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martedì 2 luglio 2013

Le forze armate intervengono nella crisi egiziana

Dopo che l’esercito è entrato ufficialmente in campo nella difficile situazione egiziana e ben quattro membri del governo hanno presentato le loro dimissioni, l’isolamento politico ed istituzionale del presidente Mursi si fa sempre più evidente. Quello dell’esercito è stato un vero e proprio ultimatum al presidente egiziano, a cui sono state date quarantotto ore di tempo per soddisfare le richieste del popolo, un gentile eufemismo per portare Mursi alla decisione di dimettersi da un incarico che ha accontentato soltanto la parte più vicino ad una interpretazione religiosa della gestione dello stato. I timori dell’esercito per il progressivo aggravamento della situazione sociale della crisi politica, con il rischio di una escalation delle violenze in tutto il paese, apre alla ripetizione della soluzione seguita alla caduta di Mubarak, quando le forze armate presero il governo durante la transizione del paese, dalla caduta del dittatore, nel febbraio 2011 fino alla elezione di Mursi, avvenuta nel giugno 2012. Ancora una volta, quindi l’esercito egiziano si rivela il soggetto di maggiore equilibrio per garantire la pacificazione dello stato, in un rovesciamento degli schemi politici classici, dove i detentori del monopolio della forza di solito giocano un ruolo a favore delle dittature contro le volontà democratiche. La volontà delle forze armate è stata, invece, accolta con grida di giubilo dai manifestanti delle piazze, che vedono l’unica forza laica capace di una propria autonomia politica e di un potere consistente farsi garante degli interessi statali. Certo questa visione è di parte, perché contempla la contrarietà all’impostazione confessionale data da Mursi allo stato, per abbracciare una soluzione più laica, tuttavia, lo spirito iniziale della primavera egiziana pareva andare proprio in questo senso, che poteva essere rispettato, mediante la condivisione di una base comune fondata sull’affermazione dei diritti politici e civili, anche da una forza di matrice religiosa ancorché moderata. Il tradimento di Mursi agli occhi degli egiziani che in questi giorni scendono in piazza, mossi anche da un livore estremo contro il movimento dei Fratelli Musulmani, il vero responsabile di questo cambio di rotta, si fonda proprio su queste aspettative tradite in nome di una eccessiva impostazione religiosa, che male si sposa con gli intenti originari della protesta. Tuttavia l’atteggiamento di Mursi, almeno per ora è quello di rigettare quanto gli è stato chiesto sia dalle piazze, che dall’esercito, ritenendosi ancora il legittimo presidente della nazione ed esponendo così l’Egitto ad un avvenire immediato profondamente incerto, sia dal punto di vista dell’ordine pubblico, sia da quello economico, dove una situazione di caos non può che aggravare lo stato in cui versa la nazione, anche perché i dimostranti hanno pianificato, in caso di permanenza al potere dell’attuale presidente un piano di disobbedienza civile che rischia di bloccare letteralmente il paese. Nel brevissimo periodo i timori maggiori riguardano il rischio di un vero e proprio bagno di sangue che potrebbe nascere dal confronto violento tra i membri delle rispettive fazioni. A questo proposito si sono moltiplicati gli appelli affinché la situazione venga gestita con moderazione, soprattutto il presidente degli USA Obama ha invitato a gestire la situazione mediante il dialogo, mentre le Nazioni Unite hanno espresso profonda preoccupazione per i possibili sviluppi nella regione mediorientale che la crisi egiziana potrebbe portare.

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