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mercoledì 31 luglio 2013

Sempre alta la disoccupazione europea

I dati sulla disoccupazione europea continuano ad essere preoccupanti. All’interno dell’area euro il tasso è restato pressoché invariato, intorno al valore del 12,1 %, con una piccola diminuzione di 24.000 unità, rispetto al mese precedente. Malgrado questo piccolo miglioramento, che è di difficile interpretazione, a giugno il totale dei senza lavoro è stato di 19.260.000 persone, con un incremento su base annua di 1.129.000 disoccupati. Anche il dato dell’intera UE mostra segnali preoccupanti con un valore percentuale che si attesta al 10,9%, pari a 26.424.000 senza lavoro. All’interno di questi numeri si può leggere la preoccupante situazione giovanile, nella fascia di età al di sotto dei 25 anni, che fa registrare un allarmante 23,9% di disoccupati, con punte di 58,75 in Grecia e 56,1% in Spagna. Del resto questi due paesi rappresentano il dato complessivo più elevato dell’Unione Europea, con Madrid che è sul 26,3%, con una lieve diminuzione dello 0,1% rispetto al mese precedente ed Atene che presenta il 26,9%. La debolezza strutturale finanziaria dei paesi mediterranei continua ad incidere sull’andamento del mercato del lavoro, che mostra tutta la sua fragilità per mancanza di coordinamento sovranazionale. I governi dei paesi in crisi continuano a perseguire la sterile strada del rigore ad ogni costo, che ha il solo effetto di erodere le capacità di spesa delle famiglie, innescando il circolo negativo della caduta dei consumi. L’assenza di politiche espansive, di una espansione ben controllata all’interno di vincoli rigidi, sia chiaro, impedisce la creazione di lavoro in quantità tale da abbattere gli alti valori di disoccupazione. Mentre in Giappone e negli Stati Uniti si combatte il problema del lavoro con un vasto programma di opere pubbliche, destinate alla creazione di infrastrutture, che hanno il duplice compito di distribuire reddito e fare da volano per la ripresa economica, attraverso la diffusione capillare delle vie di comunicazione fisiche e virtuali, in Europa si resta fondamentalmente ancorati alle esigenze produttive e commerciali del paese principale: la Germania. Senza una distribuzione maggiormente paritaria delle risorse, che, soprattutto, tenga conto delle esigenze reali di ogni singolo paese, la situazione sociale dell’Europa meridionale è destinata, con l’arrivo dell’autunno, ad avere sviluppi preoccupanti. Se verranno varati ulteriori provvedimenti restrittivi le tensioni sociali non potranno che esplodere compromettendo gli sforzi, peraltro compiuti soltanto da una parte della società, fin qui imposti dai governi e che hanno colpito in gran parte lo l’impianto dello stato sociale. Resta preoccupante la miopia con cui le istituzioni centrali europee affrontano il problema, non recependo il concreto pericolo di dissoluzione che aleggia sull’organizzazione sovranazionale del vecchio continente. Spacciare per positivo un decremento di disoccupazione di sole 24.000 unità, su di una platea di oltre diciannove milioni, rende l’idea che chi sta nella stanza dei bottoni non abbia elaborato alcuna ricetta risolutiva. Eppure basterebbe vedere come altri hanno affrontato l’argomento, tuttavia siccome questa eventualità è scontata, resta l’ipotesi che gli eurocrati siano ostaggio della tendenza del rigore ad oltranza. Ma occorre che questi campione del rigore cambino idea anche per il loro tornaconto: con i paesi emergenti che vedono ridurre i loro tassi di crescita, anche la loro capacità di assorbimento delle merci viene ridotta ed il mercati pregiato, quello comunitario, deve quindi essere ancora più centrale nelle strategie di potenze economiche, come la Germania. Se Berlino non vuole vedere contrarsi la propria economia deve allentare la presa e permettere di allargare i cordoni della borsa, permettendo finanziamenti per politiche espansive che consentano, finalmente, in maniera esaustiva la riduzione dei non occupati. Altre soluzioni non ci sono: pena la crescita della disoccupazione anche nel nord europeo.

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