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giovedì 6 febbraio 2014
L'Arabia Saudita teme il contagio jihadista
L’Arabia Saudita teme il contagio dell’estremismo jihadista, che potrebbe arrivare dai combattenti sauditi volontari di ritorno in patria dalla guerra di Siria. Il monarca saudita, Re Abdullah, ha emanato un decreto che contempla la punizione da tre mesi fino a venti anni di prigione, per i cittadini del paese coinvolti in conflitti all’estero al di fuori delle istituzioni militari ufficiali. Risulta impossibile non pensare che il provvedimento è diretto proprio ai combattenti volontari, che prestano la loro opera nei gruppi estremisti impegnati in Siria. A Riyadh temono che l’influenza di questi combattenti di ritorno favorisca sentimenti contro il sistema di potere saudita e consenta al terrorismo di Al Qaeda di mettere in moto un processo di possibili attentati, come già avvenuto nel periodo compreso tra il 2003 ed il 2005, quando uno degli obiettivi dell’organizzazione terroristica era quello di rovesciare la famiglia regnante. Questo provvedimento va comunque inquadrato in una logica più ampia, che prevede di preservare il paese da ogni tipo di possibile dissidenza, sia quella violenta dei gruppi estremisti, sia quella di matrice più democratica, delle tanto temute primavere arabe. L’Arabia Saudita deve rimanere una nazione assolutista, dove non è previsto alcun tipo di opposizione alla linea governativa. Ma se questi ragionamenti sono di carattere interno, quello che stupisce è il comportamento di Riyadh sul piano internazionale, che è l’esatto opposto di quello praticato nel paese. Gli ingenti finanziamenti ai gruppi fondamentalisti sunniti che combattono in Siria, rappresentano, infatti, una tendenza contraria a quanto praticato in patria. La profonda discrasia mette in evidenza come sia profonda la differenza tra la ragion di stato e gli obiettivi di politica internazionale. L’esigenza di limitare il potere scita e di conseguenza l’Iran, per levare a Teheran l’importante base di Damasco, ha esposto l’Arabia Saudita a legami con i gruppi sunniti più estremisti, ma questo vale soltanto limitatamente alla situazione contingente; tuttavia questa condotta espone Riyadh a tutta una possibile serie di conseguenze, che il decreto emanato vuole iniziare a sanare. Ma non è detto che ciò basti a limitare nel futuro una qualche influenza dei sunniti integralisti anche sul piano interno: la propaganda dal vicino Qatar, che pur trovandosi su posizioni opposte, opera in tutta l’area del Golfo, potrebbe attecchire anche nel paese saudita, scavalcando il ferreo controllo istituzionale. Del resto l’Arabia Saudita non si è dimostrata già in passato totalmente immune da manifestazioni di protesta, soprattutto da parte delle minoranze, per il riconoscimento dei diritti. Lo scenario che potrebbe avverarsi, potrebbe essere una situazione di incrinatura della monolitica macchina amministrativa del regime, capace di creare alcune difficoltà al gruppo dirigente. Risulta però improbabile che ciò possa portare ad un qualche sovvertimento della monarchia, che nonostante alcuni contrasti interni, ha saldamente in mano il comando. Non si può non notare che la pratica di finanziare i gruppi confessionali più estremi, oltre ad essere in contrasto con la propria politica interna, rappresenta, proprio per questo, anche un elemento di confusione nella strategia di politica internazionale, che, oltretutto, allontana l’Arabia Saudita dal suo maggiore alleato: gli Stati Uniti.
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