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martedì 18 marzo 2014

Crimea: il fallimento del diritto internazionale

L’esito scontato del referendum della Crimea, rischia di diventare un pericoloso precedente per i rapporti diplomatici, il diritto internazionale ed anche per le questioni interne degli stati che hanno al loro interno minoranze etniche o linguistiche. Certo le caratteristiche della Crimea non sono facilmente replicabili, dato l’appoggio incondizionato di cui ha goduto, grazie all’intervento russo; tuttavia il tema è alquanto delicato perché comprende diverse variabili. Lo scenario di fondo è la disintegrazione non consentita dell’integrità territoriale di uno stato, che viene contrapposto al principio di autodeterminazione dei popoli. In questa vicenda è chiaro che l’Ucraina è la vittima, non nel suo corpo politico attuale, quanto nella sua integrità territoriale e nei modi con cui questa è stata lesa. Sarebbe stato molto differente se il parlamento di Kiev, anche tramite un eventuale accordo con Mosca, avesse autorizzato un referendum con il quale i cittadini della Crimea potevano scegliere se staccarsi dall’Ucraina e diventare stato autonomo o entrare a fare parte della Russia. Un referendum indetto con i tempi dovuti, con i rappresentanti dei rispettivi indirizzi che illustravano le loro posizioni, in un clima pacifico. In questo caso ci sarebbe stata la conciliazione tra diritto internazionale e diritto dell’autodeterminazione dei popoli. Ma una consultazione referendaria imposta dal gruppo etnico dominante, svolto in tempi ristretti e, soprattutto, con la presenza di militari non identificabili, seppure di chiara provenienza russa, assume un tono di illegalità, che non può giustificare il principio di autodeterminazione popolare a cui, i fautori della consultazione si sono richiamati. Putin ha quindi commesso due gravi illegalità: invadere uno stato straniero, senza dichiarazione di guerra ed organizzare una sorta di farsa, che ha avuto lo scopo di giustificare l’entrata sul suolo ucraino delle truppe russe. Questa particolare concatenazione di eventi, in realtà, non è nuova: il Cremlino ha ripetuto lo schema applicato alla Georgia, anche se la vicenda ucraina ha avuto maggiore risonanza per il coinvolgimento della UE. Appurato che la Russia ha infranto il diritto internazionale, la domanda è se si può fare qualcosa per sanare questa situazione ed evitare che simili episodi si ripetano. Sul primo punto la situazione appare irreversibile, anche per la debolezza delle risposte della comunità internazionale e della stessa ONU, dove il Consiglio di sicurezza è ostaggio di una parte in causa: la Russia, appunto. A prescindere dalle conseguenze sui rapporti internazionali, che potranno anche non essere inevitabili, perché condizionati dai troppi interessi economici in gioco, la necessità di una riforma del Consiglio di sicurezza dell’ONU trova ancora una volta una disperata necessità di cambiamento dell’impostazione. Del resto la mancanza di regole certe nel diritto internazionale è anch’essa confermata dall’evoluzione del caso Crimea, che determina una sempre diversa interpretazione del fatto circostanziato, in base alla forza degli attori coinvolti. Questo indirizzo conviene a tutti i maggiori soggetti statali internazionali, che vogliono, di volta in volta, avere mano libera nella gestione delle emergenze. Mai come ora tramontano i sogni di coloro che auspicavano una legislazione internazionale capace di gestire con le norme le crisi diplomatiche. La Crimea non ci riporta indietro, ma afferma soltanto, che la gestione di conflitti tra stati non è possibile se non con accordi circostanziati e validi solo per quel particolare caso, nella migliore delle ipotesi, o con conflitti che daranno sempre la vittoria al più forte. In questo panorama assume quindi maggiore valore, in ottica del risultato, la capacità di prevenire le crisi e la trattativa basata sui singoli fatti, che una legislazione usata soltanto per motivi di interesse specifico. Chi credeva che il mondo fosse pronto a regole sovranazionali condivise vede il fallimento di questa impostazione proprio per la mancata volontà degli stati di vedere invasa la propria esclusività, anche quando questa passa le frontiere.

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