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giovedì 24 gennaio 2013
La strategia inglese per uscire dalla UE
David Cameron, per mascherare i risultati insufficienti del suo governo rinforza il suo atteggiamento euroscettico, che, implicitamente, da le colpe alla UE, o meglio alle sue regole, della mancata realizzazione delle promesse elettorali del premier inglese. La decisione di indire un referendum sulla continuazione della partecipazione del Regno Unito all'Unione Europea, si colloca, quindi, in questo percorso, che ha anche la doppia valenza di cercare di intercettare il sempre più diffuso sentimento contrario all'Europa, presente nel popolo inglese. Il punto nevralgico, al di fuori delle questioni interne del Regno Unito, è però, che tale operazione rischia di portare maggiore divisione all'interno degli altri membri del consesso europeo. Non si può credere che ciò sia soltanto un caso: Cameron, per i suoi interessi di bottega, non esita a mettere a rischio i già precari equilibri di una unione sovranazionale alle prese con una gran quantità di temi da risolvere, senza, peraltro, avere a disposizione gli strumenti necessari. Solleticando gli altri membri che soffrono di scetticismo verso la UE, si può ragionevolmente pensare all'Ungheria o alla Polonia, o soltanto acuendo quelle differenze di visione, presenti nei membri più importanti e fedeli all'idea unitaria, come Francia e Germania, la strategia inglese punta a creare una situazione di caos ed incertezza, che possa permettere al governo inglese di guadagnare tempo per aspettare l'evoluzione della crisi economica ed il conseguente da farsi. L'ambiguità è il tratto caratteristico che da tempo contraddistingue l'azione inglese nei confronti della UE: sganciarsi dagli impegni più gravosi, mantenendo i migliori vantaggi dell'appartenenza ad una unione così vasta, ma mai come in questo periodo questo aspetto è stato esagerato nelle relazioni con Bruxelles. Per adesso Londra ha usato una politica sempre in equilibrio, tale da scontentare molti membri ma non spinta in modo tale da generare situazioni peggiori, tuttavia ora si ha l'impressione che la corda, troppo tirata, stia per spezzarsi. In Francia le speranze di tenere ancora ancorata alla piattaforma continentale l'isola britannica si scontrano, pur nella consapevolezza della necessità di mantenere lo spirito europeo nelle reciproche differenze, con il senso di fastidio per l'attesa delle concrete richieste inglesi, peraltro mai pronunciate. La Germania, viceversa, mostra un atteggiamento più pragmatico, mantenendo inalterata l'intenzione di procedere con il processo di unificazione senza aspettare le intenzioni del Regno Unito. Ma su questo aspetto rischia proprio di cadere la strategia di Cameron: il continuo ondeggiare dell'atteggiamento inglese, che minaccia il referendum, lasciando intendere la volontà di uscire dalla UE, senza presentare le sue richieste a Bruxelles, può creare la fine della pazienza del resto dell'Unione Europea. In realtà questo elenco di richieste non esiste concretamente ma è rappresentato dall'intenzione e probabilmente dalla necessità interna, di rinegoziare il trattato di Lisbona. Dal punto di vista legislativo, questo trattato può essere modificato in qualsiasi momento, a condizione che le modifiche siano approvate da tutte le capitali europee. Si capisce che una tale trattativa è troppo laboriosa, specialmente in un momento come quello attuale, dove la portata della crisi e le necessità politiche europee impongono scelte di veloce esecuzione (che comunque non sono garantite neanche col trattato di Lisbona); impegnare la UE in un tale sforzo significherebbe soltanto togliere energie per processi semplicemente più necessari. Non è possibile che Londra ignori queste esigenze è soltanto che, se venisse imboccata tale strada, le esigenze inglesi avrebbero tutto da guadagnare in un periodo di inevitabile immobilismo delle istituzioni europee. Infatti nessuno vuole riaffrontare quanto già deciso escluso il Regno Unito. La decisione negativa a questa richiesta inglese potrebbe però portare lo stesso ad un blocco dell'attività della UE, nel caso Londra non ne uscisse autonomamente e scegliendo una strada di ostruzionismo interno. Si tratta di una possibilità poco probabile, perchè il lavoro del membro più importate, la Germania e sostenuto dagli altri paesi principali, per cercare una unione maggiore, non potrebbe essere certamente vanificato dalle azion inglesi. A quel punto per Londra non ci sarebbe che l'uscita, per scelta o per esclusione, dall'Unione Europea ed il problema insorgente diventerebbero le relazioni tra Bruxelles e Londra. Alcuni hanno già pensato ad una forma di federazione morbida, che non permettesse un distacco traumatico tra le due parti, tuttavia, tale tipo di rapporto, la cui collocazione legislativa è tutta da pensare, dovrà essere vagliato sulla base del comportamento inglese. La reale intenzione di Cameron è quella di avere mani libere su aspetti che riguardano la finanza, principale fonte di guadagno del Regno Unito, se ciò potesse generare fonti di contrasto con la UE, quest'ultima dovrebbe assumere ritorsioni del caso, come arrivare ad imporre imposte più alte sulle operazioni finanziarie con l'Inghilterra. Si tratta soltanto di un esempio, che può fornire un possibile scenario futuro sui rapporti tra le due parti. D'altra parte, al momento attuale, una permanenza inglese dentro la UE è veramente difficile da pronosticare, i vincoli più stringenti sulla sovranità dei singoli stati saranno l'inevitabile sviluppo dell'avanzamento del processo di unificazione ed, a meno di una svolta totale nella direzione della politica e, sopratutto, dell'impostazione politica della Gran Bretagna, le strade tra Londra e Bruxelles sono destinate a dividersi.
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