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giovedì 11 luglio 2013

Cina: in calo le esportazioni

La diminuzione delle esportazioni cinesi è stata del meno 3,1%, dato di Giugno, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno . Si tratta del primo dato negativo dal gennaio 2012, un valore che intralcia le previsioni positive del governo cinese e che pone in difficoltà la tanto attesa ripresa mondiale. Insieme al calo delle esportazioni è stata registrata anche una diminuzione delle importazioni scese dello 0,7% confrontate a quelle del 2012. Il fenomeno della discesa delle esportazioni, in parte, è stato anche condizionato dal comportamento fraudolento delle false fatturazioni del periodo precedente, una pratica che è stata sanzionata pesantemente dal nuovo governo e che ha costretto gli esportatori a produrre un valore, che i funzionari delle dogane cinesi reputano più veritiero dell’immagine del commercio con l’estero. Tuttavia ciò non basta a giustificare la pesante diminuzione, che ha risentito della debolezza della domanda estera, causata dalla recessione mondiale, dell’apprezzamento del dollaro, che ha pesato sulla esportazione di materie prime, della forza valutaria dello yuan, che ha inciso sull’esportazione dei prodotti finiti e dall’aumento del costo del lavoro della Cina, che è ora costretta ad operare politiche di delocalizzazione della produzione in aree dove il mercato della manodopera ha costi più bassi. Il confronto con i dati previsti appare impietoso, gli economisti, infatti, avevano predetto un aumento delle esportazioni del 4% e delle importazioni, addirittura, dell’otto per cento. Lo scenario immaginato era, quindi, di un aumento della ricchezza del paese capace finalmente di stimolare un mercato interno non ancora sfruttato completamente e che, oltre a rappresentare un fattore di crescita globale dell’economia cinese, poteva significare un importante fattore di abbassamento delle tensioni sociali attraverso lo stimolo dei consumi. Questo obiettivo, fondamentale per il nuovo governo, non è stato raggiunto anche per il grande flusso di capitali che escono dal paese, senza contribuire a creare investimenti, lavoro e quindi ricchezza all’interno della Cina. Al nuovo esecutivo deve essere riconosciuta la volontà di accettare una crescita più lenta per effettuare la lotta alla disuguaglianza sociale ed alla corruzione, per favorire una politica graduale di maggiori diritti e garanzie sul lavoro; ma una diminuzione della crescita troppo alta, costringe l’esecutivo di Pechino ad affrontare i problemi legati alla tutela dei posti di lavoro, che costituisce il primo baluardo contro le tensioni sociali. Per fare ciò Pechino deve concentrarsi verso quelli che sono i mercati più redditizi per la produzione cinese: gli USA, dove le esportazioni sono calate del 5,4% e l’area dell’Unione Europea che ha ridotto le importazioni dalla Repubblica Popolare Cinese ben dell’otto virgola tre per cento. Questi valori dicono come la politica troppo espansiva ed invasiva della produzione cinese debba essere profondamente rivista in un contesto di contrazione economica, che verosimilmente, non permetterà per diverso tempo le performance di crescita a doppia cifra. Al nuovo governo cinese non basterà rivolgersi verso i nuovi mercati emergenti, non ancora in grado di compensare il gap creato dai paesi occidentali, ma dovrà pensare seriamente a sfruttare l’enorme mercato interno, questa volta in maniera convinta e decisa. La grande liquidità a disposizione può permettere allo stato cinese di sopportare livelli di crescita più bassi, pur realizzando una politica economica in grado di fare crescere in modo più uniforme il tessuto sociale del paese, razionalizzando così risorse preziose.

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