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venerdì 5 settembre 2014

La posizione di attesa dell'Alleanza Atlantica sulla lotta contro il califfato

La riunione dell’Alleanza Atlantica in Galles, ha evidenziato la posizione dell’organizzazione sulla lotta al califfato. Per chi attendeva una un punto di vista univoco il pronunciamento del Segretario generale Rasmussen è stata una delusione. L’Alleanza Atlantica deve essere impegnata in una sorta di equilibrismo politico, che tenga conto di tre forze, in qualche modo tra loro contrastanti. L’affermazione che l’Alleanza Atlantica non ha ancora ricevuto alcuna richiesta di impegno in prima persona, per la vicenda irakena, serve a placare le tensioni tra i propri membri. Non è un mistero, che, Gran Bretagna a parte, i membri europei sono restii ad un impegno diretto, ma preferiscono soluzioni alternative, come la fornitura di armi e di materiale vario alle forze già in campo; questo non basta più però ad Obama, che oltre all’appoggio politico e logistico, richiede un impegno più diretto nel conflitto, in modo da non avere soltanto sugli USA la responsabilità e l’onere di contrastare le forze del califfato. Il presidente USA deve fare i conti con una opposizione interna,proveniente più che altro dal suo partito, che si dimostra sempre più fredda al ruolo di polizia mondiale, più volte rinfacciato agli Stati Uniti. Gli USA, però, sono anche i maggiori azionisti dell’Alleanza Atlantica, il soggetto più importante, e la loro opinione può risultare fondamentale nel coinvolgimento dell’organizzazione in un impegno diretto sia in Iraq, che in Siria. A livello ufficiale l’Alleanza Atlantica, proprio in ragione del mancato coinvolgimento diretto, si dice favorevole alle iniziative dei singoli stati per contrastare l’azione del califfato; si tratta di una posizione che indica chiaramente quale è la direzione che l’alleanza intende prendere, quando si saranno concretizzate le opportune condizioni politiche. D’altro canto la minaccia dello stato islamico è tale da obbligare, non solo l’Alleanza Atlantica, ma tutta la comunità internazionale ad intraprendere una efficace azione di contrasto contro il califfato, per l’evidente minaccia che rappresenta. Per ora, l’alleato maggiore di Obama è stato il leader inglese Cameron, che ha esortato i membri dell’alleanza a rompere gli indugi e partecipare ad una azione militare congiunta in Siria ed in Iraq. Potrebbe essere utilizzato lo strumento dell’addestramento delle forze militari irakene in maniera estesa, per giustificare a livello internazionale un intervento diretto, anche dietro esplicita richiesta delle autorità di Bagdad. Occorre considerare che la capacità di risposta bellica delle forze regolari irakene è attualmente molto ridotta e gli stessi combattenti curdi non avrebbero ottenuto i recenti successi senza l’appoggio dell’aviazione militare americana. Resta da vincere la naturale ritrosia dei partner europei, anche per la concomitanza della crisi ucraina, che ha maggiormente coinvolto, per la sua vicinanza fisica, i governi dei membri dell’alleanza del vecchio continente. La paura di entrare in una spirale dalla quale sarà difficile uscire in tempi brevi condiziona le decisioni degli alleati europei, in un momento che,al contrario necessita di decisioni rapide. Sullo sfondo rimane la minaccia del califfato, non soltanto circoscritta alle zone di combattimento, ma, in maniera più ampia, in una ottica di possibile proselitismo tra le masse sunnite presenti nel mondo, e quindi in Europa, come possibile obiettivo in virtù di una sempre minore integrazione nelle società occidentali, sfavorita, oltre che da fattori culturali, anche dalla congiuntura economica fortemente negativa e quindi capace di polarizzare ed estremizzare i conflitti dei singoli tessuti sociali.

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