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venerdì 13 aprile 2012

I comportamenti comuni dei dittatori e la necessità di anticiparli

Dalle ultime vicende emerge chiaramente come lo schema mentale dei dittatori si muova su binari comuni, con similitudini impressionanti. In genere fin dai primi episodi di ribellione la risposta scelta è fin da subito quella violenta, accompagnata con un silenzio sul fatto di cronaca. Se la repressione pubblica riesce, segue una fase di annientamento degli oppositori operata dalla polizia, più spesso segreta, con rapimenti che sfociano in utilizzo di mezzi coercitivi violenti, che spesso possono concludersi con la soppressione fisica del catturato. Se gli episodi di protesta si ripetono e riescono, come ormai la diffusione dei mezzi tecnologici permette con una certa facilità, a varcare i confini del paese, i media in mano alla dittatura si affannano a presentare le rivolte come atti terroristici tesi a destabilizzare la nazione, più spesso definiti come eseguiti su mandato di potenze straniere. La potenza di fuoco messa in campo per stroncare il dissenso è sproporzionata alla forza dell'avversario, che, a quel punto, deve sperare in un aiuto esterno, meglio se sotto la copertura delle Nazioni Unite. Così è stato per la Libia, ma il contrario sta avvenendo in Siria. Nella fase intermedia del processo di ribellione, che non parte mai in modo violento, ma sempre più spesso su impulso di uno svariato numero di persone, che sfidano il regime in luoghi pubblici, spesso eletti a simbolo della protesta stessa, come la famosa piazza del Cairo, il dittatore, se in difficoltà, non tanto per quanto riguarda la politica interna ma piuttosto per quella estera, inizia a fare promesse per guadagnare tempo, sperando che la situazione volga in suo favore. Spesso le altre nazioni, cadono nel tranello e concedono tempo prezioso alla riorganizzazione della repressione, con azioni parallele di politica estera che devono fare presa su possibili nazioni alleate, sempre per interessi particolari strategici, geopolitici o economici. A questo punto, di solito entrano in gioco le sanzioni, che provocano effetti immediati negativi sulla popolazione, andando ad aggravare situazioni già molto difficili. Per lo stato oggetto di sanzioni gli effetti entrano ad avere una qualche ripercussione non con tempistiche veloci, grazie a riserve accumulate, che permettono un certo margine di gestione della situazione. Sul lungo periodo, quando gli effetti delle sanzioni iniziano a produrre conseguenze anche per il regime, la tattica può diventare di inasprire ulteriormente la repressione o fingere concessioni, che in realtà servono ad accreditarsi ad una opinione pubblica internazionale, ma che non hanno alcuna ripercussione sui diritti rivendicati. Un aspetto comunemente rilevato è il ricorso ad individuare forze esterne, altre nazioni o organizzazioni terroristiche esistenti, ma che spesso non sono protagoniste dei disordini, come responsabili delle agitazioni che causano la repressione dei regimi. Ciò implica una volontà ben precisa di non accreditare un ruolo politico all'opposizione o alle opposizioni interne, perchè semplicemente all'interno delle dittature non deve essere riconosciuta la presenza di idee o comportamenti al di fuori degli schemi prestabiliti. Si dovrebbe così ottenere il duplice scopo di auto accreditarsi un consenso generale, che in effetti non è presente e nello stesso tempo, di non offrire la sponda al coinvolgimento di altri soggetti nella ribellione. Le nazioni democratiche che vogliono contribuire ad eliminare le dittature e che si trovano coinvolte nel teatro internazionale come soggetti attivi, insieme alle organizzazioni internazionali, spesso non tengono conto di questi schemi, ormai provati e così facendo non anticipano le mosse delle dittature, sopratutto in ragioni di interessi di stabilità, che al contrario vengono proprio intaccati da episodi repressivi. Il ruolo delle Nazioni Unite è ancora troppo bloccato da regolamenti troppo stringenti sull'autonomia di funzionamento, per cui le risposte fornite, quando ci sono, avvengono in modo tardivo. Il problema della violenza su popoli interi, oltre a generare naturali sentimenti di ribrezzo, deve essere anche visto in maniera tale da individuarne le possibili conseguenze in un mondo sempre più globalizzato e legato da sistemi di causa ed effetto che vanno a ripercuotersi nello normale svolgimento della vita di un qualsiasi stato democratico. Per tutti valga il triste esempio delle migrazioni dei popoli in fuga non solo dalla fame ma dalle guerre e dalle repressioni. Si è assistito, con la guerra libica, a movimenti ingenti di masse di rifugiati verso le coste europee, dove hanno trovato stati totalmente impreparati alla gestione del fenomeno. La migliore tattica dovrebbe essere una azione preventiva a livello politico, mediante aiuti ed assistenza, per favorire la transizione democratica pacifica che riguardi tutti quei regimi potenzialmente pericolosi per la stabilità mondiale. Non si tratta di un pensiero utopico, ma di un progetto a lungo termine che è un investimento per la pace e la stabilità mondiale, che può essere affrontato soltanto, come primo attore da una organizzazione internazionale.

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