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martedì 18 ottobre 2011

Sociologia della violenza di piazza nell'era delle crisi finanziarie

La grande impressione degli scontri di Roma segue i fatti di Atene, che si sono ripetuti più volte da questa primavera, ed anche quelli di Londra, dove alcuni dimostranti hanno sottoposto le città dove si effettuavano cortei di protesta, a distruzioni e saccheggi, con tattiche assimilabili ad organizzazioni militari. Fatta implicita la condanna di questo modus operandi, che va anche ad inficiare le ragioni dei dimostranti pacifici, occorre analizzare la portata del fenomeno. La presenza di un'area antagonista fortemente militarizzata e capace di dimostrazioni di forza è un fatto relativamente nuovo. L'avversione militare al potere costituito, dalla fine degli anni '60 fino agli anni '80 inoltrati, avveniva con movimenti e bande armate organizzate in rigide strutture burocratico militari, che praticavano la così detta lotta armata con obiettivi ben definiti sia singoli, nel caso della lotta armata di matrice di estrema sinistra (in particolar modo in Italia e Germania), che più ampi, fino ad essere ricompresi nella definizione di strage, nel caso della destra estrema, specialmente nel caso italiano. Una serie di fattori ha determinato la fine dei movimenti terroristici, sia di natura investigativo poliziesca, sia per le mutate condizioni sia sociali che internazionali, tra cui la caduta del muro di Berlino e le sue conseguenze è stata uno dei fattori maggiori. Ma la rabbia sociale è rimasta e la fine dei partiti tradizionali, con la progressiva affermazione del così detto partito leggero, ha costituito la mancanza di una diga capace di contenere e controllare, almeno in parte, il fenomeno. La progressiva affermazione di sempre maggiori differenze di reddito e di possibilità hanno creato un aumento della forbice della diseguaglianza, andando ad alimentare il numero delle persone, sopratutto giovani, senza rete di protezione sociale. La crisi economica ha fatto il resto: un'ondata di rabbia ha travolto questi movimenti che hanno visto come unico sfogo l'esercizio della violenza in un contesto pubblico, sia come modo di protesta, sia come affermazione estrema delle proprie rivendicazioni. Non sembra che con questi movimenti vi siano margini di trattativa, l'assunto che sembra caratterizzarli pare il "tanto peggio, tanto meglio", ed il rifiuto di ogni forma di dibattito canalizzato e regolato da norme solitamente accettate, non fa che confermare l'assoluto rifiuto per la società che combattono. Va detto che ai componenti iniziali dell'area antagonista: squatter, componenti dei centri sociali, che, all'inizio, pur essendo determinati e combattivi, non sommavano una grande quantità di elementi, si sono aggiunti progressivamente numeri consistenti provenienti da espulsi dal mondo del lavoro, appartenenti a territori su cui sono stati progettate infrastrutture non condivise dai residenti e genericamente vittime della situazione finanziaria. Ciò che contraddistingue l'azione violenta è il senso di profonda ingiustizia che costringe a caricare il peso di manovre finanziarie fatte da altri soggetti sulla collettività, rifiutando il modo di manifestare pacifico, perchè ritenuto inutile. La devastazione che prende di mira banche, agenzie interinali ed edifici governativi ha il chiaro scopo di rimarcare il rifiuto di una società in cui non riconoscersi. Un fatto nuovo è la internazionalità del movimento violento, che determina, oltre ad una condivisione comune delle idee, degli scopi e delle finalità, anche una intercambiabilità ed un mutuo sostegno degli stessi attori fisici che compiono le devastazioni: non è raro vedere scritte e striscioni in greco e spagnolo in Italia e viceversa, che dimostrano la presenza di elementi di altri stati nella nazione dove si svolgono le manifestazioni. Come ovviare a questo fenomeno? Se in una prima fase la prevenzione è il mezzo più efficace, sul lungo periodo non basta puntare sulla limitazione dei movimenti degli elementi ritenuti più pericolosi, ed anzi una soluzione del genere protratta nel tempo rischia di innescare fenomeni di emulazione che vanno soltanto ad aumentare le fila di questi movimenti. Scartando l'ipotesi più ovvia, che è quella di sistemare le storture del sistema economico finanziario mondiale, perchè la più difficile da percorrere, occorrerebbe mettere in campo una azione sociale capillare, capace da un lato di smussare le evidenti difficoltà pratiche della gran parte degli aderenti a questi movimenti e dall'altra canalizzare queste forme di associazionismo di ribellione in forme più costruttive di volontariato verso le stesse fasce sociali, come, in parte già avviene con le attività di molti centri sociali in tutta Europa.

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