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giovedì 9 maggio 2013

Le logiche dello sfruttamento del lavoro generano mostri insopportabile per le democrazie

I recenti gravi fatti avvenuti in Bangladesh, che hanno mostrato al mondo le condizioni disumane dei lavoratori del settore tessile, hanno portato in evidenza, grazie ad un vero e proprio massacro, una situazione ben conosciuta e risaputa, dai governi e dalle fabbriche occidentali, che con i loro marchi sfruttano questi lavoratori per incrementare profitti già molto alti. Dietro le etichette degli abiti, anche quelle delle case di moda più costose, c'è sempre più spesso una serie di storie di sfruttamento che rasenta lo schiavismo, persone rinchiuse per oltre dieci o dodici ore al giorno in locali insicuri ed asfittici, che prestano la loro manodopera, tutto ciò che hanno, per salari che non riescono a consentirgli una vita dignitosa. La mancanza della normale sicurezza sul lavoro, giunta alla totale assenza dei diritti, non solo sindacali, ma anche di quelli civili, favoriti da un contesto che va oltre l'antidemocrazia, perchè basato sullo sfruttamento puro, costituisce la normale situazione a cui si affidano ditte occidentali, mascherandosi dietro l'alibi della commessa in appalto. Dopo l'incidente del crollo del palazzo nel Bangladesh, in cui hanno trovato la morte centinaia di persone, le ditte occidentali hanno proclamato in coro la loro estraneità a qualunque collaborazione con i proprietari di quei laboratori, affermando, che, semmai, potevano esserci dei casi di produzione data in subappalto, di cui non erano chiaramente a conoscenza. L'indignazione degli acquirenti occidentali, poi è durata ben poco, permettendo alle ditte di stipulare nuovi contratti, senza garanzia per i lavoratori, che consentano di non interrompere la filiera della produzione e quindi del facile guadagno. Inutile ricordare che il basso costo del lavoro permette un ricavo esorbitante, di fronte a produzioni eseguite in paesi che hanno una legislazione sul lavoro che impone determinate condizioni, che non sono a costo zero. Tuttavia la maniera per sanzionare chi usa questa manodopera esiste ed è addirittura elementare: basterebbe alzare i dazi di importazione di qualunque merce prodotta senza le adeguate garanzie per i lavoratori. Ciò permetterebbe di aumentare le garanzie, ma anche le professionalità, di quei lavoratori dei paesi del terzo e quarto mondo, dove si addensano queste fabbriche lager e, nello stesso tempo, tutelare anche i lavoratori dei paesi dove questi marchi hanno sede, e grazie a questa territorialità alimentano il proprio mercato, che vedrebbero meno penalizzata la qualità del proprio lavoro. La realtà è che in istituzioni sovranazionali come l'Unione Europea e paesi di antica democrazia, come sono tutti quelli occidentali, esistono dei vuoti legislativi enormi in questo campo, quello delle merci prodotte all'estero, che sono in aperto contrasto con le leggi ed i principi che regolano queste nazioni. L'ipocrisia è il vero padrone della regolazione di questa materia, che resta volutamente non governata a favore della ricerca di un profitto smodato e senza controllo, perchè privo dei requisiti morali necessari. L'eccessivo liberismo di Regan e della Thatcher, ha generato molti mostri ed uno di questi è il guadagno senza scrupoli perchè permesso dall'assenza di vincoli legali, intesi, anzichè come salvaguardia, come inutili ostacoli agli introiti degli industriali. La globalizzazione selvaggia, discendente diretta del liberismo anni ottanta ha completato l'opera, aprendo al mercato della forza lavoro la possibilità di sfruttare masse di disperati, che sono stati ingannati con la promessa di affrancarsi dalla povertà endemica del lavoro agricolo; ma ciò non è stato, si è trattato soltanto di un passaggio da uno sfruttamento di tipo terriero ad uno di tipo industriale che, non soltanto non ha innalzato il livello della qualità della vita di queste persone, ma lo ha peggiorato esponendole a rischi che prima non correvano, senza, oltretutto, la giusta corresponsione. Spesso i fautori della globalizzazione presentano l'industrializzazione selvaggia come un gradino salito nella scala sociale da persone poverissime, in realtà questa lettura è una menzogna detta sapendo di mentire, è solo che il lavoro nelle fabbriche permette agli sfruttatori di guadagnare di più che continuando ad impiegare queste donne e uomini nel settore agrario. Se in Cina, e din parte anche in India, le masse dei lavoratori stanno iniziando a prendere coscienza dei diritti e delle tutele dovute all'interno dell'ambiente di lavoro, la macchina dello sfruttamento sposta la produzione in paesi dove la legislazione ed il bisogno consentono i guadagni sempre più elevati. Certo occorre un minimo di stabilità politica, per non mettere a rischio gli investimenti, ma con gli adeguati livelli di corruzione poi la strada è in discesa. Anche se, come succede in Cina, dove peraltro il fenomeno è all'inizio e vi sono ampie sacche dove le tutele non sono minimamente applicate, lo spazio di manovra per gli sfruttatori sembra ridursi, nella realtà esistono ancora ampie zone da colonizzare e da convertire all'industrializzazione di sfruttamento. Per queste poltiche non ci sono sanzioni, ne militari da inviare, eppure la portata sociale della violazione della democrazia è tranquillamente paragonabile alle dittature tanto spesso condannate dalle nazioni occidentali e fatte anche oggetto di interventi diretti, non solo diplomatici ma anche bellici. Se gli USA si ergono spesso a gendarmi del mondo, seguiti dalla UE, non si capisce come mai non intraprendano alcuna iniziativa contraria allo sfruttamento, che non vada aldilà delle mere dichiarazioni di facciata e lo stesso vale per l'ONU, che sta diventando sempre più inutile nelle forme attuali. Resta l'azione di poche organizzazioni di volontari che mettono l'accento sul valore assoluto della produzione etica, dei vestiti ma non solo, e che costituiscono, per ora, gli unici soggetti che tentano una sensibilizzazione da non sottovalutare neppure nei paesi ricchi, dove con la scusa della crisi economica si è proceduto al taglio di una fetta consistente dei diritti sul lavoro, faticosamente conquistati in anni di lotte e sacrifici.

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