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martedì 3 maggio 2016

Il Trattato di libero scambio non conviene all'Europa

Crescono le opinioni contrarie al trattato transatlantico di libero scambio, che dovrebbero raggiungere Stati uniti ed Unione Europea, per prevenire ulteriori forme di associazione economica in grado di creare zone di libero scambio di importanza tale da mettere in pericolo l’economia occidentale. Si tratta di una forma di globalizzazione limitata ad un territorio più delimitato per contrastare forme di associazionismo internazionale emergenti e capaci di spostare la ricchezza e definire nuovi standard produttivi. Vista con questa ottica, che non affronta certamente il problema in profondità, per l’occidente si potrebbe interpretare in una accezione positiva, tuttavia entrando maggiormente in profondità all’interno delle materie sulle quali vertono le trattative i dubbi espressi da più parti appaiono legittimi e giustificati. Per prima cosa la pressione statunitense per fare accettare il trattato verte su un abbassamento delle tutele legali che in Europa mirano a proteggere i consumatori; questo indirizzo è motivato dalla volontà di abbattere i costi e rendere più competitivi i prodotti americani, ma si traduce, attraverso una scarsa considerazione degli standard europei, in una sorta di nuovo imperialismo a danno degli alleati, sviluppato con il solo intento di ottenere un maggiore guadagno da quella che è ritenuta ancora la zona più appetibile, dal punto di vista commerciale, del pianeta, visto che riguarderebbe 850 milioni di persone, con un giro d’affari stimato intorno ai 100 miliardi di dollari. Le richieste di Washington dimostrano che l’intenzione di raggiungere l’accordo va in una sola direzione: quella dei vantaggi per gli Stati Uniti; infatti la determinazione dei negoziatori statunitensi ha fornito la percezione di volere invadere addirittura la sovranità dei singoli stati con richieste, che dovrebbero essere considerate senza dubbio alcuno, di natura irricevibile. Pretendere di passare attraverso l’approvazione delle industrie americane nel caso di variazione di norme dell’Unione Europea che riguardano le loro aree di produzione, appare una forzatura troppo esagerata per non incontrare resistenze ed opposizioni, così come la pretesa di abolire i marchi di origine, sopratutto nel settore agroalimentare, con il solo scopo di riaggiustare la bilancia dei pagamenti della Casa Bianca in questo comparto, sembra un atto di forza troppo squilibrato, anche solo per continuare la trattativa. La maggiore sorpresa è che la pressione per raggiungere questo risultato provenga da un presidente come Obama, che pur essendo in scadenza, ha sempre voluto presentarsi come un soggetto democratico, non solo nel senso di appartenenza al proprio partito, ma inteso sul piano internazionale da una condotta impostata ad un trattamento paritario dei propri alleati. Questo cambiamento è forse dovuto ad un debito con la parte dell’industria e della finanza che l’ha sostenuto, ma questo atteggiamento ne offusca non poco l’immagine fino ad ora portata avanti, tanto è vero che dall’argomento si sono tenuti lontani o lo hanno criticato apertamente, tutti i candidati alla nomination presidenziali dei rispettivi schieramenti. Il pericolo concreto è che si colga questa occasione per elaborare delle normative ancora una volta a danno dei lavoratori ed a vantaggio di banche, istituzioni creditizie e grandi gruppi industriali come le multinazionali, comprimendo ulteriormente i già risicati margini di manovra della piccola e media industria e di tutti i suoi addetti. Sarebbe la direzione contraria in cui l’Europa dovrebbe procedere per riguadagnare consensi al progetto europeo, che appaiono, ormai in netto calo, a vantaggio degli euroscettici e dei gruppi populisti. Ancora una volta il governo tedesco è quello che preme di più per la conclusione del trattato, anteponendo i propri interessi particolari, di tipo economico nel breve periodo, all’interesse generale di tipo sociale e politico e non tenendo conto della crescente opposizione al trattato che si sta sviluppando in maniera esponenziale proprio in Germania. Sebbene le ragioni d partenza, come già affermato, si possano condividere, i sacrifici, che vengono chiesti all’Europa, per raggiungere l’accordo sembrano essere maggiori dei vantaggi: dal punto di vista economico il rifiuto americano ad una regolamentazione dei mercati finanziari indebolirebbe troppo la struttura creditizia europea se confrontata con quella USA; l’impossibilità di concorrere sul suolo americano,per le imprese europee, alle gare sugli appalti pubblici, impedirebbe l’espansione in un settore di grandi prospettive; la questione agroalimentare trattata in maniera troppo sbilanciata a favore di Washington costituirebbe un duro colpo per produzioni di eccellenza europee e le richieste USA di ammorbidire la legislazione europea sulla tutela dei consumatori, andrebbero tutte a danno delle imprese europee, e conseguentemente dei loro lavoratori, costrette a concorrere in condizioni di continuo svantaggio con le imprese americane, comprimendone la redditività e la relativa occupazione. Ma è dal punto di vista politico che l’Unione Europea pagherebbe, se possibile, un prezzo ancora più alto, accelerando la sua dissoluzione firmando un accordo totalmente penalizzante per i suoi cittadini, i quali in molti paesi andranno al voto entro tempi brevi: la firma di questo trattato costituirebbe un favore eclatante per le forze poltiche contrarie al sistema comunitario, dando il potere ad esecutivi in grado, non solo  di annullare o non ratificare l’accordo, ma anche di rivalersi politicamente sugli organismi di Bruxelles che dovessero dare l’assenso alla firma di questo trattato sconveniente.

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