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mercoledì 3 dicembre 2014
Israele verso le elezioni
Il dibattito intorno all’introduzione della definizione di Israele come Stato della nazione ebraica, con il conseguente cambio della legge fondamentale del paese, ha provocato la caduta del governo in carica, proprio per la decisione del primo ministro Netanyahu di sciogliere il parlamento ed indire elezioni anticipate. Le vivaci discussioni sull’opportunità di dare una marcata connotazione allo stato israeliano, capace di provocare una discriminazione delle minoranze, ha suscitato vivaci critiche, oltre che dall’opposizione, anche dall’interno della stessa compagine governativa, che ha provocato l’espulsione dall’esecutivo del ministro delle Finanze e di quello della Giustizia. La strada imboccata da Netanyahu appare quella della destra ultranazionalista, totalmente inconciliabile con le pressioni di chi vuole la pace con palestinesi e la soluzione dei due stati. Mettendo un fondamento legale ad Israele come nazione ebraica, si tradisce lo spirito laico del paese si prepara il terreno per una inammissibilità della divisione del territorio ebraico, mettendo la parola fine ai progetti internazionali per la chiusura della questione palestinese. Quella vincente pare la parte che rifiuta il dialogo con la diplomazia internazionale e vuole, come obiettivo finale, la cacciata dei palestinesi dal territorio che gli ultra ortodossi ritengono solo appannaggio della nazione israeliana intesa come luogo di elezione della popolazione ebrea. Siamo ad una configurazione che va oltre il sionismo e si va a fondare soltanto sulla religione. Una presa di posizione estremista in un contesto internazionale molto difficile che richiederebbe maggiore pragmatismo. Il premier israeliano, con la sua decisione di estromettere i ministri che contestavano la sua decisione ha evidenziato la propria difficoltà a gestire i conflitti interni su cui si basava la coalizione al governo, che non presentava certo una uniformità di vedute ed ha scelto di schierarsi con la destra più estrema, scelta, che se si analizza la condotta tenuta fin qui da Netanyahu, non rappresenta una sorpresa; del resto l’esponente politico ha sempre rallentato volutamente il processo di pace, ha continuato a praticare la discussa opera di costruzione delle colonie nel territorio formalmente palestinese ed ha condotto una guerra sproporzionata a Gaza, che ha colpito principalmente vittime civili. Ma il progetto di Netanyahu è quello di entrare in piena sintonia con la base ultranazionalista a cui si sommano tutti coloro che temono l’avanzata dell’islamismo e non vogliono opporre metodi pacifici per combatterla. Le prossime elezioni, quindi, rischiano di trasformarsi in un referendum sul futuro di Israele: o stato ultranazionalista sempre più isolato dal consesso internazionale o democrazia matura capace di accogliere le differenze e risolvere finalmente la questione palestinese con equità. Certo la mossa del premier israeliano indica che Netanyahu si giocherà tutto il futuro della sua linea politica nella prossima consultazione; questo fatto può essere supportato favorevolmente da sondaggi interni e dalle mutate condizioni del Congresso statunitense, dove i repubblicani hanno preso la maggioranza assoluta; questo fattore dovrebbe bilanciare la tendenza sempre più diffusa in Europa di riconoscere la legittimità dello stato Palestinese, che dopo il parere favorevole del parlamento svedese ha raccolto anche il voto positivo di quello inglese e francese. Resta però il problema dell’isolamento internazionale contro cui Israele andrebbe incontro nel caso della vittoria della tendenza ultra nazionalista, l’appoggio americano sempre assicurato non dovrebbe venire meno, ma Tel Aviv potrebbe dovere fronteggiare anche sanzioni economiche del tipo di quelle imposte dalla UE sulla merce proveniente dai territori occupati. Se questo strumento di pressione dovesse essere accentuato, le già difficili condizioni dell’economia israeliana potrebbero creare un malcontento ancora più diffuso e rompere gli equilibri del paese.
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