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lunedì 2 marzo 2015

Israele: manovre in Cisgiordania come strumento elettorale

Con l'avvicinarsi delle elezioni israeliane il governo in carica mette in atto una strategia tesa a raccogliere il voto di chi appoggia la politica dell’espansione nei territori e di chi è contrario alla soluzione dei due stati. Dopo la sanguinosa repressione estiva eseguita nella striscia di Gaza ora tocca alla Cisgiordania, attraverso manovre militari che hanno coinvolto ben 13.000 militari della riserva. La zona di intervento è quella occupata da Tel Aviv dopo la guerra del 1967 e l’esercitazione riguarda simulazione di una rivolta palestinese. Le manovra militari avvengono in un momento politico poco opportuno, per la questione in corso tra israeliani e palestinesi, dove i primi hanno sospeso i trasferimenti di fondi che riscuotono dalla tassazione, destinate all’Autorità nazionale palestinese, per la ragione che quest’ultima ha aderito ad organismi internazionali come la Corte penale internazionale. La misura sembra rientrare in un doppio programma che cerca di eliminare la legittimità delle richieste dei palestinesi per preservare la situazione attuale dei territori ed usarla come arma di propaganda politica nella competizione elettorale imminente. Si comprende come la strategia di Netanyahu faccia leva sui sentimenti più estremi del nazionalismo israeliano e sulla paura di una deriva violenta che potrebbe legare i palestinesi addirittura allo Stato islamico. La prova di forza delle manovre militari rientra in questo programma e vuole anche dimostrare la assoluta efficienza e preparazione nell’ipotesi di sviluppi violenti da parte dei palestinesi. Ancora una volta, quindi, il governo di Tel Aviv scarta l’ipotesi del dialogo confermando le ipotesi di chi non crede alla possibilità di una soluzione negoziata. Questo aspetto è rinforzato dalla sintonia con il Congresso americano, a maggioranza repubblicana, ed in aperto contrasto con la Casa Bianca. Questo particolare potrebbe però diventare un fattore contrario alle mire di Netanyahu: Israele ha necessità di tutto l’appoggio possibile dagli USA e quello del solo Congresso non basta, anche in previsione della consultazione elettorale, che tra due anni nominerà il nuovo presidente statunitense e dove il partito repubblicano non ha i favori del pronostico. Non si tratta di elementi da sottovalutare per la consultazione israeliana, dove l’opposizione presenta un programma diametralmente opposto, essendo favorevole riguardo alla soluzione dei due stati ed è fortemente contraria a fare diventare il paese uno stato confessionale. Le possibilità dell’opposizione di vincere le elezioni si giocano sulla capacità persuasiva di convincere l’elettorato progressista e laico a recepire le ragioni della convenienza per il paese a chiudere la questione palestinese, lasciando finalmente la Palestina diventare uno stato sovrano. Questo argomento sembra essere centrale nella competizione elettorale, tuttavia lo stato israeliano patisce una situazione di crisi economica, che potrebbe aggravarsi se il prossimo esecutivo continuasse la politica indiscriminata degli insediamenti nelle colonie, i cui prodotti sono già stati sottoposti a sanzioni economiche da parte dell’Unione Europea. La percezione occidentale che il problema tra israeliani e palestinesi sia una delle cause della presenza del fondamentalismo islamico sulla scena internazionale, potrebbe rappresentare per Tel Aviv un costo economico, ben oltre quello attuale della reputazione internazionale, già di per se non indifferente. Israele appare sempre più isolato ed iniziative come quella attuale, dell’esercitazione in Cisgiordania, sono destinate ad aumentare ulteriormente la distanza con i paesi occidentali, i cui parlamenti sono sempre più impegnati in pronunciamenti a favore dello stato palestinese.

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