Trump l’aveva promesso in campagna elettorale: l’ambasciata USA in Israele sarebbe stata spostata da Tel Aviv, la capitale dello stato israeliano, a Gerusalemme. Probabilmente era un debito verso finanziatori della sua campagna elettorale o, forse, un tentativo di fare un gesto ad effetto in un settore, quello della politica internazionale, del quale non sembrava, e non sembra tutt’ora, avere compreso i complicati meccanismi e gli equilibri fortemente instabili da cui è caratterizzata. Dopo circa un anno dall’insediamento alla Casa Bianca, questa decisione non era ancora stata attuata: forse per la questione più urgente della Corea del Nord, forse per un sistema della composizione dell’amministrazione americana, che ha più o meno impedito fino ad ora, che l’inesperienza internazionale di Trump, unita al disprezzo delle regole del diritto internazionale, provocassero dei danni ingenti, con ricadute quasi certe sul piano mondiale. Ma ora è venuto il momento di mantenere fede alla promessa elettorale: l’ambasciata americana in Israele non sarà più nella capitale dello stato, caso unico al mondo, dato che la massima rappresentanza di un paese all’estero deve essere collocata soltanto nella capitale di quella nazione. La domanda da farsi è perchè proprio adesso si deve attuare questa decisione? La percezione è che non può essere casuale la concomitanza dello spostamento dell’ambasciata statunitense con l’attenzione delle testate giornalistiche e delle televisioni mondiali sul momento di grande difficoltà di Trump sul coinvolgimento della Russia nella sua elezione. Trump ed il suo entourage lanciano una vera e propria bomba mediatica per distogliere l’attenzione, sia interna, che esterna, dagli sviluppi sull’indagine; questa strategia, se veritiera, denuncia un grave stato di difficoltà, perchè mette gli Stati Uniti di fronte alla responsabilità di un possibile sconvolgimento mondiale, che rischia di trascinare Washington in un impegno diretto molto gravoso. Appare superfluo ricordare che nel momento contingente la preoccupazione della Corea del Nord e della sua capacità atomica sarebbe dovuta bastare come impegno internazionale. La vicenda di Gerusalemme, invece, rischia di compromettere le relazioni con gli alleati arabi, come Turchia, Egitto e Giordania e favorire la ripresa del terrorismo palestinese su grande scale. Una implicazione da non sottovalutare è che l’Arabia saudita, aldilà di un atteggiamento di facciata, non interferirà più di tanto con il nuovo alleato, Israele, lasciando il campo aperto ad una opzione per la questione palestinese da parte iraniana. Se questo fattore dovesse verificarsi, sia direttamente, che indirettamente, il confronto tra sunniti e sciiti sarebbe destinato a registrare una pericolosa escalation, che potrebbe essere propedeutica alla riapertura di un conflitto mediorientale. Le variabili in gioco sono diverse: una da considerare in maniera attenta è lo Stato islamico, che, nonostante la sconfitta militare sia sempre vicina, potrebbe riciclarsi in grande stile come movimento terroristico puro, cioè senza l’ambizione di esercitare una sovranità territoriale, almeno per il momento, e di saldarsi con le posizioni più estreme dei palestinesi, mettendo sotto pressione Israele ed anche negli Stati Uniti con possibili gravi atti terroristici. La situazione delle milizie palestinesi più estreme rischia di diventare incontrollabile per una dirigenza che non ha saputo evitare che la propria città simbolo assuma il simbolo di capitale di Israele. Il rischio concreto è che i palestinesi accettino l’aiuto militare di chiunque glielo offra: siano le milizie del califfato, che le forze iraniane o le milizie loro alleate. Potrebbe, cioè, crearsi uno stato di cose dove i soggetti su fronti opposti si verrebbero a trovare su fronti comuni e l’obiettivo diventerebbe Israele. Lo scenario sarebbe catastrofico per la pace del mondo intero, se Tel Aviv fosse costretta ad impegnarsi in prima persona per difendere i suoi confini e la sua pace interna e ciò coinvolgerebbe in modo automatico gli Stati Uniti ed il mondo occidentale. La pericolosità di Trump alla Casa Bianca diventa così sempre più concreta: non resta che sperare che l’inchiesta federale porti all’impecheament.
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