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lunedì 21 luglio 2014
Per la Palestina è il momento di ricorrere agli organismi internazionali che tutelano i diritti civili
Quella che Israele sta conducendo nella striscia di Gaza è una azione in palese violazione delle norme di diritto internazionale, nella quale si prefigura il reato di genocidio. L’azione indiscriminata condotta contro le milizie di Hamas non è stata affatto selettiva, come il governo di Tel Aviv ha più volte annunciato, ma ha colpito ben più civili che appartenenti ai corpi militari dell’organizzazione che gestisce Gaza. La popolazione della striscia, oltre alle vittime deve subire la distruzione dei propri averi, lo sradicamento dalle proprie abitazioni ed attività lavorative, peraltro scarse per la politica di isolamento in cui Israele ha tenuto Gaza in tutti questi anni, ripercussioni permanenti sullo stato di salute futuro di chi avrà la fortuna di non essere colpito dagli ordigni intelligenti dell’esercito di Tel Aviv. Sono metodi che richiamano episodi molto tristi, accaduti circa settanta anni prima, che gli stessi israeliani dovrebbero rammentare molto bene e non infliggere ad altri. La giustificazione dell’autodifesa non sembra essere appropriata: la forte differenza di forze in campo non giustifica un tale accanimento, e proprio la parte più forte dovrebbe evitare di mostrare i muscoli in maniera così plateale e cercare un accordo degno di questo nome, anziché proporre continuamente soluzioni vantaggiose soltanto ad una parte. Alla base di questo stato di cose, nonostante le affermazioni israeliane, vi è una situazione di tensione creata ad arte da Tel Aviv, che ha rimandato continuamente, anche grazie all’inerzia americana, le trattative di pace, cui dovevano seguire quelle per la creazione dello stato palestinese. Il governo di Netanyahu è un esecutivo autoritario ma non autorevole, ostaggio di alchimie politiche, cui deve la sopravvivenza. Il vero nodo centrale è il rifiuto alla politica della costruzione indiscriminata degli insediamenti, che sottrae territorio ai palestinesi ed infrange gli accordi del 1967, considerati la base da cui partire per risolvere la questione palestinese. Senza una condotta leale su questo punto, mai tenuta da Tel Aviv, era inevitabile che i palestinesi rifiutassero ogni altra trattativa. Questo, però, ha creato una esasperazione difficilmente controllabile tra i palestinesi, che pare creata appositamente dagli israeliani, per poi giustificare le azioni di questi giorni. Anche se è inutile andare a cercare i primi responsabili di questa annosa situazione, sarebbe il caso che le potenze occidentali, ex colonialiste, si impegnassero in prima persona per porre fine a sofferenze che si verificano a poche ore di volo dal vecchio continente. Occorrerebbe mettere riparo alle violazioni che lo stato di Israele commette in nome della sua sopravvivenza, che in realtà è sottrazione alle legittime proprietà palestinesi, che hanno provocato lo spostamento (deportazione?) massiccio di grosse quantità di persone, con il conseguente isolamento, che ne ha provocato un impoverimento economico, portandole a livelli di pura sopravvivenza. Questi atti, pur essendo contrari al diritto internazionale, ai principi istituzionali delle Nazioni Unite ed anche alla Convenzione di Ginevra, non hanno mai prodotto adeguate risposte dalla comunità internazionale contro Tel Aviv, se non un sempre crescente isolamento politico, che non si è mai tradotto in azione preventiva per impedire le iniziative militari israeliane. Tuttavia nel 2012, con il giudizio contrario di Israele e Stati Uniti, la Palestina è stata ammessa, con il ruolo di paese osservatore, all’assemblea dell’ONU, grazie ad una maggioranza schiacciante tra gli stati membri. Se questo status giuridico non consente ai palestinesi il diritto di voto, permette l’adesione alle convenzioni internazionali che sono depositati presso l’ONU, tra cui vi è quella relativa alla salvaguardia dei diritti umani. Ciò permette di aprire contenziosi presso la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Fino a questo punto la condotta di Abu Mazen è stata prudente su questo argomento, non volendo esasperare l’uso di questi strumenti, tuttavia occorre dire che, alla luce degli sviluppi attuali, un ricorso preventivo, ad esempio sulle condizioni di vita imposte da Israele agli abitanti di Gaza o sulle costruzioni abusive degli insediamenti, avrebbe avuto il merito di concentrare maggiormente l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla condotta israeliana, andando a costituire un possibile argine preventivo. Abu Mazen ha agito in modo cauto per non compromettere le possibili trattative, ma questa tattica si è rivelata perdente, perché a Tel Aviv non solo non hanno apprezzato il gesto, ma ne hanno approfittato per agire in stato di impunità. Ora per i palestinesi è giunto il momento di agire presso gli organismi internazionali preposti a tutelare i diritti civili, solo con questa risposta potranno costringere Israele e cambiare le sue modalità di azione. Nello stesso tempo devono essere coinvolte tutte le organizzazioni internazionali, come la UE e la Lega Araba, per fermare le violenze israeliane, ma anche la sconsiderata azione di Hamas, che si ostina ad un lancio di missili inutile, che serve solo a Tel Aviv a giustificare la propria invasione. In questa ottica sarà essenziale per raggiungere risultati in tempi brevi, che devono essere concentrati per fermare la violenza a Gaza, quelle potenze regionali come l’Egitto e la Turchia che possono influire sul breve periodo, l’obiettivo di un cessate il fuoco generalizzato.
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