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giovedì 4 giugno 2015
Le politiche sulla produzione del petrolio dell'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio
L'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio di trova a fronteggiare la crisi del crollo dei prezzi. Secondo alcuni economisti l’organizzazione non ha i necessari mezzi per combattere l’evoluzione del mercato, che si trova ad affrontare una sempre maggiore disponibilità di greggio, tale da determinare l’attuale abbassamento dei prezzi. La reazione che ci si attendeva sarebbe stata quella di ridurre la produzione per lasciare al mercato la determinazione del prezzo del barile di petrolio: ma così non è stato. L’organizzazione ha deciso di difendere la propria quota di mercato mondiale, cercando di mantenere la propria posizione dominante in questa maniera. Questa direzione è stata dovuta, in gran parte, alla decisione dell’Arabia Saudita, che ha giudicato fondamentale per la propria politica energetica all’interno del mercato globale, non perdere quote di mercato a beneficio di altri soggetti internazionali. Naturalmente questa decisione è andata a discapito della stabilità dei prezzi, che hanno subito una discesa considerevole, raggiungendo una diminuzione consistente rispetto allo scorso anno. Ciò è dovuto all’incremento estrattivo del greggio che ha visto aumentare notevolmente la produzione. Per l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio la quota ufficiale di produzione è di 30 milioni di barili al giorno, ma, ad esempio, nel mese di Aprile ne sono stati prodotti 31,2 milioni, ciò gli permette di mantenere la quota del 40% delle forniture mondiali, ma l’Agenzia internazionale dell’energia valuta un surplus dell’offerta pari a 2,5 milioni di barili. Le cause che hanno determinato una variazione nel comportamento dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, che non ha più privilegiato la stabilità dei prezzi, sono da ricercare nelle disponibilità della Russia, che ha concentrato il suo sistema industriale principalmente intorno all’industria energetica, diventando un competitor di primo livello dei paesi arabi, le nuove tecniche di estrazione, che hanno permesso agli Stati Uniti di raggiungere l’indipendenza energetica e che ne determineranno la capacità di diventare anche un paese esportatore. Washington ha già iniziato ad esportare petrolio verso la Corea del Sud, si tratta di greggio proveniente dall’Alaska, l’unico stato al quale è concessa l’esportazione per la norma varata nel 1973, in piena crisi petrolifera ed ormai ampiamente superata, tanto che altri stati federali ne hanno richiesto l’abrogazione, per potere accedere al mercato mondiale. Tuttavia l’Arabia Saudita, che è il paese leader dell’organizzazione, anche per fattori politici, ha abbandonato senza riserve la politica della stabilità del prezzo a favore della conservazione delle quote di mercato, costringendo a minori guadagni gli altri paesi esportatori di petrolio. Questa linea sembra essere condivisa dagli altri paesi produttori del Golfo, ma non da Venezuela ed Iran, che hanno i costi di produzione molto elevati, anche se Teheran sta ancora pagando il regime delle sanzioni a cui è sottoposta, ma che potrebbe presto essere abrogato, permettendo al paese iraniano di immettere nuove quantità di greggio nel mercato. L’aspetto politico della questione è comunque molto rilevante e si può inquadrare a diversi livelli di scenari. Il mantenimento delle quote di mercato impone ai concorrenti dei sauditi di abbassare il prezzo del loro greggio per essere competitivi, ma le quantità, anche sotto forma di riserve, di Riyadh, permettono all’Arabia Saudita di controllare agevolmente la propria quota, senza subire grandi contraccolpi. Certo resta ancora circa il 60% del mercato da dividere tra gli altri produttori, ma con l’autosufficienza statunitense, in realtà il mercato si restringe notevolmente. Restano così ampi margini di manovra per usare il prezzo e la produzione del greggio come arma di pressione politica. Impedire la vendita del petrolio, ad esempio, alla Russia, vuole dire costringere Mosca ad una drastica riduzione del proprio prodotto interno lordo, così come accade per Teheran. Vi è poi tutta l’area asiatica, che comprende la super potenza cinese ed i paesi emergenti, in questa area del mondo si gioca la partita fondamentale della vendita del petrolio, perché le necessità dell’industria aumentano la domanda di continuo. In questa zona gli arabi potrebbero agire in maniera differente mantenendo il prezzo costante, di fronte ad una domanda in crescita, al contrario di quanto accade in occidente dove la crisi industriale ha diminuito la richiesta di greggio. Una azione così combinata permetterebbe agli strateghi arabi di recuperare liquidità nelle zone dove la domanda è maggiore, compensando le perdite dove si è scelto di favorire il mantenimento della quota di mercato. Su tutto ciò grava comunque l’andamento dell’economia mondiale e la situazione geopolitica, in questo momento, notevolmente alterata.
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