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mercoledì 20 marzo 2013

Obama in Israele

Aldilà dei discorsi ufficiali, permeati di retorica, il primo viaggio di Obama in Israele non pare possa imprimere una direzione differente alla questione palestinese. Ad i discorsi scontati che richiamano la pace tra Israele ed i suoi vicini, non pare seguire una azione che possa esercitare una pressione sull'atteggiamento di Tel Aviv e del progetto sionista di espansione delle colonie. La dichiarazione dell'orgoglio di essere il più potente alleato del paese israeliano resta lettera morta, se Washington non mette in campo alcuna iniziativa per riportare Israele ai trattati già firmati. La posizione americana, in aperto contrasto con quanto sempre dichiarato, sembra essere ormai fare parte di una tattica voluta, che, in questa fase, mette da parte, in pratica, la questione palestinese, per affrontare con la massima intesa possibile con Tel Aviv, questioni contingenti ritenute più rilevanti. Si tratta della questione iraniana, dove gli USA devono usare tutti i mezzi in loro possesso per fare desistere Israele dalla via della forza, per abbracciare la via diplomatica e la questione siriana, per mantenere un osservatorio privilegiato dal quale, eventualmente, prendere iniziativa. Strumentale a queste esigenze geopolitiche, va letta la difesa del diritto di Israele ad esistere, enunciata in maniera così perentoria, che non rappresenta soltanto una continuità ideale con la politica estera degli USA, fin dal dopoguerra, ma che costituisce una vera e propria evoluzione dettata dall'esigenza di Washington, per vigilare sugli sviluppi politici che stanno avvenendo nel medioriente, ritenuto sempre centrale nella strategia complessiva della politica estera americana. Nonostante le profonde differenze, culturali, di vedute globali ed anche di matrice politica tra Obama e Netanyahu, i due, pur detestandosi caratterialmente, devono fare buon viso a cattivo gioco, avendo entrambi assoluta necessità l'uno dell'altro. Il presidente degli Stati Uniti, come è ben risaputo, preferirebbe una gestione totalmente diversa del problema palestinese, con l'ovvia conclusione dei due stati che si riconoscono reciprocamente e se la situazione internazionale fosse differente, non esiterebbe a calcare la mano per arrivare ad una soluzione definitiva, in modo da togliere al fondamentalismo islamico una ragione della sua stessa esistenza. Tuttavia il momento di forte instabilità obbliga Obama ad un realismo di cui, durante il primo mandato, non sembrava essere completamente dotato. Gli stessi israeliani se ne sono resi conto anche nella parte più progressista del paese, quella con cui ha maggiore affinità politica, riconoscendo che ad una prima fase, dove il presidente degli Stati Uniti era inquadrato come un idealista di sinistra, sta ora seguendo un personaggio più pragmatico, che riconosce l'esigenza della presenza di una nazione filoamericana in medioriente a cui occorre anche concedere cose su cui non si è d'accordo. Questa argomentazione spiega una volta per tutte l'atteggiamento sprezzante con cui Netanyahu affronta il problema delle colonie, in violazione di ogni logica; ciò gli è permesso dalla assoluta necessità americana della presenza stessa di Israele nel cuore del medioriente, come testa di ponte di Washington. In ragione di ciò si comprende il no statunitense all'ammissione della Palestina come osservatore alle Nazioni Unite e la freddezza più volte dimostrata agli appelli palestinesi recenti. Pare però curioso come questo potere di ricatto non venga affatto scalfito malgrado le potenzialità americane esistenti, che potrebbero imprimere indirizzi, almeno parzialmente differenti, alla politica israeliana.

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