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mercoledì 1 ottobre 2014

Una repressione ad Hong Kong può portare rischi finanziari per la Cina

Oltre la questione dei diritti politici e civili, ad Hong Kong, per la Cina, vi è la questione, altrettanto importante della finanza e delle eventuali ripercussioni di una repressione di tipo poliziesco. La regione speciale è il maggiore centro finanziario cinese, una parte consistente dell’economia di Pechino, che si integra  senza soluzione di continuità con la grande capacità produttiva del paese. La capacità di attirare investimenti stranieri di Hong Kong costituisce un punto fondamentale per il sistema economico di Pechino, anche grazie alla libertà di circolazione dei capitali che si integra con l’operatività nella valuta cinese. Dopo Tokyo, la borsa di Hong Kong è la seconda del continente asiatico e la sesta nel mondo, con questi dati si comprende come gli avvenimenti politici siano visti con timore dagli investitori mondiali, che temono un contraccolpo significativo sugli indici. Per la contrazione dell’indice di Hong Kong è stato, tutto sommato, contenuto, avendo avuto una riduzione dell’1,9%, ben poca cosa come risposta di fronte alle proteste che scuotono l’ex colonia britannica, avvenimenti che potevano avere ripercussioni più pesanti  in altre zone del pianeta.  Tuttavia i timori di una azione più decisa di Pechino agitano gli operatori di borsa, che nutrono la concreta paura di una messa in discussione generale della stato di zona franca, di cui gode Hong Kong, da cui potrebbe discendere un contagio finanziario in grado di mettere in difficoltà la seconda economia mondiale. Su queste basi l’azione repressiva della Cina potrebbe essere attenuata, più per la paura di una crisi economico finanziaria, che per ragioni di opportunità politica. Resta il fatto che una panoramica dove l’ex colonia britannica fosse sottoposta ad una repressione dura, del tipo di quelle che Pechino usa abitualmente per sedare i disordini interni,  metterebbe in forte crisi lo status di cui gode Hong Kong, determinando una vera e propria fuga delle istituzioni finanziarie presenti, costrette dalle mutate condizioni politiche a cambiare le loro sedi operative. Secondo gli analisti la direzione sarebbe quella di andare verso Singapore, per ricreare le condizioni perse ad Hong Kong.  Questa eventualità potrebbe comprimere anche la grande quota di mercato interno che la ex colonia britannica assorbe di merci cinesi , pari all’11%. Si tratta di una quota considerevole per una nazione alle prese con il problema  annoso di incrementare il mercato interno, giudicato ormai una parte fondamentale del prodotto interno lordo del paese. Inoltre lo stretto legame dal punto di vista finanziario tra Hong Kong e la Cina non può subire cali per il grande credito che le istituzioni finanziarie dell’ex colonia hanno impegnato nelle imprese pubbliche di Pechino; è un dato troppo rilevante per non essere considerato nella valutazione del Partito Comunista Cinese nei modi e nei tempi sul come affrontare il problema della libertà politica di Hong Kong. Se la reazione sarà pragmatica, cioè si vorrà tenere un atteggiamento morbido con le richieste dei dimostranti, si salveranno dalla possibile bancarotta industrie di stato e si potrà mantenere un ruolo di preminenza nella finanza mondiale, ma ciò potrà significare un allargamento delle rivendicazioni politiche nel paese, viceversa, una normalizzazione sul tema del pluralismo politico, tanto inviso alla nomenclatura cinese, non potrà avere che un prezzo molto elevato, anche per una nazione che può disporre di una grande liquidità come la Cina.

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