Il fatto che il carnefice del giornalista americano sia molto probabilmente inglese ha focalizzato l’attenzione dei media di tutto il mondo sul problema che una percentuale consistente dei combattenti dell’esercito dello stato islamico dell’Iraq e del Levante sia di origine straniera. Il bacino territoriale di provenienza di questi integralisti risulta essere piuttosto ampio; infatti i reclutamenti avvengono grazie all’afflusso di europei, cinesi, cittadini dei paesi caucasici, oltre che dai paesi arabi, dove a prima vista, il fenomeno dovrebbe essere più naturale. In realtà i servizi di sicurezza dei paesi occidentali sono bene a conoscenza di questo segnale, che viene costantemente monitorato, anche per evitare l’apertura di eventuali fronti interni. Questo tema è sentito sempre di più nell’ottica del coinvolgimento dei paesi occidentali nell’azione di repressione e di contenimento della situazione irakena. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che ha sede a Londra, sarebbero ben 20.000 i combattenti stranieri in Siria, mentre nell’ultimo mese le reclute dell’esercito integralista sarebbero state ben 6.000, con una percentuale di stranieri di uno su sei. Su questi numeri, non sono solo i paesi occidentali a doversi interrogare, ma anche la Cina, coinvolta nella repressione dei territori a maggioranza musulmana e la Russia, da anni alle prese con il terrorismo ceceno, da cui provengono diversi combattenti impegnati in Siria ed in Iraq sotto le bandiere nere dell’esercito del califfato. In Europa il maggiore afflusso nelle fila degli integralisti proviene da Regno Unito, Svezia e Francia. Si tratta di paesi a forte immigrazione musulmana dove si è registrato un proselitismo notevole e che rappresenta un terreno di coltura importante per il reclutamento dei terroristi. I paesi da cui provengono questi flussi sono davanti a tre problemi emergenti: il primo è come contrastare questo movimento in uscita degli aspiranti combattenti, il secondo è come controllare coloro che rientrano in patria ed il terzo, profondamente connesso con il secondo, è prevenire qualsiasi atto terroristico proveniente da questa area. Si ritiene, infatti, che i superstiti che ritornano nel paese di origine siano maggiormente determinati a compiere attentati nel nome dell’integralismo. Combattere in questo campo non è però spesso agevole, per la mancanza di una legislazione al passo con l’insorgenza, sempre più veloce, di questi fenomeni e per non varcare il confine, spesso molto sottile, del rispetto dei diritti soggettivi. Tuttavia appare necessario uno sforzo comune, a livello sovranazionale, per elaborare strategie efficaci. Al contrario, su questo aspetto i rapporti di contrasto tra gli stati, rappresentano ancora un ostacolo alla necessaria collaborazione ed ogni nazione opera ancora troppo in maniera singola per contrastare queste minacce.
Un altro aspetto riguarda come l’esposizione al pericolo dei paesi toccati da questo fenomeno stia salendo in maniera esponenziale di pari passo con il coinvolgimento in azioni di contrasto al califfato e, tuttavia, proprio per non alimentare questa spirale, sia impossibile non intervenire. Questo fattore del reclutamento estero dei combattenti, trasforma sempre più l’aspetto del pericolo del terrorismo musulmano in un fattore globale, che coinvolge stati con sistemi di governo profondamente differenti e di diversa appartenenza territoriale, con società distanti per modi di vita e con redditi diversi. Si impone così una attenzione mondiale al contrasto di questo tipo di terrorismo, che si segnala per una organizzazione di livello così alto da potersi definire inedita nella storia. Questa peculiarità non può non investire le relazioni diplomatiche con quegli stati che in maniera strumentale hanno permesso, con i loro finanziamenti, di raggiungere l’attuale grado di sviluppo. Può risultare determinante coinvolgere queste nazioni sulle tematiche del controllo delle frontiere e dei transiti per lo sviluppo di un database mondiale, che registri i traffici anomali in zone di guerra; ma per fare ciò occorre superare grandi diffidenze reciproche, che hanno contribuito, anch’esse, allo sviluppo del terrorismo religioso.
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