si contrae

Anche la Cina diventa vittima della crisi economica. Secondo stime ufficiali dell'amministrazione della Repubblica popolare cinese, il tasso di crescita per il prossimo anno, il 2012, dovrebbe andare sotto il 9%, il dato peggiore dal 2001. Questa tendenza ha già iniziato a manifestarsi nel secondo trimestre del 2011, con un PIL al 9,5%, con una lieve flessione rispetto al trimestre precedente, quando il dato registrato era del 9,7%. Le stime per l'ultimo trimestre vanno in questa direzione con un 9% di PIL previsto, mentre per il 2012 il dato previsto complessivo si attesta all' 8,3%.
Gli esperti imputano il calo del 2011 alla stretta monetaria con la quale il governo cinese sta tentando di combattere il fenomeno inflattivo che ha colpito il dragone; i minori investimenti compressi dalla limitazione dell'accesso al credito hanno determinato un calo della produzione che si è riflesso, inevitabilmente, sul dato della crescita. Ma per il 2012 il PIL cinese risentirà anche dell'indebolimento a livello mondiale della domanda dei beni e servizi. Questa causa, combinata con gli effetti, che potrebbero essere residui se il governo allenterà la stretta monetaria, determinati dalla lotta all'inflazione causerà una compressione del livello di crescita di una delle locomotive mondiali. Stando così le cose, Pechino potrebbe approfittare di questa evenienza negativa per abbassare ancora di più l'inflazione che l'affligge, ma che sopratutto potrebbe aggravare l'economia del paese. Una ancora maggiore stretta del credito compenserebbe la minore domanda e potrebbe così permettere al governo cinese la prevenzione di un fenomeno inflattivo più elevato e molto temuto. La questione è se una minore crescita consentirà la politica espansiva della Cina; va detto che nella attuale situazione mondiale un tasso di crescita come quello cinese rappresenta un valore di tutto rispetto, che può contenere gli effetti negativi della percentuale di PIL mancante, più difficile se la fase recessiva mondiale dovesse permanere: il volume di produzione invenduto potrebbe bloccare la catena produttiva, con gravi ripercussioni sulla struttura economica del paese, oltre che generare gravi problematiche di tipo sociale che andrebbero ad aggiungersi alla già difficile situazione sui diritti civili. E' possibile che la Cina, detentrice di gran parte del debito pubblico mondiale, provi a stimolare le altre economie, specialmente quelle più propense al consumo (gli USA ad esempio) con politiche monetarie ad hoc, ma questo sarebbe solo rinviare il problema. La realtà è che la Cina ha immesso troppe merci su di un mercato che in parte è saturo ed in parte non è più in grado di comprare, i soli mercati emergenti non bastano a smaltire una produzione gigantesca e la crisi dei paesi ricchi si abbatte su quelli come la Cina, basati su di un volume enorme di produzione. Per la Cina la strada sarebbe una maggiore specializzazione nei settori trainanti (ad esempio il lusso), ma il livello produttivo attuale non consente a Pechino un reimpiego immediato della parte necessaria dell'economia per mantenere il PIL in doppia cifra.

Il pericolo Gheddafi

Dove è Gheddafi? La domanda è fondamentale per il futuro della Libia, sopratutto quello immediato. Infatti il Colonnello ancora vivo e fuori dalla portata di un giusto processo è senz'altro un pericolo concreto per i nuovi assetti che il paese si vuole dare. Il momento di confusione cha la Libia sta attraversando a seguito della conclusione del conflitto, nonostante siano presenti ancora alcune zone dove i combattimenti continuano, rappresenta un grande motivo di vulnerabilità sia per l'autorità del CNT, cheper la stessa popolazione. In Libia è verosimile pensare che vi siano ancora seguaci del colonnello che possano essere manovrati dall'estero per attentati con scopi di destabilizzazione.
Instaurare un clima di tensione a seguito di atti violenti è una tattica già ampiamente provata in Iraq ed in Afghanistan, dopo il cambio di regime, tesa a gettare il paese in una situazione invivibile sopratutto per la popolazione. Attentati con kamikaze contro uffici pubblici e forze di polizia sono stati i metodi che hanno complicato la nascita delle nuove istituzioni ed hanno rallentato il processo di radicazione della democrazia e comunque dei nuovi ordinamenti.
Gettare la nazione nell'incertezza potrebbe riaprire le porte ad un rientro del colonnello in versione di normalizzatore. Se questa possibilità è remota, le risorse finanziarie comunque disponibili del colonnello, possono consentire diverse forme di pressione sulla nascente nazione libica. Occorre ricordare che le partecipazioni finanziarie mascherate da scatole cinesi in mano al rais possono condizionare, seppure indirettamente, le aziende libiche. L'incognita Gheddafi, quindi, continua a pesare sul futuro di Tripoli, anche in ragione del fatto che il dittatore avrà trovato rifugio in uno dei paesi africani lautamente finanziati in passato. Esistono, infatti, grandi crediti, a seguito di elargizione di denaro per appianare debiti, costruire infrastrutture o semplicemente per corrompere i governanti di turno, a favore di Gheddafi nei confronti di alcuni paesi africani, dove il rais può trovare rifugio, essere adeguatamente protetto e fare sentire di nuovo la sua voce. La scomparsa, concretizzata con la fuga, di Gheddafi, può essere anche fonte di apprensione per l'occidente ed in special modo le nazioni componenti l'alleanza dei volenterosi, che hanno contribuito al rovesciamento del regime. Nonostante lo spazio di manovra nei confronti di queste nazioni sia più limitato, non è da escludere la volontà di vendetta, per avere sostenuto il CNT. Anche contro questi paesi potrebbe essere applicata una strategia della tensione mediante attentati, anche clamorosi, per dare nuova visibilità alla figura del colonnello. Per tutte queste riflessioni, oltre alle colpe passate, è importante uno sforzo congiunto per assicurare Gheddafi alla Corte dell'Aja, dove, in aggiunta al giusto processo, deve essere avviata una disamina sugli anni di dittatura libica e sulle ragioni che ne hanno favorito una così lunga permanenza al potere, grazie, anche ai paesi occidentali, che hanno contribuito a cacciarlo.