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giovedì 6 novembre 2014

USA, dopo le elezioni, parte la strada verso le presidenziali

Archiviate le elezioni di medio termine, per gli USA si apre la lunga strada delle presidenziali del 2016, fatta di campagne elettorali per le primarie nei rispettivi schieramenti. Nel campo dei democratici dovrebbero esserci poche sorprese: Hillary Clinton dovrebbe essere la candidata. Non pare possa essere insidiata da Elizabeth Warren, paladina della lotta contro il potere della finanza e delle banche, che ha, però, costretto la Clinton ad un atteggiamento diverso su questi temi, ancora prima dell’inizio della competizione per le primarie. Tuttavia se il momento è maturo per una donna come presidente degli Stati Uniti, l’esperienza della Clinton non pare avere rivali. Ben diversa la situazione nel partito repubblicano, che si trova diviso e frammentato, nonostante la recente vittoria elettorale. Una cosa sono elezioni legislative, che consentono di coagulare i voti del partito attorno al simbolo ed alla bandiera, un’altra è trovare una sintesi su di un candidato capace di rappresentare istanze spesso troppo diverse per essere in un unico partito. La componente del Tea party, fortemente contraria ad uno stato federale con poteri sempre più concentrati in materia di economia e sicurezza, sembra avere trovato il suo rappresentante in Rand Paul, figlio del senatore Ron Paul, di chiaro indirizzo liberista e populista. La destra estrema del partito vede nel governatore del Texas, Ted Cruz il suo candidato, mentre altri possibili candidati sono Marco Rubio, Chris Christie e, soprattutto, Jeb Bush, figlio e fratello minore dei due presidenti Bush. Questa incertezza testimonia come nel partito repubblicano manchi una sorta di linea comune, capace di attrarre i consensi, uno dei fattori determinati che hanno consentito ad Obama di vincere abbastanza agevolmente le ultime due lezioni presidenziali. Certo la caratteristica politica dei due maggiori partiti americani è quella di essere dei contenitori di tendenze spesso in contrasto tra loro, ma il partito repubblicano sembra essere condizionato troppo dalla polarizzazione delle idee al suo interno, che non consente di trovare un candidato unitario in maniera agevole. I liberisti si scontrano con gli statalisti, i fautori della chiusura delle frontiere con chi vuole rendere più facile l’ingresso nel paese, soprattutto per motivi economici ed in politica estera i piani di scontro si articolano su più livelli: chi vuole di nuovo l’egemonia internazionale degli USA, chi è per un ruolo meno preminente, chi, addirittura, è favorevole a tendenze isolazioniste, che pongano  il paese fuori dalle contese internazionali. In questo contesto l’influenza dei vecchi responsabili del partito, certamente con idee liberiste ma con un forte senso dello stato, si è affievolita in favore di una maggiore importanza dei temi locali e populisti portati avanti dalla corrente del Tea Party. Anche negli USA, quindi, soprattutto negli stati da sempre definiti come l’America profonda, si sono accentuati quegli interessi che rappresentano le comunità locali di fronte a quella che è ritenuta l’invadenza dello stato federale, visto come una presenza sempre più invadente. Si tratta di un fenomeno analogo a quanto accade in Europa dove i partiti populisti e regionali riscuotono sempre più successo in ragione dell’inefficienza e di quella che è ritenuta una intromissione da parte dell’istituzione europea, così come dai poteri centrali dei singoli stati.  Questa particolarità del partito repubblicano rischia di essere poco attrattiva per gli stati più moderni e per le grandi metropoli, dove queste istanze vengono sentite in maniera minore. Un grosso rischio per gli Stati Uniti è che si profili all’orizzonte un duello Clinton contro Bush, che rileva ancora la presenza ingombrante delle dinastie al potere nel paese che si definisce la meritocrazia per eccellenza. Verrebbe a presentarsi un brutto segnale che evidenzia la mancanza di rinnovamento nel paese delle grandi possibilità per tutti.

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