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domenica 3 agosto 2014
Criticare il governo israeliano non è antisemitismo
Non è facile trovare un equilibrio di fronte ai fatti di Gaza, ma quello che appare in modo netto è la indifferenza del governo israeliano di fronte alle sofferenza inflitte ai civili palestinesi da un esercito che ha messo in campo una differenza di forze esageratamente preponderante. Al netto di ogni considerazione di opportunità e di politica di Tel Aviv, è impossibile non criticare le violazioni dei diritti umanitari e civili da parte di quello che è, a tutti gli effetti, un governo democratico. Il punto è che la critica verso l’esecutivo di Israele, viene travisata con il razzismo antisemita dagli stessi componenti della società israeliana. Ma il confine non è così labile come si vuole fare credere: criticare un operato nettamente in contrasto con il diritto internazionale non ha nulla a che fare con il razzismo contro l’ebraismo e neppure contro il sionismo. L’assunto che Israele ha diritto di esistere è ormai un dato di fatto, non si vuole cancellare la nazione con la stella di David come bandiera, dal consesso internazionale, ma solo richiamarla al rispetto delle regole di quello stesso consesso di cui vuole fare parte. Questo ricatto psicologico è diventato anche politico, come si vede bene nell’immobilità della UE, che non si spende neppure nelle dichiarazioni di circostanza, contro i massacri di Gaza, proprio a causa del timore di incorrere negli strali antisemiti. L’Unione Europea non si è ancora affrancata dall’immagine degli stermini della seconda guerra mondiale e non osa criticare Israele per il timore che questi crimini le vengano di nuovo rinfacciati; però così facendo ne avalla altri e, soprattutto, non contribuisce alla ricerca della pace e dei conseguenti equilibri mondiali, restando nel suo immobilismo improduttivo. Occorre fare passare l’idea che le critiche ad Israele sono soltanto rivolte al suo governo e non a tutta la sua società, che include anche persone propense alla pace ed al dialogo e che sono contrarie ai massacri di questi giorni. Di questa situazione l’esecutivo di Tel Aviv è cosciente e ne approfitta costantemente, facendone diventare vero e proprio strumento preventivo contro qualsiasi critica avversa. La diplomazia occidentale e le stesse società devono superare questo spauracchio ed andare al cuore del problema quando le circostanze lo richiedono. Occorre, però, anche fare alcune valutazioni: il governo in carica è stato eletto democraticamente dalla maggioranza del popolo israeliano, non è dato di sapere se con nuove consultazioni potrebbe venire rieletto, ma pare che il consenso per le operazioni di terra nella Striscia di Gaza sia alto, nonostante la presenza di voci contrarie particolarmente motivate; tuttavia la sinistra israeliana, che è all’opposizione, non fa sentire molto la sua voce, temendo di perdere ulteriori consensi. Siamo di fronte ad una omologazione della società di Israele, ormai compatta nella volontà di annientare i palestinesi, o, piuttosto, si è davanti ad un tessuto sociale spaventato, più che dai missili di Hamas, dalla propaganda governativa, che rappresenta i massacri dei civili di Gaza come necessità di autodifesa? I sentimenti che suscitano le stragi dei palestinesi non sono di orrore negli israeliani? Mentre sul governo non vi possono essere scusanti, nei confronti della società è necessario concedere alcune attenuanti, proprio in ragione dei timori, delle pressioni e del senso di isolamento internazionale a cui il governo in carica li ha costretti. Dall’Europa la società israeliana appare ripiegata su se stessa, in preda a vecchi schemi, che non gli permettono di uscire da cliché consolidati, su cui fanno leva le tendenze più conservatrici, che hanno come obiettivo nel breve medio e medio periodo, quello di aumentare la superficie del territorio del paese e come obiettivo a lungo raggio l’eliminazione di tutti i palestinesi per appropriarsi dell’intera superficie contesa; questa è la soluzione estrema che viene condivisa da ampi settori che partecipano all’esecutivo, ma che contrasta con le più elementari ragioni della pace della regione, che va ad influire, inevitabilmente, sugli equilibri mondiali, in una visione a trecentosessanta gradi, necessaria alla risoluzione della questione. Questa visione è quella che dovrebbero inquadrare le grandi potenze e gli organismi internazionali e costituisce la base per muovere critiche costruttive all’operato del governo di Tel Aviv. I capisaldi dell’azione critica devono partire dal rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, senza i quali l’attuale classe dirigente israeliana non può essere ammessa nel consesso delle nazioni civili. Chi ha perpetrato i massacri deve essere giudicato e pagare le proprie colpe di fronte all’opinione pubblica mondiale e da questa azione deve ripartire il processo di pacificazione, ora invero molto compromesso, che deve sfociare nella ripresa del progetto dei due stati. Si comprende come per attivare questa azione deve cadere l’equazione che vede ogni critica verso gli organi del paese israeliano come una manifestazione di antisemitismo, anche in maniera unilaterale, se Tel Aviv continuerà a persistere in questa strategia: si tratta di una azione doverosa che deve obbligare Israele a sottostare ai principi elementari della convivenza civile.
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