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mercoledì 30 ottobre 2013

La Cina deve affrontare il problema del terrorismo

Anche la Cina, nonostante i controlli capillari che le forze di polizia compiono al suo interno, deve affrontare episodi terroristici di grande impatto mediatico. Avere portato una autobomba con la presenza di kamikaze a bordo fin dentro al Piazza Rossa, il luogo simbolo della nazione e per questo il più sorvegliato, significa mettere in pratica la volontà di dare un risalto internazionale ad un gesto, che deve essere visto da tutto il mondo e che deve anche mettere in evidenza che la sicurezza cinese non è così inviolabile. Pechino, nella sua strategia di soffocamento della libertà, non ha puntato soltanto i dissidenti politici, ma sta usando pressioni di vario tipo e con modalità differenti, ma applicate in modo organico a quelle regioni, dove l’etnia locale non è rappresentata da quella dominante della Cina, l’etnia Han, generalmente più conforme al pensiero cinese. La necessità di reprimere ogni forma di dissenso basata su questioni nazionalistiche, che mettono in risalto una gamma molto varia di ragioni, che va dal rispetto delle tradizioni, fino ai sentimenti separatisti, ha obbligato i vari governi cinesi ad usare un mix di provvedimenti per ridurre al minimo le possibilità delle popolazioni e dei territori in rivolta. Alla repressione militare, fatta di incarcerazioni ed anche di condanne pesanti, tra le quali anche un uso accentuato della pena capitale, si è associata la facilitazione della immigrazione interna dell’etnia Han nelle zone più critiche, per diluire la concentrazione delle etnie differenti, che sono state oggetto, a loro volta anche di emigrazioni forzate. Sulla dispersione di queste realtà locali molto forti nei loro territori, si è basata la tattica di uniformare la popolazione cinese alle linee guida del partito. Insieme a questi provvedimenti si è colpito le tradizioni locali, vietando le manifestazioni religiose e la pratica di usi e costumi millenari, che hanno scatenato proteste spesso sfociate in atti violenti. Le aree di maggiore dissenso alla politica di Pechino per cause locali sono il Tibet e lo Xinjiang. Mentre nel primo caso la lotta politica, oltre alle manifestazioni pubbliche contro il dominio cinese, si è concretizzata con i tanti suicidi, non solo dei monaci buddisti, attraverso la pratica atroce del bruciarsi vivi, che ha consentito sempre un ritorno rilevante sugli organi di stampa, specialmente dell’occidente, nel caso dello Xinjiang, che è una regione dove la religione musulmana è prevalente, le proteste si attuano anche con atti violenti contro le istituzioni centrali. Nel primo caso le autorità cinesi sono alle prese più con gli effetti mediatici che producono la pressione occidentale, che nella prevenzione e nel combattimento di atti violenti contro i loro rappresentanti, in Tibet, cioè, conformemente ai dettami buddisti si predilige una lotta non violenta, capace comunque di creare seri problemi agli apparati centrali di Pechino. Nello Xinjiang vi è, invece, una lunga storia di atti terroristici, che hanno come fine il separatismo dalla Cina. La regione è abitata dall’etnia degli Uighuri, che sono musulmani convinti e parlano una lingua di derivazione turca. La Cina ha agito contro questa popolazione ricalcando lo schema solito, che prevede sia la repressione armata, che il diniego di praticare la loro religione, sono state vietate le preghiere in pubblico, atto molto grave per i credenti islamici, ed inoltre si è agito sugli usi delle comunità, come ad esempio, vietare alle donne di portare il velo. L’attivismo dello Xinjiang è fonte di preoccupazione per la Cina, che ritiene molto alta la presenza nella regione di quelli che sono definiti terroristi. Pechino ha inserito in alcuni accordi internazionali, recentemente sottoscritti, con India e Pakistan la collaborazione alla lotta al terrorismo, dove per terroristi intende proprio gli attivisti della popolazione Uighura, che lottano per l’indipendenza dello Xinjiang. Le modalità dell’attentato alla Piazza Rossa, quindi potrebbero richiamare proprio alle pratiche del terrorismo islamico, che è la pista ritenuta più probabile anche dagli inquirenti cinesi. Con questo innalzamento del livello dello scontro, che si è tentato di oscurare, chiudendo l’area e non facendo trapelare notizie, la Cina si trova davanti a delle questioni cruciali sulla possibile necessità di rivedere la propria strategia nelle modalità sul come affrontare le pulsioni indipendentiste, cui sono soggette le proprie regioni. Continuare ad insistere nella repressione pare, al momento, la scelta più sbagliata, così come sembra perdente la strategia del tentativo di uniformare queste zone, soffocandone le tradizioni. D’altra parte il regime non vuole trasmettere alla dissidenza politica un segnale di debolezza, come potrebbe essere interpretato un atteggiamento più morbido. Per le autorità di Pechino si tratta di un quesito di difficile risoluzione, che dovrà però implicare un uso più intenso dello strumento politico anziché di quello di polizia.

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