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mercoledì 17 febbraio 2016
Il caso del ricercatore italiano ucciso in Egitto e la condiscendenza occidentale verso i regimi arabi
La tragica uccisione del ricercatore italiano in Egitto deve obbligare a farre molte considerazioni nei rapporti che gli stati occidentali intrattengono con nazioni guidate da regimi autoritari, considerazioni sia di ordine morale, che politico. Lo scandalo suscitato, giustamente, in Italia per la morte del cittadino italiano, avvenuta in modo barbaro e violento è molto forte, ma non sembra accompagnata, ne ora e, sopratutto prima, da valutazioni analoghe per gli episodi che riguardano i dissidenti locali, di cui spesso non viene neppure ritrovato il cadavere. Il caso egiziano è l’esempio di un certo atteggiamento utilitaristico tenuto dai governi occidentali, dopo che sono fallite le primavere arabe e che hanno preso il sopravvento le tendenze più estremiste dei movimenti islamisti. L’arrivo al potere, tramite regolari elezioni, di partiti politici formati da personale non abituato ad operare in condizioni democratiche e profondamente influenzati, anche dal punto di vsita politico, da una religiosità invadente, ha determinato una situazione dove il mancato rispetto delle regole democratiche era la norma, non vi era, cioè, il necessario rispetto delle minoranze, che si pretendeva di assoggettare, in sostanza, alla legge islamica. Naturalmente ciò non era condiviso da una parte consistente della società egiziana, tra cui i militari, che hanno sempre detenuto il monopolio della forza e non era, altresì, approvato dalle potenze occidentali, giustamente preoccupate dal radicalismo dilagante. La soluzione è stata quella di avere favorito l’ascesa di un regime militare autoritario al posto di un religioso autoritario, questo è stato funzionale agli interessi occidentali, ma non allo sviluppo della democrazia in una nazione da sempre considerata una guida nel mondo arabo, come l’Egitto. L’occidente , come aveva sbagliato a valutare in modo totalmente positivo le primavere arabe, non considerando cioè i loro possibili sviluppi, condizionati dall’assenza di riferimenti precisi circa il funzionamento della democrazia, ha sottovalutato i modi con cui il regime militare avrebbe esercitato il proprio potere, che di fatto, ha usurpato. Il ricorso alla repressione in modo totale della giunta militare guidata da Al-Sisi, doveva suscitare maggiore sdegno e grandi proteste nei governi occidentali, anche tramite una pressione diplomatica forte, capace di imporre sanzioni e restringere le forniture militari, attraverso le quali il regime si mantiene in vita. Doveva essere particolarmente indicativo il fatto che i bersagli della repressione violenta non erano soltanto i fanatici religiosi, ma anche i partiti laici, gli unici che potevano assicurare una transizione democratica al paese e, per questo, ugualmente pericolosi, come gli integralisti islamici, per il regime militare. Il risultato è stato che l’Egitto si trova in una condizione repressiva ed autoritaria probabilmente superiore a quella subita da Mubarak, ed ha, quindi, peggiorato la propria situazione. Il caso del ricercatore italiano rappresenta una questione particolare perchè la vittima è straniera, ma i rappresentanti delle organizzazioni dei diritti umani denunciano come la normalità il ricorso alla violenza contro gli oppositori interni, mediante l’uso consueto di tortura ed assassinio. Fatte salve queste considerazioni la domanda che i governi occidentali devono farsi è se sia ancora lecito intrattenere normali rapporti diplomatici o addirittura legami di alleanza con governi fortemente in contrasto con le regole democratiche. La questione, naturalmente, non riguarda soltanto l’Egitto, ma anche gli stati del Golfo, con l’Arabia Saudita prima degli altri, la Turchia ed altri. Al di fuori di una logica puramente strumentale agli interessi occidentali, inquadrata in un regime esclusivo di real politik, la contraddizione appare più che evidente. Se non si possono superare tutte queste remore, sempre che esistano nei pensieri di chi governa, ci si dovrebbe adoperare per una attenuazione della limitazione dei diritti, passo da individuare come punto di partenza per un discorso più allargato. Il problema è che non si individuano, a livello globale, obiettivi di lungo periodo ma la politica estera occidentale si adagia nella via più comoda per conseguire risultati immediati di modesta entità, in una visione più simile a quella economica rispetto a quella politica. La convinzione che l’Egitto sia una diga contro l’integralismo ha fatto passare sotto silenzio, brutalità e violenze incompatibili con gli ideali democratici che dovrebbero essere alla base dei governi occidentali; tuttavia, nello specifico caso del ricercatore italiano, il governo di Roma, non ha compiuto i dovuti passi per proteggere la sua stessa sovranità violata dalla barbarie esercitata contro un suo cittadino. Il basso profilo scelto dall’esecutivo italiano appare in linea con un comportamento diplomatico che non vuole turbare i rapporti consolidati, ma ciò, sopratutto nel lungo periodo, costituisce un elemento di debolezza per l’autorevolezza di una nazione; non prendere le necessarie contromisure di tipo sanzionatorio verso il regime egiziano, rappresenterebbe, non soltanto, un passo dovuto ma obbligato per tutelare gli interessi italiani e non prestarsi ad essere connivente con un regime che fatto dell’uso della violenza lo strumento quasi esclusivo attraverso il quale regola l’opposizione politica. Occorre mandare segnali forti a questi stati, che usando la vicinanza con l’occidente come mezzo di comodo per apparire quello che non sono, si autorappresentano come governi democratici, degni di stare nel consesso internazionale. L’Egitto e non solo, meritano sanzioni esemplari per i loro comportamenti, a cominciare dall’allontanamento dei loro diplomatici, fino ad incorrere in sanzioni di tipo economico. Fino ad allora l’occidente sarà complice della brutalità e della violenza con le quali questi regimi soffocano ogni forma di dissenso.
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