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lunedì 13 ottobre 2014
Kobani: l'atteggiamento ambiguo della Turchia
La tattica passiva della Turchia di fronte all’avanzata dello stato islamico, soprattutto nelle zone curde, si è incrinata sotto la pressione americana e per la concreta possibilità di compromettere il processo di pace con il Partito Curdo dei Lavoratori. Le violente proteste accadute nel paese turco, da parte dei curdi, contro la decisione del governo di Ankara di assistere senza interferire alla conquista di Kobani, hanno gravemente compromesso la già non ottima immagine internazionale della Turchia. Ankara, preoccupata, dalla possibilità, che si verifichi sulle sue frontiere la replica dell’autonomia di cui i curdi godono in Iraq, ha deciso di non intervenire con i suoi uomini e mezzi militari, per difendere la città di Kobani, abitata prevalentemente da cittadini di etnia curda e non ha permesso neppure che i curdi della Turchia passassero la sua frontiera per affiancarsi ai combattenti, che stanno difendendo strenuamente Kobani. Il governo di Erdogan, che si è già reso responsabile, al contrario, del passaggio di combattenti integralisti attraverso la frontiera turca, che sono andati ad ingrossare le fila dell’esercito del califfato, per soddisfare il proprio calcolo politico di contribuire ad abbattere il regime di Assad, considera ancora più pericolosi i curdi, che lo stato islamico direttamente sul proprio confine. Si tratta di una visione miope, che ritiene di potere controllare il califfato. L’adesione di Ankara all’alleanza contro lo stato islamico non è stata delle più convinte, fin dall’inizio e malgrado l’approvazione da parte del parlamento per un intervento militare in territorio siriano, le forze armate della Turchia, sono ancora ferme ad osservare l’attacco di Kobani. La proposta di Ankara era quella di creare una zona cuscinetto, tra il suo territorio e quello siriano, unita ad una zona di non volo, per creare un’area dove sarebbe stato possibile tenere distante le forze del califfato. Questa ipotesi è stata però bocciata da Washington perché richiede un periodo troppo lungo per essere messa in pratica ed espone a troppi rischi il personale militare. In effetti le ragioni addotte dagli USA non sono irragionevoli ed indicano come la strategia della Turchia sia stata proposta quasi per essere respinta e di conseguenza per lasciare tutto come è ed abbandonare Kobani al suo destino. Nella visione turca si cerca di raggiungere due obiettivi contemporaneamente: il primo è indebolire le forze curde, in modo che non possano nuocere in alcun modo alla stabilità della Turchia, il secondo abbattere il regime di Damasco per favorire l’insediamento di un governo con indirizzo islamico moderato, sul tipo di quello di Ankara e magari legato strettamente al paese turco. In questa ottica il califfato viene interpretato come un sintomo del malessere presente nella regione, una sorta di risposta in chiave religiosa allo scontento popolare dovuto alla presenza di regimi autoritari, la Siria, o che favoriscono particolari parti di un paese, come gli sciti in Iraq. La Casa Bianca ha però una lettura differente, che non collima con quella turca: per gli USA il successo dello stato islamico è dovuto ad errate valutazioni di stati della regione, come la stessa Turchia, ma anche le monarchie del Golfo, che hanno favorito con i loro finanziamenti gruppi minoritari, ma particolarmente agguerriti ed espressione dei sunniti più integralisti, da cui è nato il califfato, per rovesciare Assad e togliere la Siria dall’area di influenza dell’Iran. Questa ipotesi è tanto vera che, attualmente, gli Stati Uniti tra Stato islamico e regime di Damasco, considerano il primo una minaccia concreta per l’occidente, mentre il secondo resta una dittatura pericolosa nell’ambito regionale, ma che non rappresenta un pericolo diretto per gli interessi di Washington e dei suoi alleati più stretti. Da un punto di vista occidentale questa interpretazione è ineccepibile: di fronte allo sconquasso portato dello stato islamico, tra l’altro in così poco tempo, Assad resta una minaccia di secondo piano. Si tratta, però, di due visioni alternative ed in aperto contrasto, tanto da essere opposte, presenti nella stessa parte del campo di battaglia. L’apertura delle basi turche agli aerei militari della coalizione non basta ad attenuare il sospetto che Ankara sia, in questo caso, un alleato inaffidabile, in più per gli USA c’è la complicazione delle pressioni curde, che sono sempre stati, fin dalla guerra contro Saddam, un alleato sicuro e rappresentano, nella battaglia con lo stato islamico, le uniche forze sul terreno, rivestendo, quindi, un ruolo di fondamentale importanza nel quadro tattico. Washington deve trovare al più presto una soluzione, senza scartare di venire a patti con Mosca e Pechino per favorire una decisione comune nella sede del Consiglio di sicurezza. Un accordo con Mosca non potrebbe però evitare la salvezza per Assad.
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