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martedì 17 gennaio 2017
La Cina si propone come guida della globalizzazione
La partecipazione della Cina al World Economic Forum di Davos, segnala la volontà del governo di Pechino di porsi come nazione protagonista della globalizzazione, in aperto contrasto con la tendenza protezionista, che dovrebbe caratterizzare il nuovo corso degli Stati Uniti. Sembra di essere di fronte ad una contraddizione in termini: un paese che si definisce comunista diventa il principale promotore della produzione e del mercato senza barriere, mentre quello che è il campione del liberismo, che sarà governato da un esecutivo con una chiara connotazione di destra, sembra rinnegare il libero scambio per favorire, almeno sul proprio territorio, le industrie di nazionalità americana. In realtà questa contraddizione è soltanto superficiale: la Cina è diventata il paradiso degli imprenditori, sia cinesi, che stranieri, assicurando condizioni di lavoro senza garanzie per i lavoratori, con leggi estremamente flessibili a favore di industrie e di imprenditori, attirati anche da un costo del lavoro estremamente basso; l’assenza di norme democratiche a regolare la vita civile e la presenza di un governo forte ed autoritario, hanno garantito una situazione stabile e certa, quindi ottimale per gli investitori ed produttori. Trump ha ottenuto molti voti, probabilmente determinanti per la propria vittoria elettorale, proprio dalla base operaia degli Stati Uniti, una parte della società americana che ha perso potere d’acquisto e lavoro grazie alla delocalizzazione delle industrie, una delle caratteristiche che ha reso vincente la Cina, nel senso di capacità di attrarre le imprese estere sul suo territorio. Nonostante la buona ripresa interna degli Stati Uniti, ottenuta grazie alle misure espansive di Obama, Trump è riuscito a catalizzare il voto della classe operaia bianca con la promessa di riportare le industrie americane più tradizionali, come l’automobile, entro i confini dello stato e di attuare una ferrea protezione delle merci statunitensi attraverso il ripristino di dazi doganali. Quello che sarà da verificare è se la manovra di Trump per ampliare la platea degli occupati non chiederà come contropartita una compressione dei diritti o dei salari dei lavoratori americani. Trump sembra avere una visione della politica basata essenzialmente sull’economia come aspetto principale, a cui sacrificare perfino la linea diplomatica che gli USA hanno storicamente fin qui avuto. Una tale visuale implica che l’avversario principale non sia più la Russia, che non può competere con l’economia americana, ma diventi la Cina, che insidia da tempo il primato americano. Le due concezioni sono diametralmente opposte: la Cina per prosperare, in questa fase storica, ha bisogno della globalizzazione più spinta, mentre Trump individua il protezionismo come fattore di sviluppo dell’economia americana. Pechino può sfruttare questa tendenza alla chiusura di Trump, che sembra avere l’intenzione di diminuire l’azione geopolitica e geostrategica all’estero degli USA, cercando di accreditarsi come grande potenza. I grandi investimenti nel settore militare, le dimostrazioni di forza nel Mare Cinese, i grandi investimenti in Africa, sono stati i segnali di una volontà di diventare protagonista sulla scena internazionale, tuttavia mitigata dalla caratteristica della politica estera cinese di non intromettersi mai negli affari interni delle altre nazioni, fattore che ne ha impedito un ruolo attivo nelle tante crisi internazionali; ma ciò non è ancora mutato nel comportamento di Pechino, piuttosto il governo cinese preferisce adottare metodi più morbidi, come quello di partecipare al forum di Davos. Se l’America si ritira nei propri confini, conquistare sempre di più l’Europa diventa fondamentale perchè resta il mercato più ricco. Perchè questa conquista sia effettiva occorre che la Cina trovi una assonanza sempre maggiore con le grandi istituzioni finanziarie e la grande industria europea, cercando un terreno comune di intesa, sia sulle regole, che sulla disponibilità ad investire. Per la Cina ciò è obbligatorio per fare crescere il proprio mercato interno e cercare di risolvere il grande debito degli enti locali, che grava, in ultima istanza, sul governo centrale. Ma queste appaiono questioni di secondaria importanza se paragonate al conflitto potenziale che gli USA di Trump hanno più volte minacciato di fare scoppiare contro un’economia che ritengono condotta con mezzi, per lo meno, sleali, come l’eccessiva svalutazione della valuta cinese. Il confronto tra le due economie sembra essere destinato a salire di grado per andare su di un livello politico, con conseguenze tutte da prevedere.
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