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martedì 12 luglio 2016

La Corte dell'Aja afferma che Pechino non ha diritti di sovranità nel mare cinese meridionale

La sentenza della corte dell’Aja, sulla disputa territoriale della sovranità del mare prospiciente le coste delle Filippine, a cui ambisce la Cina, è destinata, oltre a diventare un precedente della giurisprudenza del diritto internazionale, anche un fattore di potenziale aggravamento della situazione di quello scenario ed in altri analoghi. La Corte dell’Aja ha stabilito che la sovranità rivendicata da Pechino, su alcune isole del mare cinese meridionale,   non è sostenuta da alcuna base giuridica. Lo spazio marino in questione è considerato da più parti una vera e propria autostrada del mare, importantissima per il trasporto delle merci e quindi adi alto valore strategico, contiene giacimenti di gas e petrolio ed, inoltre, è specchio acqueo di interesse economico anche per il settore della pesca. Il fatto che imbarcazioni cinesi, così come di altri stati, hanno operato storicamente nella zona marina in questione, non costituisce una prova del controllo esclusivo delle acque, come sostenuto da Pechino. Anzi la Cina ha avuto un comportamento di interferenza quando queste zone erano colonie spagnole ed ha danneggiato la barriera corallina con la costruzione abusiva di isole artificiali, operazione che non era nei suoi diritti e che costituisce un abuso. Questa condotta ha, quindi , costituito una violazione palese dei diritti di sovranità del paese filippino rispetto alla sua piena disponibilità della zona economica esclusiva e della piattaforma continentale.  Questa sentenza oltre che giuridica ha un innegabile valore politico, perchè nega, attraverso il giudizio favorevole a Manila,  alla Cina le sue rivendicazioni come potenza regionale e globale e crea un precedente non irrilevante su tutte le altre contese che Pechino conduce con altre nazioni asiatiche, come la Corea del Sud, il Giappone, il Vietnam e la Malesia, circa la pretesa sovranità di alcune isole e porzioni di mare, che Pechino pretende di prendere a questi paesi, anche attraverso tattiche aggressive che prevedono un pericoloso uso delle forze armate.  Per la Cina questa sentenza rappresenta, sul piano diplomatico, una severa sconfitta, come ha dimostrato la reazione del governo di Pechino, che si è affrettato a non riconoscere la competenza della Corte dell’Aja e quindi a definire come infondata e nulla la sua decisione. Anche le dichiarazioni del ministero della difesa cinese, sono state espresse in questo senso, ribadendo che l’ente governativo farà di tutto per preservare l’unità e la sovranità del paese, lasciando intendere in maniera implicita, che le zone oggetto della sentenza vengono considerate come parte integrante del territorio della Cina. Si tratta di un atteggiamento che è destinato ad innalzare la tensione intorno alla contesa e che pone la Cina in una posizione quasi di difesa, che potrebbe essere seguita dalla dimostrazione della forza militare del paese, capace di portare ad un crescendo pericoloso, in grado di aprire più teatri di crisi internazionali; sarà determinante vedere gli sviluppi di questo scenario, considerando non evitabile un impegno diretto degli Stati Uniti, che considerano i mari asiatici il teatro centrale della propria politica estera, anche in funzione di supporto ai tanti alleati coinvolti nelle contese con  la Cina. Per ora Pechino si è limitata a controbattere alla sentenza con argomenti giuridici, affermando che le dispute terriotriali non sono soggette alla convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e che questa convenzione è stata violata dalle Filippine, che ha impedito alla Cina di scegliere il modo della gestione del contenzioso, come stabilito anche dagli accordi bilaterali. Pechino sostiene anche che queste divergenze dovevano essere oggetto di negoziati tra le due parti e non sottoposte ad un giudice. Queste argomentazioni appaiono però deboli di fronte ad una opinione internazionale, che proprio in forza di questa sentenza, tenderà a fare crescere la pressione diplomatica per fermare la Cina nella sua azione di espansione marittima. Infatti anche se la Corte dell’Aja non dispone degli strumenti coercitivi in grado di fare rispettare la propria sentenza, il giudizio che ha emesso porterà ad una sicura reazione diplomatica, che aspettava soltanto una argomentazione giuridica in grado di sostenere una modalità di contrasto concreta. Ad essere protagoniste saranno quindi le strutture internazionali e gli organismi diplomatici, che dovranno essere in grado di impedire che la contesa si sposti su un piano, anche solo potenziale, di tipo militare; ciò per scongiurare i pericoli più imminenti, ma anche per prevedere ed evitare futuri contenziosi di questo tipo. La Cina, se ambisce veramente a diventare una superpotenza, dovrà cercare modalità alternative per affermarsi come tale e, come prima cosa, dovrà accettare il verdetto degli enti internazionali, come la Corte dell’Aja, dimostrando una statura mondiale e non solo da piccola potenza regionale.

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