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martedì 29 dicembre 2015
L'Iraq conquista Ramadi e si prepara alla sconfitta dello Stato islamico
La conquista definitiva di Ramadi è stata annunciata in forma ufficiale dal governo di Bagdad. Dal punto di vista strettamente militare la riconquista del centro urbano, capitale della provincia di Al Anbar, rappresenta l’apertura di una via preferenziale verso la conquista di Mosul, dalla quale, a sua volta, dovrebbe partire l’avvio per la sconfitta definitva dello Stato islamico, almeno in territorio irakeno. Esistono, tuttavia, ancora sacche di resistenza nelle parti periferiche della città, rappresentate dagli ultimi reparti di terroristi in ripiegamento: si tratta degli ultimi sopravvissuti all’attacco delle truppe regolari dello stato dell’Iraq. La riconquista di Ramadi è stata al centro dell’azione della coalizione contro il califfato, per la sua importanza strategica: non è azzardato dire che detiene il dominio sulla città può decidere le sorti del conflitto. Situata a soli 90 chilometri della capitale, Bagdad, la conquista di Ramadi, avvenuta lo scorso maggio, da parte dello Stato islamico aveva fatto temere una progressiva avanzata verso il cuore politico del paese e quindi una totale conquista dell’Iraq da parte del califfato. Questo fattore avrebbe avuto il potere di permettere una espansione della sovranità dello Stato islamico, che lo avrebbe reso ancora più difficile da sconfiggere. La preparazione della battaglia è iniziata a novembre e gli stessi scontri si sono protratti per un periodo relativamente lungo, nonostante il massiccio impiego dell’appoggio aereo; questo perchè si è scelto di non schierare sul terreno effettivi sciiti, in modo da non alienarsi l’appoggio essenziale delle tribù sunnite. Gli scontri di terra, infatti, hanno avuto la particolarità di essere avvenuti tra islamici di matrice sunnita; questa strategia è stata giudicata la più efficace per riconquistare la fiducia delle tribù sunnite, uniche strutture politiche rimaste in vigore nella zona. Il segnale del governo di Bagdad è stato quindi chiaro, malgrado la forte componente sciita nell’esecutivo irakeno, la volontà di riprendere il dialogo costruttivo con la parte sunnita, inizialmente in netta contrapposizione al governo, si è rivelato fondamentale nel momento attuale e dovrà continuare nel futuro per scongiurare altre derive verso organizzazioni terroristiche. Questo atteggiamento è stato concordato con la Casa Bianca, che ha spinto per questa soluzione, anche per evitare di ripetere l’errore precedente, di avere favorito un governo esclusivamente espressione della minoranza sciita. Malgrado il lavoro militare non sia completato, dato che occorre ripristinare la sovranità di Bagdad nella parte del paese ancora occupata dallo Stato islamico, il governo irakeno deve cominciare da subito nei territori riconquistati la stabilizzazione istituzionale e sociale, mediante l’instaurazione di strutture statali capaci di permettere il giusto dialogo con la capitale in un quadro del rispetto delle autonomie locali. La società sunnita delusa dal governo a maggioranza sciita, aveva inizialmente appoggiato lo Stato islamico, per poi abbandonarlo per l’efferatezza dell’applicazione della legge islamica avvenuta in modo distorto e violento; ora deve partire un processo dove si deve stabilire una fiducia reciproca per evitare il ripetersi di eventualità analoghe. Nello scenario irakeno, quindi, malgrado tutte le difficoltà presenti, paiono intravedersi concrete possibilità di uscita, tanto militari, quanto politiche, se si riuscirà a trovare un modo per conciliare le esigenze delle varie parti che formano l’insieme dello stato: sunniti, sciiti e curdi; l’alternativa è tra una divisione del territorio statale, sopratutto tra sunniti e sciiti sul modello federale che governa la regione curda o la separazione effettiva dello stato in tre entità separate. Questa eventualità non sembra essere gradita agli Stati Uniti, che temono una eccessiva influenza iraniana sugli sciiti irakeni ed anche la creazione di due blocchi contrapposti, basati sulle differenze religiose, confinanti e quindi potenzialmente capaci di creare alterazioni degli equilibri. La soluzione federale sembra la più appropriata se si sapranno bilanciare le esigenze delle singole parti con quella generale dello stato, il cui governo deve essere in grado di diventare maggiormente inclusivo nei processi decisionali, nei confronti di tutte le parti in causa. Questa prospettiva, in un certo senso ottimistica, non può essere, almeno per il momento, applicata alla Siria, dove le profonde divergenze tra regime di Assad, opposizione democratica, gruppi religiosi islamici non appartenenti allo Stato islamico non permettono una unità di intenti, neppure sulla lotta allo Stato islamico, che potrebbe costituire una base comune per sviluppare un dialogo per una potenziale trattativa. Nello scenario siriano pesa in modo considerevole l’entrata in campo della Russia, che rischia di riportare al centro delle trattative Assad, un elemento di rallentamento per l’eventuale processo di pace, Se per ora la priorità è quella di sconfiggere lo Stato islamico, anche in Siria si dovrebbe anticipare i tempi per creare le basi per la convivenza futura, ma ciò non pare per ora possibile, proprio per i dissidi sulla presenza o meno del dittatore di Damasco; eppure è necessario elaborare una soluzione che possa concepire ancora la presenza di Assad, magari in una porzione ridotta del territorio dello stato siriano, pensando soluzioni alternative per le altre zone.
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