Il timore di un contagio della minaccia jihadista provoca l’adozione di severe misure anti terrorismo all’interno dell’ordinamento dello stato degli Emirati Arabi Uniti. La possibilità dell’estensione fin dentro al paese della violenza degli estremisti radicali ha reso necessaria la promulgazione della legge sui crimini del terrorismo, che prevede una serie di pene molto severe che vanno dal giudizio capitale, al carcere duro ed a una serie di sanzioni pecuniarie molto elevate. Particolarmente innovativa è la norma che equipara l’atto terroristico pianificato o compiuto sia nel paese degli Emirati Arabi Uniti, che all’estero. Con questa legge si vuole proteggere sia le personalità statali che l’ordinamento stesso della nazione. La pena dell’ergastolo è prevista per il finanziamento del terrorismo, il sequestro, il traffico di esseri umani ed il riciclaggio, tutte attività che hanno favorito la crescita di organizzazioni come lo stato islamico dell’Iraq e del Levante, proprio il contesto che viene più temuto dalla classe dirigente del paese, che è uno dei pochi dell’area araba a non essere stato investito dalle proteste popolari partite con la primavera araba. La promulgazione di questa legge segnala la crescita di una sensibilità per l’argomento del terrorismo ed il timore di esserne investito. Nella penisola araba una disposizione normativa analoga era stata adottata anche dall’Arabia Saudita. In questo caso si è trattato quasi di una vera e propria ammissione di responsabilità, dopo che il paese arabo aveva finanziato i gruppi terroristi che operano in Siria e da cui è nato l’esercito del califfato. L’Arabia Saudita ha tuttora attivato un sistema difensivo con lo schieramento di un nutrito numero di militari lungo la propria frontiera. Si tratta di segnali concreti di come il fenomeno terrorista venga ormai percepito anche in zone che potevano sembrare immuni da questi pericoli e che temono per il loro stesso equilibrio. Di pari passo , infatti, sono state intensificate le azioni contro i gruppi interni vicini alla fratellanza musulmana, percepita come un potenziale pericolo per la capacità di fomentare gli animi. Le monarchie del Golfo hanno instaurato rapporti particolarmente stretti con il nuovo governo egiziano, visto come un baluardo contro l’invasione ultra religiosa. Questo ha determinato legami tra stati praticamente dittatoriali, replicando gli assetti presenti prima delle primavere arabe, che mantenevano gli equilibri politici con la forza. Resta significativo il fatto che queste alleanze siano benedette, seppure in modo discreto dagli USA, che riconosce ancora come funzionale ai propri interessi, ed anche a quelli occidentali, una limitazione della democrazia nel mondo arabo. D’altro canto, salvo poche eccezioni, la situazione non appare affatto migliorata ed anzi l’imposizione della sharia, applicata in maniera sempre più violenta ha peggiorato, se possibile, le condizioni della popolazione. Tuttavia il fatto che regimi profondamente confessionali siano entrati nell’ottica di temere un contagio di tipo estremista deve imporre una riflessione sul perché movimenti come lo stato islamico dell’Iraq e del Levante riscuotano così tanti consensi dalla popolazione civile, senza i quali, malgrado i notevoli mezzi a disposizione, non avrebbero ottenuto gli attuali risultati. L’idea del califfato come presupposto di supremazia religiosa è senz’altro uno strumento di forte consenso, così come l’ordine imposto riempiendo un vuoto di potere che andava dal territorio siriano a quello iracheno sunnita. Sono proprio queste le basi che fanno temere la sovversione dell’ordine negli stati della penisola arabica, in modo da farli risultare moderati ai nostri occhi di occidentali lontani, nonostante si tratti di stati dispotici e fortemente illiberali. Ma la possibilità che il contagio jihadista si allarghi in questi paesi risulta ancora peggiore della situazione attuale. Difficilmente la situazione evolverà in senso democratico, ma forse certi errori sul piano della strategia internazionale non saranno ripetuti.
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